BIONDO, Michelangelo
Nacque a Venezia il 25 sett. 1500. Che discendesse dallo storico Flavio non è certo, sebbene lo Zeno (contraddetto dal Mazzuchelli) pensasse trattarsi di un discendente del ramo familiare stabilitosi a Venezia. Trasferitosi a Napoli, studiò arti e medicina con A. Nifo, "sub cuius disciplina plerisque annis militavimus". Ancora giovane, una prepotente passione per una nobildonna napoletana, la ventenne Giulia Marzia Martina, lo portò a un infelice matrimonio nel 1521. Addottoratosi in filosofia e medicina, si diede alla carriera di medico, che lo porterà "in locis per Italiam et extra".
A Napoli e in Campania, "in quibus consumpsimus iuventutem et maximam partem virilitatis" il B. trascorse armi felici e strinse durevoli amicizie, tra cui ricorderà quelle per P. Palmieri e P. Tucca; qui, nel 1535, iniziò l'attività di poligrafo col moraleggiante Speculum iuventutis, in trentanove dialoghi. In questo giro d'anni si stabilisce a Roma. Spirito irrequieto, afflitto da un matrimonio che ben presto gli aveva rivelato una moglie vanitosa e prepotente (ne ebbe due maschi e sei femmine), cerca fortuna e protezione nella corte di Paolo III. Le condizioni singolarmente felici della cultura romana favoriscono i suoi interventi in ogni ambito dottrinale, facendone un affrettato ma efficace interprete dei gusti correnti: non a caso sono questi gli anni più fecondi della sua produzione. Non c'è personalità di Curia o nobile romano di cui il B. non cerchi di accattivarsi la simpatia: dal pontefice a Pio de' Carpi, da Cristoforo degli Spiriti a A. Pucci, a Marzio (che egli ebbe in cura dal 1542 al 1544) e Fabio Colonna, con cui fu in intimità.
Nel 1539 il B. compone il trattato di pediatria De affectibus infantium et puerorum e il Dialogus de invidia. Nel 1540 stampa Angitia cortigiana, dialogo tra la cortigiana Angitia e il B. che, nelle vesti di Aristeo, le espone le dottrine d'amore di Nifo, svelandole la reale natura di cortigiani e cortigiane (delle quali dà un fitto elenco). L'operetta (da cui fu tratta la parte più felice, una Novella, Livorno 1871), di contro alla celebrazione letteraria dei modelli cortesi, a suo modo demistifica e condanna l'amor cortigiano, ma in nome d'un piatto moralismo.
A questo periodo deve risalire un viaggio in Francia del B., ricordato nell'opera sua più fortunata: il De partibus ictu sectis stampata assieme al De origine morbi gallici, a Venezia, ove tornando s'era momentaneamente trasferito, nel 1542 (vennero successivamente riedite nel 1555 dal Gessner in Chirurgia, pp. 224-241, e nel 1610 dallo Uffenbach nel Thesaurus chirurgiae, pp. 965-84).
Nella prima il B. difende Galeno, Avicenna, Ippocrate e i "methodici" loro interpreti, contro gli "empirici" ignari d'astrologia e d'antica medicina. Di questi però divulga (da ciò la fortuna della opera) l'uso di medicare le ferite con acqua pura, contro l'impiego d'impiastri infetti che ritardavano la guarigione. In realtà, più che la ricetta egli crede efficace la formula propiziatoria da recitare nell'impartirla, né per questo rinuncia alla farmacopea da lui lungamente sperimentata. Nella seconda il B., oppositore della "novità" del male, critica la tradizionale cura della sifilide con decotto di guaiaco, la cui bontà attribuisce ai soli additivi come il vino, solo perché "nemo ex antiquis" riconobbe al legno virtù curative. Dà cure sintomatiche (anche una del Nifo) che, ristabilendo l'equilibrio umorale, vincano le affezioni della pelle.
Tra i medici romani il B. dice d'esser stato "per quinquennium", alludendo forse a una licenza quinquennale rilasciatagli dal Collegio dei medici (ricordiamo che il 10 apr. 1545 il protomedico G. B. Teodorici rilasciò una licenza perpetua di chirurgia a certo "M.º Michelangiolo"; cfr. A. Bertolotti,La medicina,chirurgia e farmacia a Roma nel sec. XVI, in Il Buonarroti, s. 3, II [1884-87], p. 192). Il 9 luglio 1542 muore la moglie del Biondo: liberato dalla "furia del mondo", la sua attività non conosce più soste.
Ostinato oppositore dei nuovi medici (i "neoterici"), il B. vede nel medico astrologo (il "methodicus") il solo che, nell'intima comunione tra cosmo e natura umana, sappia operare col favore degli astri. Così, nel 1544 di nuovo a Roma, in quella corte papale ove l'astrologia era una voga, pubblica l'opuscolo di fisiognomica De cognitione hominis per aspectum, il De maculis corporis e il tolemaico Tabulae annuae de anticipatione stellarum, ristampato in volgare l'anno dopo, da lui tradotto e aggiornato secondo i calcoli di Abrāhām ibn 'Ezrā. Intransigente e desideroso di emergere, interviene nella polemica tra Fracastoro, sostenitore dell'origine atrabiliare dei giorni critici, e il suo amico A. Turino, archiatra pontificio, che ribatteva ch'essi, pur se non derivanti dalla luna, ne imitavano le fasi. Questa parve al B. una tesi troppo attenuata. Pubblica allora in risposta il De diebus decretoriis et crisi in cui, rimproverandoli d'aver errato "in doctrina de crisi, in via Galeni", sostiene, con rigida ortodossia, la diretta dipendenza delle crisi dalla luna. A sostegno, stampava di seguito il trattatello medico astrologico De luminaribus et criticis diebus di Abrāhām ibn 'Ezrā, in una traduzione che è forse di Enrico Bate de Malines. Stampa poi un prontuario di farmaci,Compendiosa de medicamentis, un'interessante operetta di cinegetica, dedicata a Francesco I,De canibus et venatione (ora in parte ristampata e tradotta da G. Illuminati, in Arte della caccia, I, 1, Milano 1965, pp. 213-283) e un nuovo trattato d'esortazione morale,De viro illustri atque iniquo. Nel 1545, su consiglio di L. Gaurico, pubblica una silloge di libri ippocratici a uso dei medici Ex libris Hyppocratis de nova et prisca arte medendi deque diebus decretoriis epithomae, da lui integralmente e infelicemente tradotti. Al 1545 risale anche un De anima, dialogo tra il B. e il prediletto figlio Scipione, in cui riponeva ambiziose ma inutili speranze (scriverà - forse neppur da solo - delle Rime e una Nova prudentia): "disputatiuncula" di scarso interesse, contiene una sommaria dossografia sull'anima e discute le teorie sull'origine dell'anima umana, attenendosi ad Aristotele.
Nel 1545, dopo "doi lustri", si conclude il soggiorno romano del Biondo. Deluso e consapevole d'aver cercato inutilmente protezione (con gesto polemico dedicava il De anima all'arcangelo Michele "Dei ministro"), fa definitivo ritorno a Venezia, non senza l'impressione d'aver vissuto nella corte paolina un'esperienza culturale non più rinnovabile. Ma non disarma: impianta in casa una tipografia (il suo nome ricorre in un Elenco manoscritto di stampatori veneziani: cfr. H. Brown,The Venetian Printing Press, London 1891, p. 400), ove raccoglie una quantità di manoscritti inediti. Instancabile, l'anno stesso pubblica un trattato di mnemotecnica,De memoria, con ricette, periodi e congiunzioni astrali propizi alla memoria. Nel 1546 stampa, non come "author" ma "collector", il manuale per naviganti De ventis et navigatione (dove apprendiamo che perse il padre in naufragio e dei figlioli per malattia) e l'opera sua più singolare: Angoscia,Doglia e Pena,le tre furie del mondo (riedita, non senza errori da G. Zonta in Trattati del Cinquecento sulla donna, Bari 1913, pp. 71-220; cfr. anche pp. 377 s. e 389-393).
Già edite nel 1542, le prime due parti Angoscia e Doglia venivano ora ristampate, con ritocchi, insieme con una terza, la Pena, e dedicate, con voluta ironia, al fratello Francesco, sposo di fresco. Vero modello di trattato misogino, il B. vi riversa, con enfasi, la sua amara esperienza di marito ("subito che averai detto donna, hai detto tutto il male che si può dir in una parola"); concepito come commento a due sonetti e una strofe dialogati tra Socrate e l'immancabile Nifo, descrive tristezze e ingannevoli gioie del matrimonio. All'ovvietà del materiale dà vita un impasto linguistico estremamente composito e la sincerità espressiva d'uno sfogo personale. Il temperamento incostante del B., l'incapacità a riconoscersi in una vocazione intellettuale o in un modello letterario e culturale definito, danno al suo stile la piena libertà d'acquisire parole e costrutti da varie fonti. Ma l'intenzione dichiarata d'usare un "dire cottidiano", pur sempre impari ai medi del "divino" Aretino e del Molza, ci dice a chi s'ispirasse il suo consapevole stato di "irregolare". Ad essi il B. doveva esser legato da amicizia, se nel giugno 1542 s'era recato dall'Aretino per dargli notizie del Molza e se, il 22 agosto seguente, l'Aretino gli inviava una lettera ostentatamente laudativa per il De origine morbi gallici. A questi va aggiunto A. F. Doni, che ebbe per lui parole di lode.
Nel 1547, abbandonate le antiche aspirazioni, il B. scrive la Patientia pastorale, ultimo conforto e "rimedio grande fra tanti invidi et malevoli". D'impianto bucolico, l'opera contiene una traccia autobiografica in chiave pastorale, da cui si desume la data di nascita del Biondo.
Torna poi all'attività d'editore col De originibus rerum di Guglielmo da Pastrengo; l'edizione, assai scorretta, rimase, stando al Montfaucon, pressoché ignorata. Di G. Caldera stampa le Concordantiae poëtarum philosophorum et theologorum, anch'esse, come il B. riconosce, non prive d'errori. A quest'opera di divulgazione lo portavano non già i tradizionali interessi della ricerca umanistica, ma il gusto d'"indagatore delle nascoste scritture", come disse di sé. Semmai la sua fiducia nell'astrologia e una certa affinità intellettuale lo spingevano verso la cultura medievale. Nel 1548 pubblica, senza nulla "mutare vel transferre", l'opera fisiognomica di Pietro d'Abano, "praestantissimus vir ac sapientissimus philosophus", con il titolo di Decisiones physionomiae, e lo scritto pseudo-ippocratico di medicina astrologica De significatione mortis et vitae (che è invece parte dei Prognostica de decubitu di Galeno) nella traduzione, dal B. riveduta, di Guglielmo di Moerbeke. Inoltre scrive il Rethorica nova, opuscolo d'oratoria forense a uso dei legisti.
Nel 1549 il B. scova, traduce e stampa - ritenendola opera "da incerto philosopho antichamente scritta" - il Della domatione del poledro, ch'era invece l'importante trattato duecentesco di mascalcia De cura equorum di G. Ruffo; ne traduce solo il primo terzo. Traduce ancora, destinandola a agricoltori, medici e semplicisti,Dell'historia delle piante di Teofrasto.
Del 1549 è anche l'assai citata Della nobilissima pittura et della sua arte (poi tradotta e annotata da A. Ilg, in un'edizione rimproveratagli dallo Schlosser, come Von der hochedlen Malerei, per le Quellenschriften für Kunstgeschichte und Kunsttechnik, V, Wien 1873), della quale esiste una copia manoscritta settecentesca nella Biblioteca Nazionale di Firenze, cod. Palatino 702.
Nell'intenzione del B., più che un trattato d'arte, essa vuol essere una guida con cui "s'insegna a dipengere" (tratto costante di B. poligrafo-tipografo fu concepire il libro come strumento d'utilità immediata), e ciò basterebbe a collocarla al di fuori della trattatistica teorica veneziana d'un Pino o d'un Dolce.
A un esordio in cui compare la Pittura, personificata, secondo il topos consolatorio boeziano, segue, dopo un excursus dossografico, una elencazione delle parti della pittura: "circonscritione", "compositione" e "receptione dei lumi", e un'analisi della tecnica, fondata sulla "intercisione" della "piramide visiva", che chiaramente denunciano l'affrettata compilazione sul Della pittura albertiano. Né la celebrazione dei pittori del tempo obbedisce a una determinazione critica: essa nasce dalla mai dimenticata esperienza romana. Artisti, opere e luoghi ricordati sono, in gran parte, quelli ch'ebbe modo di incontrare e conoscere a Roma. Solo che se ne discosti, il B. cade in errori sconcertanti (attribuisce la Cena leonardesca al Mantegna) o nella esaltazione campanilistica del Tiziano. Troppo quindi, come qualcuno ha fatto, è considerare cosciente deroga al colorismo veneto l'elogio puramente declamatorio di Michelangelo. La parte di maggior interesse rimane così l'ultima, dove il B. detta dieci soggetti di pittura con involuta sensibilità figurativa, di gusto manierista, che rivela esemplarmente il suo eclettismo culturale. L'insolita chiusa del libro, che alla formula d'uso "dalla Casupola del Biondo" aggiunge "nel tempo della rinnovatione delli suoi martiri" ci fa azzardare l'ipotesi che egli indicasse così le seconde nozze, certamente avvenute, stando a una testimonianza manoscritta di F. Zanni, letta dal Degli Agostini.
Dopo sedici anni d'ininterrotta attività compaiono a lunghi intervalli gli ultimi scritti del Biondo. Nel 1552 pubblica lo Averoys compendium necessarium nella traduzione, da lui scoperta, di Abramo di Balmes, e una filza di lettere del 1464-65: Delle lettere missive alli suoi Principi. Da ricordare l'edizione, non datata, della lettera di P. P. Vergerio a Ludovico degli Alidosi sulla distruzione della statua di Virgilio.
Il legista padovano Marco Mantova Bonavides, ignorandone l'autore, aveva spedito la lettera al Biondo. Questi, colpito dall'eloquenza dell'ignoto autore, ne curava per primo la stampa: De diruta statua Virgilii P.P.V. eloquentissimi oratoris epistola (cfr. P. P. Vergerio,Epistolario, a cura di L. Smith, Roma 1934, pp. LXII, 190, 504, dove l'edizione è infondatamente datata al 1540).
Nel 1555 a Venezia scoppia la peste. Ai mille opuscoli e bandi il B. aggiunge un Di preservatione di pestilenza per la guarigione e prevenzione della peste, che per lui è dovuta in primo luogo all'influenza astrale e, in via subordinata, al contagio "perché ciascuno spira nell'aria infetto". Nel 1565, dopo dieci anni di silenzio, compare, con la singolare intestazione "Michaelis Angeli Blondi secundi", l'Idiomorphosis, divagazioni erudite in forma di commento ad alcuni versi delle Metamorfosi ovidiane.
L'opera, che per linguaggio, ampiezza, veste tipografica, abbondanza - ma non tipo - di dottrina, sembra insolita per il B., reca tuttavia gli inconfondibili tratti del suo estro e indubitabili testimonianze autobiografiche. Troppo tarda per essere stata compilata "ad commodum filii nostri Scipionis", fu con ogni probabilità stampata e dedicata a Massimiliano II, da poco imperatore, allo scopo d'ottenerne un compenso. L'enigmatico appellativo "secundus", sempre congiunto al nome, servì forse al B. per dar segno del suo rinnovamento, avvenuto secondo le regole della resipiscenza senile.
Di lui si conserva inedita una lettera a s. Carlo Borromeo, nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (cod. F 173 inf.).
Secondo la testimonianza di F. Zanni (Degli Agostini), il B. morì a Venezia e certamente dopo il 1565.
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