metodo
Dal gr. μέϑοδος, composto di μετα- («in direzione di», «in cerca di») e ὁδός («via», «cammino»). Da questa etimologia il termine trae il senso generale di ricerca o orientamento di ricerca, e il significato di insieme dei principi, delle regole e delle procedure per la conduzione di un’indagine, la soluzione di un problema o il raggiungimento di un obiettivo.
Delineatasi a partire dalla distinzione parmenidea tra «via» della verità e «via» dell’opinione, la nozione di m. si è definita in ambito conoscitivo con la questione socratica della determinazione delle tecniche di accertamento della verità nel dialogo, trovando una prima codificazione generale nella dialettica del tardo Platone, fondata su due operazioni logiche complementari, di valenza eminentemente metafisica: (1) la «riconduzione» (συναγωγή) di una molteplicità di realtà individuali ed empiriche all’unità e universalità delle idee, o da una molteplicità di queste all’unità di un’idea più generale sino all’idea suprema, principio di tutte le idee; (2) il procedimento inverso di graduale «divisione» (διαίρεσις) dicotomica di un universale o genere, per la determinazione dell’ordine progressivo delle specie incluse l’una nell’altra sotto cui si iscrive l’idea da definirsi. Aristotele identificò l’argomentazione dimostrativa propria del m. delle scienze con il ragionamento sillogistico (➔ sillogismo), procedente per via deduttiva dall’universale al particolare, e da premesse «vere, prime, immediate, più note della conclusione, anteriori a essa e cause di essa» (Analitici secondi, I, 2, 71 b 21-22). Accanto alla sillogistica aristotelica, che poggiava sulle determinazioni sostanziali delle realtà espresse nell’universalità delle premesse, il modello storicamente più influente di m. scientifico si è incentrato sulle procedure dimostrative degli Elementi di Euclide, primo esempio compiuto di sistema assiomatico, che raccolse le conoscenze geometriche dell’epoca in un impianto teorico-metodico strutturato per via sintetica come rigorosa concatenazione di teoremi fondati su postulati e definizioni univoche.
Il problema della definizione e del valore delle procedure del m. sillogistico e di quello euclideo assunse in età moderna particolare rilievo teorico in concomitanza con il dibattito sul ruolo euristico dell’analisi e della sintesi (➔ analisi/sintesi), sorto a partire dalla metà del 16° sec. con il recupero dei procedimenti risolutivi della tradizione matematica alessandrina e lo sviluppo di ampi e talora inediti settori tecnico-scientifici, da cui emergeva la necessità di una logica sistematica della scoperta, in cui trovassero largo spazio l’induzione e l’ipotesi, e che offrisse idonei strumenti alla nuove scienze della natura. Tra queste, in primo luogo, le discipline originatesi dal processo di progressiva matematizzazione della fisica, come la cinematica e la dinamica, in un mutato quadro epistemico che prescindeva dal primato aristotelico-scolastico delle nozioni di sostanza, forma, qualità, finalità, e che prevedeva, da un lato, il sistematico impiego di m. di analisi quantitativa per lo studio del movimento dei corpi, dall’altro il prioritario ricorso all’azione della causalità efficiente per la comprensione dei fenomeni naturali. La rivoluzione scientifica cinque-secentesca fu comunque caratterizzata da una pluralità di indirizzi metodici, che attingevano a distinte e spesso discordanti tradizioni.
Il m. sperimentale su cui si è edificata la fisica classica di Galilei e Newton si costituì mutuando parte della terminologia e degli strumenti di analisi da campi di ricerca (astronomia, statica, ottica geometrica, armonia, matematica) dallo statuto epistemico tradizionalmente assai difforme da quello alla radice della riforma metodologica empiristico-induttiva espressa dal Nuovo Organo (➔) (1620) di F. Bacone. Questi infatti strutturò la sua logica dell’indagine scientifica su elementi tratti largamente sia dalle tecniche di registrazione, ordinamento e classificazione proprie della tradizione dialettico-retorica rinascimentale, sia dalle pratiche di ricerca invalse nelle «arti meccaniche» e in discipline nelle quali era riconosciuta scarsa o nulla funzione alla matematica, quali l’alchimia, la magia naturale, la metallurgia, la botanica, la zoologia, la medicina, ecc. Se nel Nuovo Organo si trovò enunciata una teoria del m. come critica delle diverse tipologie di idola («idoli», ossia pregiudizi) che fuorviano la mente, e come sistema operativo di regole per la formulazione di leggi generali a partire dall’osservazione, raccolta ed esame di casi particolari che prefigurava m. e obiettivi della scienza sperimentale, l’incomprensione del ruolo destinato a svolgere in esso dalla matematica è connessa alla concezione baconiana del m. come strumento inquisitorio di una natura concepita essenzialmente come «selva», «labirinto», i cui segreti vanno investigati con mezzi, anche di obbligazione ‘violenta’, analoghi a quelli impiegati in una procedura giudiziaria («i segreti della natura si rivelano sotto la tortura degli esperimenti più di quando seguono il loro corso naturale», Nuovo Organo, I, § 98).
L’immagine dei processi naturali propria di Bacone sta agli antipodi della rappresentazione dell’Universo come «grandissimo libro», scritto in linguaggio matematico, i cui «caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola» (Il saggiatore, 1623, § 48). L’accettazione dell’eliocentrismo copernicano esigeva infatti per Galilei un totale ripensamento delle nozioni di materia e movimento, e, al suo interno, un riassetto dei concetti di percezione, esperienza e ragione. Di enorme importanza metodologico-gnoseologica è la distinzione posta da Galilei tra qualità oggettive e qualità soggettive dei corpi: individuata la struttura del cosmo nel linguaggio matematico, il concetto di materia o sostanza corporea è esaurito nelle determinazioni quantitative (figura, relazione con altri corpi, esistenza in un tempo e in un luogo, movimento o quiete, contatto o meno con un altro corpo), mentre le qualità sensibili (sapore, odore, colore, suono, ecc.) vengono riferite al rapporto momentaneo tra il soggetto senziente e l’oggetto percepito, e non all’essenza di quest’ultimo. Volta non più alla ricerca del ‘che cosa’ della natura, bensì del ‘come’, ovvero delle sue leggi, misurabili ed enunciabili in termini matematici, l’indagine galileiana trova articolazione sul piano metodico nella reciproca implicazione di procedure sperimentali e metodologie ipotetico-deduttive, in cui i dati dell’esperienza sono assunti e rielaborati in contesto matematico-razionale e quindi deprivati dei loro caratteri qualitativi, mutuando dal m. geometrico il primato dell’assunzione di ipotesi e la derivazione delle loro conseguenze logiche, da sottoporre alla verifica empirica.
Nel Discorso sul metodo (➔) (1637) di Descartes il problema della definizione del m., riassunto in quattro «precetti» (accogliere come vero solo ciò che è evidente, ossia chiaro e distinto; risolvere i problemi mediante l’analisi, ossia scomporli in parti semplici; risalire, mediante la sintesi, dalle cose più semplici alla conoscenza delle più complesse; verificare la completezza delle fasi della successione seriale del procedimento), si tradusse nel progetto di ricostruzione del sapere sul modello gnoseologico della certezza matematica, da cui prese avvio un dibattito metodologico destinato a segnare il pensiero filosofico sei-settecentesco, che investì in primo luogo lo statuto della metafisica e quello delle procedure capaci di stabilirne un fondamento indubitabile. Sebbene Descartes riconoscesse soltanto nell’analisi la «vera via attraverso la quale una cosa è stata metodicamente e come a priori scoperta» (Meditazioni metafisiche, 1641, Seconde Risposte) e sottolineasse il valore semplicemente espositivo dell’applicazione in campo metafisico del m. sintetico euclideo, fu proprio in ambiente cartesiano che prese corpo il programma di un suo sistematico impiego in tutti i rami della filosofia, auspicato nella prefazione di Louis Meyer alla dimostrazione geometrica delle prime due parti dei Principi di filosofia (1644) di Descartes, data alle stampe nel 1663 da Spinoza, e avviato da quest’ultimo nell’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico (➔) (post., 1677), integralmente strutturata sul modello degli Elementi di Euclide. Se il m. geometrico conobbe soprattutto nella Germania della prima metà del Settecento numerosi tentativi, a opera di Wolff e della sua scuola, di applicazione ai più disparati ambiti del sapere, fu il m. di analisi delle idee e dei contenuti mentali esposto da Locke nel Saggio sull’intelletto umano (➔) (1690) a costituire per oltre un secolo il modello di m. filosofico, che assumeva le procedure di ricerca della nuova scienza sperimentale e ne assicurava i fondamenti conoscitivi. Le obiezioni mosse da Kant alla legittimità dell’impiego del m. di Euclide nel progetto di costruzione di una metafisica come scienza, analoga alla fisica galileiano-newtoniana per saldezza di principi, posero sostanzialmente fine al sogno di un m. filosofico apoditticamente dimostrativo, chiarendo che «le definizioni filosofiche non sono che esposizioni di concetti dati, mentre quelle matematiche sono costruzioni di concetti originariamente foggiati», le prime aventi luogo «analiticamente, per scomposizione (senza certezza apodittica della loro compiutezza), le seconde, invece, sinteticamente», con la conseguenza che «in filosofia non è lecito prendere a modello la matematica, muovendo dalle definizioni, tranne che a titolo di esperimento» (Critica della ragion pura, 1781, Dottrina trascendentale del metodo, cap. I, sez I).
In Hegel, autore dell’ultimo tentativo di elaborazione di un sistema filosofico come scienza universale, capace di ricomprendere i principi delle «scienze particolari» allora conosciute, il m. non si definisce più in rapporto con le procedure analitico-sintetiche della tradizione matematica («in quanto la filosofia ha da essere scienza, essa non può […] togliere a prestito il m., in questo intento, da una scienza subordinata, come la matematica», Scienza della logica, 1812, Prefazione), come procedimento separato dal contenuto della dottrina, ma è identificato con il «movimento del concetto stesso», che si determina secondo una struttura triadico-dialettica, esprimentesi come «risoluzione immanente, nella quale l’unilateralità e la limitatezza delle determinazioni intellettuali si esprime come ciò che essa è, ossia come la sua negazione» (Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, 3a ed. ampliata 1830, Parte prima, La scienza della logica, § 81).
Al Corso di filosofia positiva (1830-42) di Comte e a The philosophy of inductive sciences (1840) di Whewell si deve l’inizio dello studio sistematico delle problematiche generali del m. scientifico, divenute nel Novecento, a partire dalla costituzione del Circolo di Vienna, campo d’indagine specifico di una disciplina con proprie strutture istituzionali, la filosofia della scienza. Il senso complessivo di nuova filosofia scientifica – capace di rielaborare in un nuovo rigoroso quadro epistemico e metodologico le ripercussioni concettuali delle rivoluzionarie scoperte della fisica quantistica e relativistica, del procedere dell’indagine sui fondamenti della matematica e sull’assiomatizzazione della logica formale – fu riassunto nel manifesto del Circolo di Vienna in due tesi di fondo: «Primo, essa è empiristica e neopositivistica: si dà solo conoscenza empirica, basata sui dati immediati. In ciò si ravvisa il limite dei contenuti della scienza genuina. Secondo, la concezione scientifica del mondo è contraddistinta dall’applicazione di un preciso m., quello, cioè, dell’analisi logica» (La concezione scientifica del mondo. Il circolo di Vienna, 1929). All’identificazione neopositivista del significato di una proposizione con il m. della sua verifica empirica, del m. scientifico con le procedure osservative della fisica e l’applicazione di metodi analitici modellati sulla moderna logica formale, Popper ha obiettato, nella Logica della scoperta scientifica (1934), che la scienza non muove dalle osservazioni alla costruzione delle teorie, ma dalla formulazione di congetture che vengono sottoposte al controllo dei fatti mediante tentativi di falsificazione. Popper basa il m. della falsificazione su enunciati elementari («asserzioni-base»), aventi la forma di asserzioni singolari di esistenza, intersoggettivamente controllabili e accettate dalla comunità dei ricercatori. Ciò significa secondo Popper che, a differenza dei protocolli osservativi neopositivistici, «la base empirica delle scienze oggettive non ha in sé nulla di ‘assoluto’»; a essa fa riscontro il carattere sempre provvisorio e congetturale delle ipotesi scientifiche. L’idea popperiana della fallibilità e congetturalità della conoscenza scientifica ha dato luogo, nel secondo Novecento, a un vasto dibattito epistemologico, a partire dal riconoscimento dell’impossibilità non solo di ricondurre il m. scientifico all’osservanza di regole univoche, ma anche di una giustificazione puramente razionale delle teorie e della loro incommensurabilità, sottolineate in partic. da Kuhn. Con La struttura delle rivoluzioni scientifiche (1962) Kuhn ha rilanciato nel panorama filosofico contemporaneo posizioni antiempiristiche (i ‘fatti’ sono sempre «carichi di teoria»; i «paradigmi» scientifici in conflitto «ci dicono cose differenti sugli oggetti che popolano l’universo e sul comportamento di tali oggetti»), riconoscendo all’analisi delle diverse forme di razionalità caratterizzanti la storia delle scienze un cruciale ruolo epistemico, connesso al rigetto della tradizionale idea del progresso scientifico. Le posizioni kuhniane hanno trovato in Feyerabend una rielaborazione emblematica e provocatoria, approdante a una concezione ‘anarchica’ della conoscenza, fondata sul principio metodologico dell’anything goes, «qualsiasi cosa può andar bene» (Contro il metodo: abbozzo di una teoria anarchica della conoscenza, 1975), che nega l’esistenza di canoni assoluti di razionalità e il primato della scienza sulle altre attività umane.