mezzo (sost.)
Il termine m., come sostantivo, assume grande varietà di valori semantici nel diverso contesto del linguaggio dantesco. Attraverso il latino scolastico medium e medietas rende i termini aristotelici μέσον (e anche κέντρον), μεσότης, μεταξύ già fissati in un preciso significato specializzato nell'ambito rispettivamente delle dottrine logiche, cosmologiche, etiche e psicologiche.
I significati fondamentali possono essere così distribuiti:
1." Metà di una determinata quantità ": Veramente questo arco non pur per mezzo si distingue da le scritture; ma... in quattro parti si divide, e chiamansi quattro etadi (Cv IV XXIII 12), se s'intenda per mezzo " a metà ", come la correlazione con quattro parti suggerisce.
2. " Punto od oggetto al centro di un determinato spazio o di un gruppo di oggetti ": innanzi tutto il centro geometrico di un cerchio o di una sfera: del suo mezzo fece il lume centro (Pd XXI 80). Anche in senso traslato, per indicare il centro della candida rosa: quella pacifica oriafiamma / nel mezzo s'avvivava... / e a quel mezzo, con le penne sparte, / vid'io più di mille angeli festanti (XXXI 128 e 130).
In quanto centro geometrico: il punto più nobile di tutti, che secondo la dottrina pitagorica è il luogo naturale del fuoco, il più nobile degli elementi: Pittagora... ponendo lo mezzo nobilissimo intra li luoghi de li quattro corpi simplici... dicea che 'l fuoco... secondo lo vero al mezzo discendea (Cv III V 5; cfr. Arist. Caelo II 13, 293a 30-293b 1). Il centro dell'universo e della terra, che coincidono, lo mezzo di tutto (Cv III V 6), secondo la locuzione aristotelica (II 14, 296b 7-8 το μέσον τοῦ παντός); v. anche Cv II VI 10. Tutti i gravi muovono a tale centro: lo mezzo / al quale ogne gravezza si rauna (If XXXII 73: cfr. Mn I XV 6 e v. Arist. op. cit., 10-12). Intorno a esso e alla terra immobile ruotano le sfere celesti: La natura del mondo, che quïeta / il mezzo e tutto l'altro intorno move (Pd XXVII 107: cfr. B. Nardi, Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967², 168 ss.).
A quest'accezione si avvicina il luogo di Cv III V 9 la stella [li] sarebbe sempre in sul mezzo del capo, dov'è riferimento allo " zenith capitum ": " il punto in cui la verticale del luogo, prolungata verso l'alto, incontra la sfera celeste " (Busnelli).
Estensivamente, " centro ", " regione centrale di un corpo o di uno spazio ": di una città (Vn XL 1, 3, e 9 6), di un cerchio infernale (If X 134, XVIII 4), di una bolgia (XXIX 141), di un pantano (XX 83), di un lago (XX 67); in senso figurato, del cuore (Rime LXVII 35), della mente (Rime dubbie III 5 1). In Rime dubbie IV 10 indica l'interno di una tomba.
3. Ciò che è compreso tra due estremi ed equidistante da essi, " punto medio ": E dicea che 'l fuoco era nel mezzo di queste (Cv III V 5), cioè nel punto medio della distanza tra terra e antiterra, secondo la dottrina pitagorica (cfr. B. Nardi, Alla illustrazione del Convivio, p. 91); sovresso 'l mezzo di ciascuna spalla (If XXXIV 41); Nel fondo erano ignudi i peccatori; / dal mezzo in qua ci venien verso 'l volto (XVIII 26), cioè dalla ideale " mezzeria " che divideva in due parti uguali la bolgia: analogamente per una cornice del Purgatorio (Pg XXVI 28).
" Vertice " di un arco, punto equidistante dagli estremi di esso: per tutto l'arco / che fa dal mezzo al fine il primo clima (Pd XXVII 81). Anche If I 1 Nel mezzo del cammin di nostra vita può essere inserito in questo ambito semantico tenendo presente Cv IV XXIII 9 lo punto sommo di questo arco (dell'arco della vita). " Massima circonferenza " di una sfera: l'equatore celeste equidistante dai poli: Lo cerchio che nel mezzo di questi s'intende (Cv III V 8), o l'orizzonte celeste qui est medium duorum emispaeriorum (Mn III XV 3). Rispetto al corpo umano, " la vita ", " la cintola ": dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto (If XXXI 62). In una serie numerica dispari il numero che occupa il posto medio e che ha sempre uguale distanza di posti da ogni coppia di estremi: annumerando li cieli mobili, da qualunque si comincia o da l'infimo o dal sommo, esso cielo di Marte è lo quinto, esso è lo mezzo di tutti, cioè de li primi, de li secondi, de li terzi e de li quarti (Cv II XIII 20).
In senso cronologico: l'istante o comunque lo spazio di tempo medio nella durata di un evento: quasi nel mezzo de lo mio dormire (Vn XII 3); lasciando la sesta, nel mezzo di questa parte (Cv IV XXIII 14: si allude alla parte del giorno che va dalla terza alla nona ora).
Talora la ‛ medietà ' non comporta necessariamente il concetto dell'equidistanza: nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna (Vn V 1; v. anche il § 2); Tesifón è nel mezzo (If IX 48: tra Megera e Aletto); nel mezzo strinse potenza con atto / tal vime, che già mai non si divima (Pd XXIX 35: i cieli - potenza e atto congiunti - si situano nella cosmologia dantesca, tra gli angeli e la terra).
4. " Grado intermedio " tra due opposti stati, qualità, affezioni: però che... tra l'anima umana e l'anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia (Cv III VII 6; v. Mn III XV 3 homo solus in entibus tenet medium corruptibilium et incorruptibilium); Epicuro... tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno (Cv IV VI 12).
5. " Termine intermedio " per il quale si perviene a un fine, " strumento " a tal fine: la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa (Cv IV IX 10): spiega l'Ercole (Il pensiero politico di Dante, Milano 1927, I 49): " L'Italia sola, mancando lo Imperatore, rimane senza mezzo alcuno a la sua governazione, ossia privatis arbitriis derelicta omnique publico moderamine destituta (Epist. VI 1 3) ".
Altri intende qui per m. il vicario imperiale: " Si può... pensare che qui Dante voglia dire che la misera Italia è rimasta non già, come altri luoghi, solo mediatamente soggetta alla governazione dell'imperatore, ma immediatamente... soggetta alla governazione di lui stesso; e però tanto più risente gli effetti del non essere cavalcata da lui... " (Busnelli, ad l.). Per quest'accezione si confronti Mn I IV 5 medium per quod itur in illud ad quod, velut in ultimum finem, omnia nostra opera ordinantur, e VE I III 2 cumque de una ratione in aliam nichil deferri possit nisi per medium sensuale.
6. Con riferimento all'uno o all'altro dei sensi fin qui illustrati, preceduto da ‛ in ' (ma in Pg VII 72 da ‛ a '), il vocabolo forma una locuzione avverbiale: essa in Pd XX 37 Colui che luce in mezzo per pupilla allude a David, posto nel centro dell'occhio dell'aquila; in Pg VIII 33 la gente in mezzo si contenne specifica come le anime dei principi rimangano comprese tra i due angeli calati dal cielo sulle sponde opposte della valletta, quasi " affidate alla loro vigilanza e alla loro tutela " (Sapegno).
Più numerosa la serie delle locuzioni prepositive in cui ‛ in m. ' è seguito da ‛ di ' o altra preposizione: normalmente tale locuzione corrisponde a " fra ": questa mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo, in mezzo a due gentili donne (Vn III 1); lo cui corpo io vidi giacere sanza l'anima in mezzo di molte donne (VIII 1); li due spazii, che sono in mezzo de le due cittadi imaginate (Cv III V 20); trovai Amore in mezzo de la via (Vn IX 9 3: qui piuttosto " per via ", " lungo la via "); cotesta cortese oppinïone / ti fia chiavata in mezzo de la testa / con maggior chiovi che d'altrui sermone (Pg VIII 137: dove sta per " profondamente ", entro l'ambito della metafora); Tolomeo dice... che Giove è stella di temperata complessione, in mezzo de la freddura di Saturno e de lo calore di Marte (Cv II XIII 25: " a un grado intermedio fra ").
‛ In m. ' può essere seguito immediatamente da articolo e sostantivo (l'ellissi della preposizione ‛ di ' in questi casi è fatto normale nell'italiano antico): in mezzo l'alpi (Rime CXVI 61), in mezzo la caldaia (If XXI 56). In costruzioni di tal genere, nel caso in cui il sostantivo che segue è maschile singolare, non è dato però stabilire se il termine sia esso stesso sostantivo o aggettivo: fender per mezzo / lo core (Rime CIII 53); èli, tra l'una e l'altra, mezzo lo cerchio [la metà di un meridiano] di tutta questa palla (Cv III V 11); a punto sovra mezzo 'l fosso piomba (If XIX 9); da mezzo 'l petto uscia fuor de la ghiaccia (XXXIV 29); e similmente in Cv III V 14, Pg II 57, XV 7, Pd XXXII 41.
Le locuzioni ‛ di m. ' e simili hanno valore di aggettivo, come nei seguenti esempi: Co' piè di mezzo li avvinse la pancia, If XXV 52: i piè di mezzo sono piedi " mediani " fra li anterior (v. 53) e li diretani (v. 55); lo [cerchio] del mezzo (Cv III V 20: l'equatore terrestre); partesi per due archi... Li punti [di mezzo] de li quali archi, ecc. (III V 14, accettando l'aggiunta proposta dall'Angelitti e accolta dal Vandelli); E quel di mezzo, ch'al petto si mira, / è il gran Chirón (posto appunto fra Nesso e Folo: If XII 70).
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Il concetto filosofico di mezzo. - Secondo la dottrina etica aristotelica: il " giusto mezzo " che costituisce l'oggetto proprio della virtù morale, in quanto essa evita l'eccesso e il difetto nelle azioni e nelle passioni: vertute... / Questo è, secondo che l'Etica dice, / un abito eligente / lo qual dimora in mezzo solamente (Cv IV Le dolci rime 87). Cfr. anche IV VI 13, XVII 7, XX 1.
La definizione (Eth. Nic., ediz. Bywater, 116, 1106b 36-1107a 1) alla quale D. rimanda, si trova in uno dei passi più discussi dalla recente critica aristotelica. Cruciale in tale contesto è l'interpretazione del termine μεσότης.
Si consideri l'intero passo (1106b 36-1107a 8; trad. ital. A. Plebe): " La virtù è quindi una disposizione del proponimento (ἕξις προαιρετική; ‛ habitus electivus ') consistente nella medietà (ἐν μεσότητι οὖσα) rispetto a noi stessi (πρὸς ἡμᾶς) definita - cioè essa medietà - (leggendo ὡρισμένῃ) dalla ragione e come l'uomo saggio la determinerebbe. È una medietà - chiarisce proseguendo il filosofo - tra due vizi, uno per eccesso, l'altro per difetto; e precisamente mentre alcuni vizi sono per difetto, altri per eccesso, di ciò che si deve (τοῦ δέοντος) sia nelle passioni che nelle azioni, la virtù invece trova e sceglie il giusto mezzo (τὸ μέσον) ".
Aristotele conclude però proponendo una duplice prospettiva nella considerazione della virtù: " perciò secondo la sua essenza, e secondo la ragione che stabilisce la sua natura, la virtù è una medietà (μεσότης ἐστίν), ma rispetto al bene e alla perfezione essa è al punto più alto (ἀκρότης) ". Per un riguardo, dunque, la virtù si trova a essere ‛ in mezzo ' (sia pure in senso relativo: " rispetto a noi stessi ") tra due estremi, i vizi per eccesso e per difetto; cosicché, com'è precisato più oltre (1108b 27-28), " vi è maggior opposizione degli estremi tra loro che non verso il giusto mezzo ". Per altro riguardo invece, considerandone cioè il valore " rispetto al bene ed alla perfezione ", il ‛ giusto mezzo ', che è un bene, si trova " al punto più elevato " rispetto ai due eccessi, che in quanto tali sono mali; in altri termini, com'è detto nell'Etica Eudemia (ediz. Susemihl, III 7-, 1234a 34 - b1) " il mezzo è più contrario agli estremi che non gli estremi tra loro ". Si tratta, in questo secondo caso, di una considerazione assiologica: il giusto mezzo è ‛ meglio ', in una scala di valori a un Bene supremo, dei due opposti eccessi.
Il Düring (pp. 448-449) richiama, oltre all'Etica Eudemia, anche la Grande Etica (I 9; che egli considera opera " essenzialmente " aristotelica), e rileva che almeno in due passi dei Topici (II 7 113a 5-8; IV 3 123b 27-30) che si riferiscono al Περὶ τἀγαθοῦ, " spicca la caratteristica dottrina platonica che ἔδεια [= mancanza] e ὑπερβολή[= eccesso] appartengono allo stesso genere, e hanno come contrario il τὸ μέτριον ". Per questa via egli indica, accettando le conclusioni del Krämer, la derivazione e l'evoluzione della dottrina aristotelica della μεσότης dalla dottrina platonica dei principi (Cfr. in particolare Politico 283c-285c e Filebo 16c-18c; 23c-26e. Per una rassegna delle varie opinioni a proposito dell'evoluzione dell'etica aristotelica, cfr. Berti, pp. 76-85; sulla posizione del Περὶ νἀγαθοῦ, pp. 111-116; e per un'accurata disamina della problematica ad esso connessa, cap. III, 250-316).
È indubbio d'altro canto che nella definizione della virtù come medietà tra due estremi sia presente un contenuto obiettivo-quantitativo del termine μεσότης. Ciò è confermato dall'immediato contesto: Aristotele prende le mosse dall'osservazione che " in ogni cosa continua e [non " omogenea oppure " come traduce il Plebe] divisibile è possibile distinguere il più il meno o l'uguale " (Eth. Nic. 1106a 26-27 - per la correlazione tra ἴσον e μέσον cfr. Gauthier-Jolif 2(1), 138). Anche se, chiarisce di seguito il filosofo, non si tratta di una rigida medietà aritmetica (κατ'αὐτὸ τὸ πρᾶγμα; rispetto alla cosa stessa), ma di un concetto di proporzione (πρὸς ἡμᾶς; rispetto a noi) che permette di proporzionare, secondo un piano razionale, l'intensità di una passione o azione alle circostanze e agl'individui in questione (cfr. " ciò che si deve " nella definizione. E " se noi proviamo queste passioni quando si deve, in ciò che si deve, verso chi si deve, allo scopo e nel modo che si deve, allora saremo nel mezzo e nell'eccellenza ", 1106b 21-23). Così come in ogni dieta, ad esempio, la quantità del cibo è proporzionata alle caratteristiche dell'individuo in questione.
Manca però tra gl'interpreti l'accordo sul preciso senso da dare a questo portato quantitativo implicito nel termine μεσότης, e sulla sua origine. Si è voluto dare rilievo, sulla scorta degli esempi aristotelici, all'uso che del concetto di μεσότης ha fatto la scuola ippocratica. F. Wehrli ha dedicato un articolo alla discussione dei suggerimenti avanzati in questa direzione. Pur concludendo affermativamente circa la mutuazione da parte di Aristotele della concezione del giusto mezzo dalla speculazione medico-fisiologica, egli tende però a vedere questa dipendenza filtrata attraverso il relativismo morale della sofistica (p. 47). Nell'ambito del corpus aristotelico stesso, è stato fatto richiamo (con particolare insistenza dal Burnet nella sua edizione e commento all'Etica Nicomachea, pp. 69-73) alla dottrina espressa in Gen. et Corr. II 7, 334b 2-30, dove a spiegare la formazione di carni, ossa, ecc., e in generale dei corpi composti è centrale il concetto di μεσότης. La giusta misura (μεσότης = ratio) degli elementi componenti è il principio formale dei composti. Similmente si è addotto Anima II 11, 423b 27-424a 14, dove la sensazione è definita come " una sorta di mezzo - cioè proporzione - tra gli opposti - cioè le qualità opposte rispetto al senziente - presenti negli oggetti di percezione " (424a 4-6).
Il Düring (p. 449) vede nella dottrina di " proporzione " testimoniata da questi passi l'origine dell'elemento obiettivo-quantitativo presente nella definizione dell'Etica Nicomachea; elemento nuovo che s'innesta sulla primitiva considerazione assiologica che troviamo nella Eudemia e che conduce Aristotele, nella conclusione considerata, a " un tipico compromesso " (il giusto mezzo, cioè per un verso, elemento intermedio tra gli estremi, per altro verso estremo esso stesso). W.F.R. Hardie ha invece ultimamente criticato come superflui e non sufficientemente provati questi raffronti con le dottrine fisiche e psicologiche, e ha negato ogni tipo di stretta analogia che si è voluta stabilire tra medio etico e medio matematico. Richiamandosi alla preliminare avvertenza (in Eth. Nic. 1103b 34 - 1104a 10) sull'approssimatezza della conoscenza non matematica, egli ritiene che non si debba uscire dal contesto dell'Etica Nicomachea, per spiegare la dottrina morale di Aristotele. Piuttosto si deve mettere in relazione la dottrina del medio con la trattazione nel lib. VII, di continenza e incontinenza (ἐγκράτεια e ἀκρασία), e dar credito ad Aristotele della distinzione tra due classi di buone azioni: quelle del continente (ἐγκρατής) che riconduce le proprie passioni, che lo inclinerebbero in senso contrario, alla giusta regola, e quelle del temperante (σώφρων) i cui desideri stessi, né eccessivi né in difetto, sono in armonia con la giusta regola.
La difficoltà che siamo andati fin qui discutendo, della coesistenza delle due prospettive non è naturalmente sfuggita a s. Tommaso. In Sum. theol. I II 64 1, egli risponde a tre obiezioni contro la teoria che la virtù morale consista nel mezzo: " 1) ultimum repugnat rationi medii... 2) quod est maximum non est medium 3) virginitas... tenet extremum et est perfectissima castitas ". Partendo dal principio fondamentale che il valore della virtù morale sta nel suo conformarsi alla regola della ragione (" bonum virtutis moralis consistit in adaequatione ad mensuram rationis "; e s'intenda: la ragione illuminata da Dio, che dirige l'uomo al suo fine ultimo, cioè la visione attuale di Dio), egli chiarisce che, per quanto riguarda la sua relazione alla ragione come al suo principio formale, la virtù è un estremo, poiché è conformità a tale ragione, e il vizio, per eccesso e difetto, poiché difformità dalla ragione, è l'altro estremo. Se invece si considera la virtù morale in relazione alla sua materia, in quanto riconduce la passione alla regola della ragione, allora essa è un medio. In questo senso essa mantiene il carattere di medio, senza pericolo di contraddizione, anche quando l'adeguazione alla retta ragione comporta un tendere a un massimo (come nel caso già ricordato da Aristotele della magnanimità). Allo stesso modo la verginità o perfetta castità, se serbata in accordo al volere di Dio, e per il sovrannaturale fine ultimo dell'uomo (la visione beatifica), costituisce un'adeguazione alla retta ragione, e perciò propriamente un mezzo. Un eccesso invece se serbata per altro motivo come ad esempio per superstizione o per vana gloria (cfr. anche Eth. Nic. Expositio II 2 n. 263). Il medesimo tema si ritrova in Eth. Nic. Expositio II 2 n. 256; 7 nn. 322 e 326.
In questo contesto etico, nel senso di " giusta misura secondo giustizia " deve intendersi Ep V 8-9 Huius iudicium... semper citra medium plectens, ultra medium praemiando se figit.
Nel preciso senso filosofico-teologico di causa seconda, causa intermedia, riferito in particolare all'azione creatrice di Dio: Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo (Cv III XIV 4). Cfr. anche III XIV 6. D. sviluppa in questo passo la similitudine tra la ‛ virtù ' divina e il raggio di luce. Onde m. rispetto al concetto che concorre a significare sta per " causa seconda "; nel contesto proprio però della similitudine dev'essere ricondotto al senso di cui si dirà fra breve (cfr. Cv III XIV 7 ss.). Lo stesso può dirsi per Pd XXX 122 ché dove Dio sanza mezzo governa, / la legge natural nulla rileva. Altre figure usa D. per esprimere lo stesso concetto: Ciò che da lei sanza mezzo distilla / ... piove / ... spira (VII 67, 70 e 142).
Sulla dottrina della creazione mediata e immediata e il Liber de causis, cfr. B. Nardi, D. e la cultura medievale, pp. 319 ss., dove corregge G. Busnelli (Cv III, appendice V, 464 ss.). Analogamente l'autorità del monarca deriva direttamente da Dio senza " causa intermedia ", senza fonte intermedia di autorità: auctoritas temporalis Monarchae sine ullo medio in ipsum de Fonte universalis auctoritatis descendit (Mn III XV 15).
Nel contesto della psicologia aristotelica l'elemento interposto tra senziente e sentito, attraverso il quale l'azione dell'oggetto percepito si esercita sull'organo di senso. In particolare nella descrizione del fenomeno della visione (e in questo senso occorre in D.) l'elemento trasparente o diafano, quale l'aria o l'acqua, che permette alla forma visibile di giungere all'occhio: Queste cose visibili... vengono dentro a l'occhio... per lo mezzo diafano, non realmente ma intenzionalmente, sì quasi come in vetro transparente. E ne l'acqua ch'è ne la pupilla de l'occhio, questo discorso, che fa la forma visibile per lo mezzo, sì si compie, perché quell'acqua è terminata... sì che la forma, che nel mezzo transparente non pare, [ne l'acqua pare], accettando l'integrazione del Vandelli. Oppure [quivi pare] - seguendo la Simonelli - lucida e terminata (Cv III IX 7 e 8). Conviene che lo mezzo per lo quale a l'occhio viene la forma sia sanza ogni colore, e l'acqua de la pupilla similemente: altrimenti si macolerebbe la forma visibile del color del mezzo e di quello de la pupilla (III IX 9). Transmutasi questo mezzo di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza... Transmutasi anche questo mezzo di sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori de la terra che continuamente salgono (III IX 12 altre tre volte nello stesso paragrafo).
Per i richiami a luoghi paralleli in Avicenna, Alhazen, Vitelo, ecc., cfr. B. Nardi, Alla illustrazione del Convivio, pp. 96-97. Cfr. anche Vn XI 3, XII 8, Pg I 15, XXIX 45, Pd XXVII 74, XXX 4, XXXI 78. Forse da ricondursi a questo significato anche Rime CII 35 e Rime dubbie XVII 2.
Il termine usato da Aristotele in questo senso è τὸ μεταξύ, talvolta τὸ μέσον (cfr. H. Bonitz, Index Aristotelicus, Graz 1955², 460b " id quod interpositum inter τὸ αἰσθητήριον et τὸ αἰσθητόν utrumque coniungit ". Per Aristotele infatti tre sono gli elementi essenziali della percezione: 1) l'oggetto esterno che stimola la percezione, 2) l'organo proprio della percezione, 3) un " mezzo " che in certo modo connetta l'oggetto e l'organo.
Ogni sensazione è basata su di un contatto: a) diretto, come nel caso del tatto, b) indiretto, attraverso elementi, quali l'aria e l'acqua (che siano trasparenti e conduttori di suoni e odori; De Anima, ediz. Ross, III 1, 424b 27-30).
Secondo il noto principio aristotelico (ricordato anche da D. in Cv IV X 8-9 e III X 2): " l'azione e passione possono aver luogo solo tra cose che sono in contatto " (Gen. et Corr. 16 322b 22-25); " la sensazione - d'altra parte - consiste nell'essere mosso e nel subire l'affezione; è infatti un certo tipo di alterazione ἀλλοίωσις ", Anima II 5, 416b 33-35. Ora questa ἀλλοίωσις è un mutamento dove ciò che era dissimile, anzi contrario, diviene simile, nel senso che l'organo senziente è assimilato all'oggetto percepito (III 1, 425b 22 ss.). La percezione in altre parole stabilisce una certa medietà o proporzione in una serie di estremi o contrari che definiscono una gamma di qualità (chiaro-oscuro, dolce-amaro, duro-morbido, ecc.; Anima II 12, 424a 28 ss. e III 2, 426a 27 - 426b 7). Ciascuna di queste serie di qualità è percepibile da un suo proprio senso; c'è cioè un particolare organo di senso che può essere affetto da esse. Per questo si dice che il senso è ciò che può ricevere le forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l'impronta dell'anello senza il ferro o l'oro (Anima II 12, 424a 17-28).
Il m., che ha una sostanziale omogeneità con l'oggetto percepito e l'organo senziente, è un elemento essenziale della percezione, perché è proprio attraverso il m. che mette in correlazione sia spazialmente che qualitativamente senziente e sentito, che ha luogo la ἀλλοίωσις e la forma delle cose giunge all'organo del senso (Beare, pp. 236-239). D'altra parte secondo Aristotele è un dato di fatto dell'osservazione empirica che l'oggetto sentito se posto immediatamente a contatto con l'organo non produce sensazione (Anima II 7, 419a 25-28; 11, 423b 20-22). Il m. dunque viene postulato da una parte a dar conto di fatti empirici, dall'altra, come elemento essenziale nello schema aristotelico, fornisce una base alla dottrina dell'ἀλλοίωσις con l'omogeneità elementare di senziente-mezzo-sentito e una continuità causale nel passaggio - essenziale al fenomeno della percezione - da potenza ad atto (Anima II 5, 417a 6 ss.). Perciò Aristotele ritiene che tutti gli organi di senso siano " interni ", e tutti abbiano bisogno di un m. (a differenza di Platone Rep. 507c-508d). Anche il tatto e il gusto; poiché la carne e la lingua sono m. per il tatto e il gusto allo stesso titolo che l'aria e l'acqua sono m. per la vista, l'udito e l'odorato. La differenza sta solo nel fatto che in quest'ultimo caso gli oggetti percepiti sono a una certa distanza; nel tatto e nel gusto invece sono a contatto e vengono percepiti simultaneamente col medio (Anima II 11, 423b 12-17).
Per una deduzione scolastica a provare che " medium... ad omnem sensum essentialiter exigitur ", cfr. Alberto Magno Anima 114 3, 151b-152b.
Secondo il principio generale che siamo andati illustrando, anche per vedere è necessario che tra l'oggetto percepito e l'organo senziente intervenga un m.: se lo spazio intermedio fosse vuoto non si avrebbe percezione del tutto. Tale m. è costituito dall'aria (di solito), e (o) da altro corpo trasparente all'esterno dell'organo; all'interno di esso, dall'acqua contenuta nella pupilla. Questi elementi sono omogenei in quanto hanno in comune la proprietà di esser trasparenti o diafani.
Ma il diafano per essere attualmente trasparente necessita della presenza " di una certa natura ch'è la stessa dell'elemento incorruttibile del quale sono costituiti gli astri (τὸ ἄνω σῶμα) ". La luce è la presenza di questa natura nel corpo potenzialmente trasparente: essa è l'attualità del diafano (la sua potenzialità è la tenebra). Solo in presenza della luce infatti i colori possono esser visti. Colore, l'oggetto proprio del vedere, il " visibile ", è ciò la cui natura è di " mettere in moto (cioè stimolare) ciò ch'è trasparente in atto ". Il colore è dunque un fenomeno nella luce così come la luce è un fenomeno nel diafano (Anima II 7, 418a 26, 419b 3). In altri termini, si può considerare propriamente la luce come il medio della vista; il corpo diafano (l'elemento al quale la luce sopravviene e nel quale è diffusa come principio attualizzante) come il medio della luce (Beare, p. 57).
Tale duplicità del m. della vista è sottolineata in molti luoghi anche da Alberto Magno, per es.: " Oportet igitur intercidere duplex medium: unum agens quod est lumen quod agit in coloribus esse spirituale, et alterum deferens quod est diaphanum... - infatti - lumen... nihil separat a corpore colorato per esse materiale: sed similem formam generat in medio, sicut similitudo formae sigilli generatur in cera vel in aliquo alio, et ab illo cuius forma sensibilis imprimitur oculo " (Sensu et Sens. I 10, p. 25a).
Ugualmente anche l'oggetto proprio della visione, il colore, ha un " duplex esse ", secondo Alberto, " unum scilicet materiale et alterum formale. Materiale autem dicimus, quod fit per qualitates transmutantes materiam, quae sunt calidum, frigidum, umidum et siccum... Aliud esse formale, et hoc est a lumine... " (Anima II 3 7, p. 109b).
È chiaro dunque che doppio sarà anche il ‛ trasmutarsi ' del m.: nel suo principio formale di molta luce in poca luce, sì come a la presenza del sole e a la sua assenza; nel suo principio materiale, in quanto elemento, di sottile in grosso, di secco in umido, per li vapori de la terra che continuamente salgono (cfr. sopra, Cv III IX 12).
L'oggetto proprio della visione è, come si è visto, il colore: il m. dovrà dunque essere privo di un colore suo proprio (cfr. sopra, Cv III IX 9). Infatti l'elemento diafano è in potenza rispetto alla luce che lo attualizza; il diafano illuminato a sua volta, è in potenza rispetto a ogni particolare colore, non deve cioè di per sé averne uno determinato in atto; " ideo diaphanum potest recipere omnem colorem quia nullum habet actu, sed omnes in potentia " (Alb. Magno Anima II 3 13, p. 118a).
Il diafano illuminato, in quanto m., ha la funzione deferente di trasmettere le forme visibili, finché non intervenga un corpo opaco: " immutatio sensibilium fit continue de perspicuo in perspicuum, quamdiu perspicua se contingunt, nullo corpore opaco terminato interposito inter primum visibile et visum " (Alb. Magno Anima II 3 12, p. 116b).
Perché le forme visibili siano percepite attualmente come figure dai contorni delimitati è necessario che anche il m. diafano sia delimitato (" terminato "). Esser diafano, " perspicuum " nella terminologia scolastica - intendendo con ciò l'" essere illuminato ", " recipere luminis habitum " - è proprietà generale dei corpi, non solo di quelli trasparenti. Solo che alcuni sono " perspicua in toto ", cioè hanno tale proprietà in superficie e profondità, altri solo in superficie (e in questi ultimi la loro opacità concorre con la lucidità superficiale a causare il colore). I primi, tali l'aria, il fuoco, l'acqua, il vetro, ecc., si lasciano attraversare dalla vista, gli altri no: " omne enim corpus est perspicuum. Sed duplex est perspicuum; quoddam enim est perspicuum totum, quod non terminat, sed per se transducit visum sicut aër et ignis et aqua et vitrum et crystallus et quaedam alia similia; quoddam autem est perspicuum terminatum, et hoc non in toto, sed in sua superficie est perspicuum, et ideo terminat et non transducit visum. Et secundum quod corpus est perspicuum, ita recipit luminis habitum; quod enim in toto est perspicuum, recipit lumen in superficie et in profundo; quod autem non in toto, sed in superficie tantum est perspicuum, non recipit lumen nisi in superficie, et ibi lumen permixtum opacitati corporis causat colorem ". (Alb. Magno Anima II 3 7, p. 109b). Il visibile genera e moltiplica la propria forma nel m. " secundum esse spirituale et intentionale ". Le forme visibili saranno perciò, nell'elemento che le recepisce, al modo e secondo le caratteristiche di esso; in base al noto principio che in una relazione agente-paziente la forma dell'agente è recepita dal paziente nei limiti delle caratteristiche e secondo le potenzialità del paziente: " forma agentis recipitur secundum potestatem et congruentiam patientis " (Alb. Magno Sensu et Sens. I 10, p. 26b).
Le forme visibili, dunque, nell'aria, acqua, ecc., che sono elementi trasparenti senza proprio contorno delimitante, non potranno avere contorni determinati, come invece avranno in un corpo, quale l'occhio o lo specchio, nel quale il diafano illuminato ha un contorno delimitante: " Hae enim species quae non proprie qualitates sunt, sed intentiones qualitatum in corpore non determinato neque figuras tenente, sunt secundum modum et congruentiam ipsius, sicut omnis species recepta in aliquo recipitur secundum potestatem et congruentiam subiecti recipientis. Et ideo in aëre non habent determinatas figuras, sed in corpore terminatas figuras habente, quod tamen est perspicuum illuminatum, habent figuras determinatas. Tale autem corpus est oculus vel speculum quod in altera parte extinctum est: et ideo in illis resultant secundum figuras determinatas " (Alb. Magno ibid. p. 26a).
Perciò la forma, che nel mezzo transparente non pare, [ne l'acqua pare] lucida e terminata (Cv III IX 8).
È infine da ricordare che D., richiamandosi all'autorità di Avicenna e secondo l'usanza de' filosofi, definisce raggio come lo lume... in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina (Cv III XIV 5-6). Nel medesimo passo egli definisce anche ‛ luce ' e ‛ splendore '. La formulazione sembra richiamare assai da vicino il Tractatus de Luce (pp. 230-231) di fra' Bartolomeo da Bologna.
Nel senso tecnico della logica scolastica " medium ", è il termine medio in un sillogismo, il termine cioè che compare tanto nella premessa maggiore che nella minore (cfr. Pietro Ispano Summulae, ediz. Bochenski, IV 4.03, pp. 36-37) vedi: Utraque nanque propositio vera est, sed medium variatur (Mn III VII 17).
Bibl. - D.J. Allan, The philosophy of Aristotle, Londra 1970²; J.J. Beare, Greek theories of elementary cognition, Oxford 1906; E. Berti, La filosofia del primo Aristotele, Padova 1962; I. Düring, Aristoteles, Heidelberg 1966; W.F.R. Hardie, Aristotle's ethical theory, Oxford 1968, 129-151; H.J. Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles, Heidelberg 1959, 363-371; D. Ross, Aristotle, Londra 1964; F. Wehrli, Ethik und Medizin, zur Vorgeschichte der aristotelischen Mesonlehre, in " Museum Helveticum " VIII (1951) 36-62; B. Nardi, D. e la cultura medievale, Bari 1949, 319 ss.; ID., Alla illustrazione del Convivio dantesco, in " Giorn. Stor. " XCV (1930) 73-114; ID., Saggi di filosofia dantesca, Firenze 1967²; G. Federici Vescovini, Studi sulla prospettiva medievale, Torino 1965.