Metamorfosi della vita religiosa: frati e clero regolare
Gli ordini religiosi nati sul territorio nazionale nei primi centocinquant’anni di vita dell’Italia unita, così come quelli più antichi, sono stati condizionati nella loro esistenza tanto dai mutamenti politico-istituzionali quanto da quelli socio-economici; al contempo la presenza dei religiosi ha contribuito a plasmare, con diverse forme e a vario titolo, la società italiana pre e post-unitaria.
Pur nella diversità dei carismi dei fondatori e delle regole da essi formulate, gli ordini e le congregazioni che hanno esercitato il loro apostolato nel Medioevo, nell’età moderna e in quella contemporanea risultavano accomunati almeno da due elementi: in primo luogo essi nascevano per dare una risposta ai problemi del proprio tempo, che potevano aver segnato tanto la Chiesa (l’allontanamento della Chiesa dalla povertà per i Francescani, oppure la diffusione del protestantesimo per i Gesuiti), quanto la società (la mancanza di uno ‘Stato sociale’ e l’assenza di un sistema scolastico ed educativo adeguato per alcuni ordini cinque-seicenteschi e per molti ottocenteschi).
L’altro elemento concerne la constatazione – ampiamente studiata e dimostrata da parte della storiografia religiosa1 ricorrendo anche alle statistiche sulle vocazioni, le ordinazioni e gli abbandoni – che ogni ordine religioso ha una sua esistenza2 in qualche modo quantificabile: una sorta di parabola che ha inizio con lo slancio del fondatore e raggiunge presto il suo apice, al quale fa seguito un periodo più o meno lungo di vitalità e che si conclude se non con la scomparsa almeno con una consistente riduzione o, talvolta, una delocalizzazione (è il caso per esempio degli ordini mendicanti, che nel corso del Novecento si riducevano progressivamente in Italia per trovare poi nuova espansione e vitalità in Europa prima e nel continente americano poi).
Frati e clero regolare riuscivano talvolta – come si vedrà – a precorrere i tempi, anticipando le modalità di intervento non solo rispetto alle istituzioni statali e governative, ma anche rispetto a organizzazioni ed enti vicini al movimento cattolico3, talvolta limitato (se non addirittura paralizzato) nella sua capacità di azione da questioni di natura politica.
Nei centocinquant’anni qui considerati (delle cui premesse, data l’impossibilità di considerare l’evoluzione di qualsiasi fenomeno storico come rigidamente compressa entro due date, 1861-2011, si è dovuto, ancorché per sommi capi, dar conto) essi si sono distinti in molteplici ambiti: dall’insegnamento all’assistenza, con opere a favore della gioventù, dei lavoratori (con riviste, pubblicazioni, associazioni di categoria), dei migranti (soprattutto fuori dal territorio nazionale in passato, ma oggi anche sul suolo italiano) e dei disabili. I membri degli ordini, del clero regolare e delle congregazioni religiose trovano dunque – nel periodo considerato – una collocazione di tutto rispetto nella storia della scuola, dell’economia e della geografia economica, ma anche nella storia del movimento operaio, delle relazioni internazionali e dell’editoria. La trattazione sarà qui circoscritta agli ordini e congregazioni maggiori, con particolare riferimento a quelli fondati e operanti in Italia (verranno perciò solo accennati gli ordini strettamente missionari) e con l’esclusione delle congregazioni femminili.
L’Illuminismo prima, la Rivoluzione francese e le campagne napoleoniche poi hanno costituito – com’è noto – una cesura ideologica, politico-economica e istituzionale così profonda da influire in maniera significativa anche sulla storia della Chiesa e delle congregazioni religiose, sia direttamente (con le leggi di soppressione emanate da Napoleone e dai governi rivoluzionari, percepite dal clero come ‘eversive’), sia indirettamente (con l’innescarsi di un sempre più ampio e diffuso processo di laicizzazione e di secolarizzazione).
All’inizio dell’Ottocento, nella fase più acuta del conflitto tra Napoleone e Pio VII, nello Stato della Chiesa venivano soppressi quasi tutti gli ordini religiosi, a eccezione di quelli dediti a opere utili alla collettività. Nei domini napoleonici italiani la casistica era differenziata da regione a regione, ma anche da ordine a ordine: se infatti i Domenicani dovevano assistere alla dispersione dei religiosi e i frati minori perdevano molti grandi conventi, Barnabiti e Scolopi (in quanto dediti all’insegnamento) riuscivano a salvare alcuni collegi. Nel 1814, dopo la caduta di Napoleone, Pio VII tornava a Roma. Qui non solo ristabiliva alcuni ordini soppressi, ma istituiva anche la Sacra congregazione per la riforma dei regolari, nella speranza di avviare una riforma radicale del clero, che versava quasi ovunque in uno stato di profonda crisi, al punto che monsignor Sala, nominato segretario della Congregazione, arrivava a sostenere che «le soppressioni napoleoniche erano state il mezzo di cui si era servita la Provvidenza per purificare gli istituti religiosi, travolti da una decadenza quasi generale, entro e fuori lo Stato Pontificio»4.
Dopo il Congresso di Vienna, molti governi procedevano alla restaurazione dei vecchi ordini religiosi, pur tenendo conto di alcuni principi messi in risalto dalla Rivoluzione francese: «ogni cittadino conservava la piena disponibilità della propria persona e dei propri beni (diritti ritenuti inalienabili); lo Stato si rifiutava di porsi al servizio della Chiesa come ‘braccio secolare’»5.
Di conseguenza venne abolita la clausura e fu sancito l’obbligo della temporaneità dei voti; il riconoscimento civile degli istituti religiosi sarebbe stato concesso solo se avessero offerto servizi quali l’educazione e l’istruzione, la cura dei malati e l’assistenza ai poveri.
Il Risorgimento avrebbe coinvolto quindi, in maniera più o meno diretta, istituti e comunità religiose, che avrebbero manifestato ora tendenze intransigenti (prevalenti nella Compagnia di Gesù e nei Servi di Maria), ora filoliberali (Barnabiti e Scolopi). La scelta politica di un membro della comunità poteva provocare l’abbandono o l’espulsione di alcuni elementi o addirittura la sostituzione, dietro pressione del potere politico, dei superiori. Il regalismo era particolarmente forte nel Regno borbonico di Ferdinando II, dove la crisi degli istituti religiosi era più profonda che altrove.
Nel 1846 – nella linea riformista già tracciata da Pio VII – Pio IX istituiva la Sacra congregazione sullo stato degli ordini regolari, nominandone segretario monsignor Andrea Bizzarri, che con l’aiuto del cappuccino Giusto da Camerino (divenuto poi cardinale Recanati), preparava una relazione sullo stato degli ordini religiosi funzionale alla riforma. Poiché ogni ordine era segnato da un rilassamento generale della disciplina (che avrebbe portato – prima e dopo le soppressioni – alla chiusura di alcuni conventi), si rilevava la necessità di osservare pienamente la vita comune e di migliorare la selezione dei candidati attraverso un vaglio più attento delle vocazioni, proponendo la professione di voti semplici prima di una più matura professione dei voti solenni.
Nel 1848 si assisteva, all’interno del Regno di Sardegna, alla soppressione della Compagnia di Gesù, in un clima di antigesuitismo diffuso amplificato dagli scritti di Vincenzo Gioberti, che considerava la lotta contro i Gesuiti in Italia addirittura più urgente di quella contro l’occupazione austriaca. Nei Prolegomeni del Primato morale e civile degli Italiani egli aveva infatti denunciato la Compagnia come «principale ostacolo al risorgimento civile e religioso dell’Italia e alla fusione armonica del cattolicesimo con la civiltà moderna»6, contribuendo così a estendere ulteriormente la già diffusa convinzione che i Gesuiti «fossero degli irriducibili avversari di ogni forma di regime rappresentativo e liberale»7. In aggiunta a ciò, sollevazioni popolari di natura politico-economica (soprattutto in Sardegna), dovute all’evidente e stridente divario tra le cospicue rendite dei Gesuiti e l’indigenza della popolazione, chiedevano la soppressione dell’ordine: il governo stabiliva allora che la Compagnia venisse sciolta, che case e collegi venissero confiscati e, aspetto ancora più gravoso, ai Gesuiti veniva proibita ogni forma di vita comune. Qualche anno dopo, nel 1855, nel Regno di Sardegna, Cavour (con l’alleanza della sinistra radicale) varava una legge che aboliva le corporazioni religiose espressamente elencate (non tutte, come invece chiedeva la sinistra estrema), quelle cioè che «non attendono alla predicazione, all’educazione o all’assistenza degli infermi»: essa infatti manteneva, all’art. 1, la personalità giuridica delle corporazioni religiose che si dedicavano «alla predicazione, all’educazione e all’assistenza degli infermi». I loro beni e le case venivano incamerati dallo Stato.
Certo avevano influito sulla repentina approvazione della legge le esigenze finanziarie dello Stato e, a livello più generale, tendenze regaliste e antiascetiche diffuse anche nel Parlamento e nel mondo politico italiano, così come l’obiettivo di estinguere, in un’ottica laicista, gli ordini contemplativi o, almeno, diminuire l’influsso dei religiosi sulla società. Sembra tuttavia che la cosiddetta «legge sui frati» abbia assunto anche per certi versi l’aspetto di un intervento populista, dal momento che veniva firmata dopo che alla Camera erano arrivate numerose petizioni che chiedevano la leva obbligatoria anche per i chierici, la chiusura dei conventi, la confisca e l’indemaniamento dei loro beni. Complessivamente quindi, ordini e clero regolare cominciavano a essere percepiti da molti come poco utili alla società moderna, anche se non si intendeva privarli della libertà di associazione8, bensì della personalità giuridica (capacità di acquistare, vendere, ereditare, cioè il diritto di possedere).
Lo Stato liberale italiano, estendendo dopo il 1861 all’Italia unita i provvedimenti che erano stati applicati al Regno di Sardegna, emanava nel 1866 la cosiddetta «legge di soppressione» (7 luglio 1866), che privava tutti gli istituti religiosi (senza alcuna distinzione) del riconoscimento giuridico e prevedeva che i loro beni venissero incamerati dallo Stato. Essa veniva poi estesa (legge 19 giugno 1873), a seguito della caduta dello Stato pontificio, anche a Roma e alle province annesse.
Il provvedimento si rivolgeva a tutti gli «ordini, corporazioni e congregazioni religiose regolari e secolari, conservatori e ritiri, i quali importino vita comune e abbiano carattere ecclesiastico»; religiosi e religiose di voti solenni, richiedendola, potevano ottenere una pensione statale diversa per l’età e l’istituto. I beni incamerati dallo Stato, a eccezione delle abbazie monumentali (come per esempio Montecassino e la Certosa di Pavia), venivano destinati a usi pubblici: scuole, caserme, ospedali, musei, carceri (ad esempio il Regina Coeli di Roma), mentre le chiese restavano intatte. La legge era frutto di un compromesso tra i politici più radicali, che volevano l’abolizione totale di tutti gli ordini, e i moderati, ostili solo ad alcune forme di vita consacrata (come gli ordini mendicanti e quelli contemplativi) e contrari all’incapacità di possedere, che caratterizzava i religiosi. I singoli religiosi ricevevano la pienezza dei diritti civili e politici (compreso quello di possedere, che perdevano entrando in convento).
L’applicazione da parte del legislatore di tale provvedimento sul territorio nazionale appariva tuttavia difforme, come risulta, per esempio, dalla situazione dei religiosi in Lombardia e a Roma. Nel primo caso, il generale dei Gesuiti padre Beckx, dopo l’espulsione dal Regno di Savoia nel 1848 e prevedendo gli effetti nefasti di una non lontana cessione della Lombardia al Regno di Sardegna da parte dell’Austria, aveva fatto inserire nel trattato di Zurigo del 1859 un articolo che avrebbe salvaguardato i beni delle congregazioni religiose lombarde di fronte a qualsiasi cessione a potenza straniera avversa. Il governo si accontentava perciò di porre solo una tassa del 30% sui beni dei religiosi. Analogamente, a Roma, la legge del 1873 veniva applicata solo in parte, poiché consentiva ai religiosi di restare nei conventi fino all’età della pensione. Inoltre, in quella che era ormai la capitale del Regno d’Italia, i Gesuiti, rispetto alla legislazione precedente che li aveva privati anche del diritto di associazione, beneficiavano indirettamente della legge delle guarentigie, che invece assicurava tale diritto per tutti i membri del clero.
Numerosi ordini, a livello locale, decidevano di intentare processi separati con le autorità locali al fine di dimostrare l’inalienabilità del diritto di possedere ed ereditare da parte dei singoli: le Cassazioni, in molti casi, davano loro ragione. Di fronte ai decreti di sgombero emessi delle autorità civili, i conventi si comportavano secondo una prassi approvata dal Vaticano tramite la S. Penitenzieria Apostolica, che non aveva scelto la linea dell’opposizione ferma (come invece sarebbe accaduto in Francia), bensì quella di una sorta di cooperazione. Alla presenza del delegato della giunta liquidatrice, del sindaco e di qualche funzionario veniva letta la lettera di sgombero, di fronte alla quale il superiore della comunità avanzava formali proteste in difesa dei diritti della casa e dell’ordine, per poi partecipare, di fatto, alla stesura dell’inventario dei beni mobili e immobili. Venivano poi consegnati i libretti della pensione governativa e infine la comunità veniva sciolta.
La risposta dell’episcopato italiano alle soppressioni nelle loro diocesi non era omogenea: alcuni vescovi (nelle Marche e in Emilia) protestavano, mentre altri (in Calabria e in gran parte dell’Italia meridionale) non assumevano posizioni di difesa del clero regolare. Alcuni superiori guardavano al futuro raccogliendo i dispersi, cercando di ricostruire le comunità affittando appartamenti o ricomprando gli immobili tramite donazioni di benefattori, mentre altri approfittavano della dispersione per arricchirsi incamerando beni per sé e per la propria famiglia. La Santa Sede raccomandava, nel frattempo, di cercare di mantenere, dove possibile, la vita comune.
Veniva colpita duramente la maggior parte degli istituti maschili degli ordini monastici e mendicanti (in particolare la famiglia francescana), ma non solo: anche Agostiniani, Camilliani, Scolopi siciliani, Filippini e, soprattutto, Gesuiti (molti dei quali si rifugiavano all’estero). Alcuni religiosi rimanevano vicino agli immobili perduti come custodi delle chiese, altri sceglievano di ritirarsi in famiglia o presso amici. Gli istituti così si impoverivano, non solo perché avevano perso i loro beni e proprietà, ma anche perché dovevano iniziare a pagare le tasse di successione.
In un clima generale di confusione e incertezza, molti religiosi manifestavano atteggiamenti di riottosità e insofferenza verso i superiori, rifiuto dell’abito, mancata osservanza delle regole. I sentimenti che attraversavano frati e chierici regolari – come dimostrano alcune lettere conservate negli archivi di ordini e congregazioni – oscillavano tra l’ansia, la malinconia e lo scoraggiamento, ma anche l’ottimismo e la fiducia, nonché l’esultanza per la ritrovata libertà da parte di chi confondeva l’abolizione dell’obbligo giuridico con l’annullamento del vincolo sacramentale («questi frati, per lo più meridionali, specie siciliani, si sentivano ormai padroni del campo, e si ergevano sprezzanti e villani dinanzi ai loro superiori»9). Complessivamente – secondo Giacomo Martina – «le leggi eversive e la dispersione ebbero come conseguenza un certo affievolirsi dello spirito religioso, soprattutto nel Mezzogiorno, dove del resto le vocazioni erano meno solide»10.
In questa complessa e difficile situazione le autorità vaticane cercavano di arginare la dispersione di un gran numero di religiosi con istruzioni finalizzate prima alla salvaguardia delle caratteristiche della vita consacrata (vita comune e povertà), per procedere poi a espulsioni di chi non era più degno di restare nell’ordine.
Gradualmente, gli ordini religiosi cercavano di tornare alla normalità, anche se in grave deficit economico e ufficialmente impossibilitati ad affittare o acquistare beni immobili. Tutti gli istituti si attivavano perciò per sottrarsi alle leggi di soppressione eludendole grazie a stratagemmi giuridico-patrimoniali. I casi più noti a questo proposito erano quelli dei Rosminiani e dei Salesiani: i primi, per salvaguardare la congregazione, rifiutavano qualsiasi riconoscimento civile prevedendo che i padri fossero una libera associazione di cittadini (che conservavano tutti i loro diritti), mentre i seguaci di don Bosco decidevano di intestare gli immobili a enti che poi glieli affidavano. Molti ricorrevano alla cosiddetta «società tontinaria» (dal banchiere napoletano Lorenzo Tonti, consigliere del cardinal Mazzarino), una società privata che «permetteva di intestare i beni a un gruppo di persone, il cui numero poteva essere sempre ricostituito, e quindi diminuiva le tasse da pagare allo Stato (per i diritti di successione)»11. Altre soluzioni adottate riguardavano la costituzione di società immobiliari (che gestivano i beni dell’istituto), società per azioni (con azionisti i membri dell’istituto), oppure forme di piccolo credito.
I censimenti nazionali effettuati in Italia ogni dieci anni a partire dal 1861 relativi al numero dei religiosi – seppur di certo incompleti – rilevavano un calo notevole: dai 30.632 religiosi del 1861 si passava, dieci anni dopo, a 9.163, per poi diminuire ancora e infine assestarsi, con una leggera ripresa, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento (7.191 nel 1881 e 7.792 nel 1901).
Le conseguenze delle leggi di soppressione ricadevano sulla popolazione italiana con effetti più gravi al Sud che al Nord. Nel Mezzogiorno infatti l’attività pastorale era centrata non sulla parrocchia, bensì sulle congregazioni religiose: la loro abolizione produceva dunque una notevole riduzione dell’azione pastorale. Il primo censimento nazionale del 1861 mostrava che la maggior parte dei religiosi viveva nell’ex Regno delle due Sicilie, dove costituiva una percentuale molto alta della popolazione cittadina. Complessivamente, il 2,87‰ della popolazione siciliana era costituita da religiosi, dediti soprattutto all’insegnamento. Se la Sicilia nel 1861 aveva 6.875 religiosi (2,87‰ della popolazione totale), Piemonte e Liguria registravano assieme 1.828 religiosi (0,52‰) e la Lombardia 402 religiosi (0,13‰). Tale tendenza veniva confermata anche vent’anni dopo, nel censimento nel 1881, in cui appariva che la preponderanza dei religiosi caratterizzava ancora il Sud, benché si fosse innescato un cambiamento che avrebbe portato a un’inversione di tendenza.
Anche rispetto alle rendite dei beni immobili, quelle dei religiosi siciliani erano molto più alte rispetto al resto della penisola; in generale la vita religiosa al Sud era basata su un’economia fondata su proprietà terriere e immobiliari, molto più consistenti che al Nord, dove invece gli stessi istituti poggiavano su nuove basi la loro economia12.
Nel Mezzogiorno si registrava quindi, allo stesso tempo, la difficoltà di fondare su altre basi economiche (diverse dalle rendite dei beni immobili) la vita dei religiosi, ma anche un più generale indebolimento dello spirito religioso.
Se si confrontano i giudizi sulle soppressioni religiose ai quali sono giunti due tra i più attenti storici della Chiesa e delle congregazioni religiose – Giacomo Martina13 e Giancarlo Rocca – si può constatare che essi giungono a considerazioni pressoché unanimi e concordi. Secondo il padre gesuita, le leggi del 1866-1873 costituivano per il governo liberale del Regno d’Italia che le aveva promulgate un «quadruplice fallimento»14: in primo luogo i beni incamerati dallo Stato erano esigui rispetto alle aspettative; in secondo luogo lo Stato veniva coinvolto e impegnato in una miriade di contenziosi giudiziari su tutto il territorio nazionale; quindi il sistema educativo e scolastico veniva pesantemente indebolito a seguito della soppressione di alcuni ordini a esso preposti, soprattutto nelle regioni meridionali e particolarmente in Sicilia; falliva infine l’obiettivo politico-ideologico di estinguere gli ordini religiosi contemplativi, di cui si era propagandata l’inutilità in uno Stato moderno.
Le leggi di soppressione inoltre – come per altro avevano già ampiamente compreso le autorità vaticane all’inizio del secolo XIX – non avevano prodotto (ma se mai sarebbero andate ad aggravare) la crisi degli ordini religiosi antichi e avrebbero contribuito ad accelerare il progressivo affievolirsi in essi dello spirito religioso, fenomeni unanimemente riconosciuti come ben anteriori alle leggi stesse e dovuti ad altri fattori. Secondo Martina la crisi potrebbe avere accentuato il carattere religioso, apostolico e pastorale, degli istituti religiosi. Contemporaneamente, essa però non fece nascere
«l’idea (assente però ancor oggi) di unificare le varie fondazioni che svolgevano fondamentalmente lo stesso apostolato nel nuovo Stato nazionale, facendo di esse un corpo unico. Si continuò a fondare nuove congregazioni, con scopi pressoché identici, e con strutture giuridiche che finirono per essere uniformate»15.
Inoltre,
«le numerosissime fondazioni nuove si orienteranno decisamente verso la vita cosiddetta attiva, e ciò non può non essere messo in relazione con le varie soppressioni che tendevano a lasciare in vita gli istituti dediti alla cura dei malati e all’educazione della gioventù, sopprimendo quelli a vita contemplativa, considerati inutili»16.
Lo Stato liberale in Italia aveva intentato con la Chiesa «una duplice battaglia, per la difesa del potere temporale e per la conservazione della vita religiosa. Mentre la prima lotta rispondeva a esigenze obiettive, e ha visto la vittoria sostanziale dello Stato liberale, con risultati positivi anche per la Chiesa, la seconda offensiva non era ugualmente giustificata, e, nel complesso, è terminata con il successo degli Ordini religiosi»17. Infatti, negli anni successivi alla soppressione, che fu comunque un fenomeno di una certa gravità, ci fu però una notevole ripresa, con la nascita di nuovi istituti che contribuirono a disegnare un nuovo panorama della vita religiosa italiana18.
Anche secondo Giancarlo Rocca «l’applicazione delle leggi del 1866 e 1873 […] ebbe effetti imprevisti, perché, dando a tutti i religiosi la possibilità di vivere in comune sotto forma di libere associazioni, ne moltiplicò il numero e per di più ne favorì l’aggiornamento alle nuove condizioni di vita»19. Lo storico paolino non manca inoltre di sottolineare che in quegli anni – nonostante la perdita di migliaia di edifici – nessun ordine religioso sarebbe scomparso e che le leggi si sarebbero rivelate in gran parte inefficaci: al contrario esse avrebbero indirettamente portato alla nascita di molte nuove congregazioni (soprattutto femminili), contribuendo all’aggiornamento degli altri ordini dopo averli in qualche maniera costretti a confrontarsi con il mondo moderno.
La legislazione del 1866-1873 veniva ufficialmente abolita solo nel 1929 con i Patti Lateranensi contratti tra la Santa Sede e il governo fascista. Tali accordi – com’è noto – ridefinivano i rapporti Stato-Chiesa, restituendo tra l’altro alla Santa Sede alcuni palazzi e riconoscendo la personalità civile e giuridica alle congregazioni religiose ritenute tali dal Vaticano: nulla però veniva restituito dei beni incamerati dallo Stato dal 1848 in poi.
Diversi fattori avevano però già da tempo contribuito a distendere – nell’ottica di un reciproco sostegno – i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. In primo luogo – come era avvenuto per altre nazioni europee – anche l’Italia cominciava a identificare nei missionari italiani20 all’estero degli ‘avamposti’ della madrepatria e, come tali, utili strumenti di avvicinamento prima e di pacificazione/sottomissione poi. Basti per esempio ricordare che il collegio missionario dei frati minori a Roma veniva riconosciuto dallo Stato già nel 1889.
Un secondo elemento che aveva favorito la riconciliazione del governo italiano con la Chiesa cattolica concerneva la nascita del cosiddetto «pericolo socialista», che Francesco Crispi aveva individuato come comune nemico. Il mondo cattolico – con la forza costituita da tutte le sue congregazioni e istituzioni – poteva allora diventare un alleato della destra liberale per arginare l’espansione elettorale socialista. Un ulteriore avvicinamento si verificava durante la Prima guerra mondiale, quando molti religiosi (circa 25.000), direttamente e indirettamente avevano dimostrato uno ‘spirito patriottico’ dando il loro contributo alla nazione in armi.
Già alla fine dell’Ottocento, quindi, si avviava un processo di attenuazione delle leggi di soppressione: la Corte di cassazione introduceva una prima ammissione della capacità di possedere da parte dei religiosi (1892) che, sebbene abolita dopo poco (1908), avrebbe portato al riconoscimento giuridico delle «libere associazioni di religiosi» prima ancora della Conciliazione.
Gli anni successivi alla Rivoluzione francese avevano visto concretizzarsi in quasi tutti gli stati europei quelle componenti anticlericali e laiciste diffuse già in età illuminista e che – tra Settecento e Ottocento – avevano preso la forma del giuseppinismo. Al di là delle politiche anticlericali e laiciste, delle soppressioni e dei conseguenti indemaniamenti dei beni del clero, che certo avevano penalizzato e penalizzavano le congregazioni religiose, non bisogna dimenticare – come si è accennato – che queste ultime versavano già in uno stato di grave crisi. Se la crisi aveva colpito soprattutto gli ordini monastici, non ne restavano immuni i frati (degli ordini medievali dei Domenicani e dei Francescani) e i chierici regolari (delle congregazioni cinquecentesche dei Gesuiti, Barnabiti, Scolopi, Somaschi, Filippini, Camillini).
Gli ordini mendicanti si distinguevano – com’è noto – all’interno del clero per alcune caratteristiche: predicazione, preghiera liturgica, pietà, disciplina, azione apostolica, obbligo dell’abito, vita comune in conventi, adesione alla regola del fondatore. Essi venivano vessati dalle soppressioni seguite alla Rivoluzione francese prima e agli editti napoleonici poi (con confische di case e conventi, dispersione dei frati, abbandono della vita comune), per motivazioni di natura ideologico-politica di stampo illuminista e liberale, ma anche per ragioni di ordine economico: da una parte essi costituivano – con i voti perpetui – una violazione alla libertà individuale, dall’altra con la questua – in una società che cominciava a dare grande importanza all’iniziativa personale fondata sul lavoro – rappresentavano un modello negativo, quasi ‘parassitario’, di vita.
Già dal Seicento-Settecento i Domenicani erano stati particolarmente segnati dalle ingerenze esterne e dalle controversie dottrinali (relative al tomismo) con la Compagnia di Gesù. Soppresso in Francia nel 1793 e in Italia nel 1810, l’ordine dei frati predicatori cominciava a rinascere nel 1814, ma veniva però nel suo complesso ulteriormente colpito dalla legislazione soppressiva in America latina, dove in pochi anni venivano espulsi tutti i religiosi che si erano là rifugiati. Nel corso dell’Ottocento singole personalità cercavano di dare nuovo vigore all’ordine, riportando al centro dell’apostolato la predicazione. Nel 1917 perdeva la gestione di uno dei suoi tradizionali campi di azione, cioè la Sacra Congregazione dell’Indice, incorporata al Sant’Uffizio (a sua volta sostituito nel 1966 dalla Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede). Dopo il concilio Vaticano II, anche l’ordine dei frati predicatori prendeva a seguire la linea dell’‘aggiornamento’. Dal punto di vista quantitativo, nei cento anni tra il 1876 e il 1975 l’ordine, nella sua presenza mondiale, si era più che raddoppiato (da 3.341 a 9.998), mentre negli ultimi decenni, a seguito della crisi di vocazioni, subiva un processo di progressiva riduzione. Nel corso del Novecento si distinguevano nel panorama culturale e teologico italiano padre Mariano Cordovani21 e padre Raimondo Spiazzi22.
La legislazione sabauda del 1866 colpiva duramente anche l’articolata famiglia francescana arrivando addirittura a dimezzare i Cappuccini, che passavano da 8.563 unità nel 1860 a 4.563 nel 1885. Durante le soppressioni si distingueva per attivismo Bernardino da Portogruaro (1822-1895), nominato da Pio IX ministro generale dell’ordine. Lo spirito francescano era per altro affievolito dalla divisione che caratterizzava l’ordine da secoli, problema al quale nel 1897 Leone XIII (all’interno di un più vasto progetto di centralizzazione) pose mano (anche se l’unificazione venne condotta a termine da Pio XII nel 1949), cercando di unire sotto l’unica denominazione di «frati minori» (Ofm) le quattro famiglie francescane (osservanti, riformati, scalzi o alcantarini, recolletti) richiamandole alla regola di s. Francesco.
Alla fine dell’Ottocento anche i Francescani – come accennato – contribuivano a favorire quel processo di avvicinamento tra Stato e Chiesa che aveva il suo terreno di incontro nel sostegno governativo alle missioni: per esempio, dopo che l’Eritrea era diventata colonia, Crispi otteneva dalla Santa Sede che i Cappuccini italiani subentrassero ai lazzaristi francesi. Nell’anno della riunificazione l’Ofm raggiungeva – a livello mondiale – il numero più basso (14.798 religiosi), ma cominciava a espandersi nel continente americano. Tuttavia l’Italia nel 1889 conservava ancora il 55% delle province e il 51% dei religiosi (che numericamente erano 7.351). Il calo complessivo era stato notevole, dato che nel 1889 la famiglia francescana arrivava a 23.907 membri (dopo che nel 1762 aveva raggiunto la cifra di 134.721). In Italia i Francescani calavano fino al 1924 (4.769), poi ricominciavano a crescere per tornare infine a diminuire. L’Ofm diveniva progressivamente meno italiano e più mondiale, più vicino alle esigenze dei paesi in via di sviluppo.
Se le leggi del 1866-1873 avevano pesantemente segnato la famiglia francescana nel suo complesso (con perdita di conventi, calo di vocazioni), alcune personalità contribuivano tanto nel secolo XIX quanto nel XX a tener viva – seppure in una profonda diversità di esperienze – l’esemplarità e il carisma del loro fondatore. Nel corso dell’Ottocento, il napoletano Ludovico da Casoria (1814-1885), dei frati Minori Riformati, si proponeva lo scopo di riscattare dalla schiavitù i bambini e le bambine africani venduti come schiavi dando loro ospitalità e istruzione. Stimato e benvoluto dai sovrani (Ferdinando II prima e Vittorio Emanuele II poi) e dagli intellettuali, con l’approvazione di Pio IX si faceva mediatore nella fase di passaggio dai Borbone ai Savoia. Fondava a Napoli l’«Accademia di religione e scienze» (per difendere la cultura cattolica dalla diffusione del liberalismo nei ceti borghesi), il collegio «La Carità» (dove studiò Benedetto Croce), opere assistenziali per bambini orfani, sordomuti, sofferenti, poveri e anziani. Per dare maggior stabilità alla sua opera, oltre a cercare di reclutare missionari tra gli indigeni con l’idea di «convertire l’Africa con l’Africa», creava la congregazione dei Frati della Carità (detti anche Frati Bigi), di cui si dirà a proposito nelle nuove congregazioni ottocentesche.
Nel corso del Novecento, trovava una collocazione significativa nel panorama culturale, scientifico e religioso italiano il francescano padre Agostino Gemelli (tra i fondatori – com’è noto – dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e iniziatore di un istituto secolare, i Missionari della Regalità), al quale faceva per certi versi da contraltare una figura altrettanto poliedrica di francescano: padre Pio da Pietrelcina (Francesco Forgione). Negli anni più recenti alcune iniziative collegate ai moderni mezzi di comunicazione sociale hanno contribuito a rendere popolari presso il grande pubblico televisivo italiano alcune iniziative e alcuni volti dell’Ofm. Basti pensare allo spazio assegnato dalla Rai alla predicazione di padre Mariano e padre Cantalamessa, ma anche alla gara canora internazionale per bambini («Zecchino d’oro») organizzata ogni anno dall’Antoniano di Bologna, l’istituto dei frati minori che ha voluto declinare, a partire dagli anni Sessanta, la spiritualità francescana secondo formule contemporanee.
Al contrario dei frati degli ordini antichi, i chierici regolari, appartenenti cioè agli istituti religiosi clericali sorti nell’epoca del concilio di Trento con l’obiettivo di riformare la Chiesa dall’interno, non seguivano alcuna regola monastica e si prefiggevano di seguire i consigli evangelici (povertà, castità, obbedienza) praticando diverse forme di apostolato. Rappresentavano quindi, aderendo alla vita comune apostolica e alla condivisione dei beni tra membri del clero, una categoria di ‘preti riformati’. Sganciati dalla disciplina monastica, non seguivano «regole» ma «costituzioni», non avevano conventi ma case, l’abito era quello comune del prete, breviario e messale erano quelli comuni della liturgia romana. Era escluso l’obbligo dell’ufficio corale; inoltre, rispetto ai monaci, solitudine, contemplazione e povertà non erano così centrali. Sceglievano dunque di vivere nel mondo dedicandosi a diverse forme di apostolato (infermi, gioventù, infanzia abbandonata), ispirandosi per la maggior parte all’organizzazione e alla spiritualità dei Gesuiti.
L’ordine religioso di chierici regolari fondato in Spagna da Ignazio da Loyola nel 1540 aveva infatti assunto fin da subito un ruolo di primo piano non solo nella Chiesa, ma anche nella società civile. Forse proprio per questo la vita della Compagnia di Gesù era stata segnata da numerose soppressioni, da parte delle autorità civili, come per mano del papato stesso: abolita da Clemente XIV nel 1773, dietro pressione delle autorità spagnole, che l’aveva già espulsa dalla Spagna e dalle colonie, veniva ristabilita da Pio VII (1814), confermata da Leone XIII (1886) e da Pio XI (1933). Nata con la finalità di riformare la Chiesa dall’interno, riconquistandola rispetto al protestantesimo, ma anche di difendere e propagandare la fede attraverso l’espansione missionaria, la Compagnia di Gesù chiedeva ai suoi sacerdoti un quarto voto di obbedienza al papa. Il suo ministero ordinario fu quello della predicazione, degli esercizi e del confessionale, che rese i suoi membri richiestissimi in tutte le corti europee.
Nella prima metà dell’Ottocento la Compagnia di Gesù, «pur dichiarando di non voler fare politica, è strettamente legata al regime assoluto, ne diventa per certi aspetti il baluardo. Inevitabilmente, in varie classi la Compagnia è guardata con sospetto»23. Essi erano dunque «mal visti da tutte le forze liberali»24, poiché contrari al processo di unificazione italiano ed «estremamente freddi verso molte forme di civiltà e di progresso»25. Tra gli elementi che li rendevano così invisi vi era inoltre il noto antiebraismo gesuita (basti pensare a L’ebreo di Verona di padre Antonio Bresciani), l’opposizione alla libertà di stampa e una generale difesa del regime assoluto: princìpi diffusi nei numerosi collegi.
In questo clima, non stupisce che tra il 1859 e il 1860 moltissime case dei Gesuiti venissero chiuse in tutta Italia: 50 collegi chiusi (soprattutto nel Mezzogiorno), i religiosi dispersi e costretti a tornare in famiglia, a diventare precettori in case private, oppure a partire come missionari. Le leggi del 1866, al contrario, lasciavano pressoché indenni i Gesuiti in Italia, già colpiti negli anni precedenti: se nel 1860 erano 1.742, nel 1880 scendevano a 1.524, nel 1890 tornavano a 1.743 e nel 1900 erano 1.913. In quegli anni il generale padre Beckx cercava di avviare la ricostituzione dell’ordine, spronando a ricreare delle piccole comunità di vita (attraverso ‘società tontinarie’), a restare perseveranti nella fede e nello studio, a trovare nuove attività evitando così i pericoli dell’ozio forzato. Alla fine dell’Ottocento la Compagnia di Gesù si distingueva per un grande attivismo (direzione di seminari regionali e di istituti superiori di studi specializzati) che, tra il 1875 e il 1925, la portava a erigere 13 collegi dediti all’istruzione primaria e secondaria in tutta Italia, quasi tutti oggi ancora attivi.
Nel corso dell’Ottocento alcuni Gesuiti si distinguevano per essere passati dall’intransigentismo al liberalismo: assieme a padre Curci, il caso più emblematico è quello di padre Passaglia26 (1812-1887), docente del Collegio Romano, che dopo aver preso parte alla stesura del testo che sanciva il dogma dell’Immacolata Concezione e ai lavori per la preparazione del Sillabo, usciva dall’ordine, si trasferiva a Torino dove diventava un collaboratore di Cavour (e deputato dal 1861 al 1865), nel tentativo di ricomporre la frattura Stato-Chiesa. Un passaggio generale di tutto l’ordine dall’opposizione all’accordo in merito alla questione romana veniva compiuto grazie a padre Tacchi Venturi (1861-1956) che, negli anni successivi al primo conflitto mondiale, entrava progressivamente in stretti rapporti con le personalità politiche più in vista fino a diventare – com’è noto – l’interlocutore privilegiato di Mussolini per i rapporti con la Santa Sede. Durante il ventennio dunque – nella speranza di un ritorno allo stato confessionale – la Compagnia di Gesù si assestava su posizioni, che complessivamente, si possono dire filofasciste.
Nel secondo dopoguerra spiccava la complessa figura di padre Riccardo Lombardi (il «microfono di Dio»27), che viveva l’apostolato della parola promuovendo conferenze nei teatri e nelle piazze secondo due direttrici: da una parte l’adesione piena e completa alle ‘crociate anticomuniste’ (che lo rendevano protagonista della campagna elettorale del 1948, ma anche uno dei promotori della fallita «operazione Sturzo» nel 1952) di Pio XII, dall’altra il desiderio e la speranza di un rinnovamento profondo della Chiesa, tramite la fondazione del Movimento per un mondo migliore che prevedeva la collaborazione di religiosi provenienti da diversi ordini, considerati «come un esercito particolare, un “blocco” alle dirette dipendenze del papa, da contrapporre eventualmente ad altri “blocchi”»28.
Per tutto l’Ottocento-Novecento la voce più autorevole della Compagnia di Gesù in Italia era «La Civiltà cattolica» (protagonista dei dibattiti interni alla Chiesa e alla società italiana, con i celebri interventi di padre Bresciani e padre Curci nell’Ottocento, di padre Rosa nel Novecento nella polemica antimodernista), affiancata a partire dal 1950 da «Aggiornamenti Sociali» (redatta a Milano dai Gesuiti raccolti attorno al centro di studi sociali S. Fedele), che si distingueva per una maggiore apertura al mondo contemporaneo e alle sue nuove esigenze culturali (pubblicando anche il mensile «Letture») e per un atteggiamento complessivamente meno intransigente. Nei decenni successivi al concilio Vaticano II continuava l’aggiornamento dell’ordine, ma il calo di vocazioni era sempre più vistoso. Nel 1979 diveniva arcivescovo di Milano il professore gesuita Carlo Maria Martini, attento ai problemi della città e aperto al dialogo (si pensi all’istituzione della «Cattedra dei non credenti»).
Tra i chierici regolari di fondazione cinquecentesca che – pur nell’epoca delle soppressioni – continuavano a mantenere una posizione di rilievo nella società si distinguevano gli ‘ordini insegnanti’: Barnabiti, Scolopi e Somaschi. L’ordine dei Barnabiti (chierici regolari di s. Paolo), fondato a Milano nel 1530, con finalità apostoliche e pastorali, aveva tratto vantaggio, nel Settecento, dalle espulsioni dei gesuiti, subentrando alla loro attività scolastica nei collegi. Dopo le leggi napoleoniche venivano ridotti di numero, dispersi e impoveriti, ma questo ridimensionamento contribuiva alla riorganizzazione dell’ordine, che si era sempre più legato ai ceti borghesi e nobiliari, venendo meno alle finalità del fondatore e dei primi chierici, fedeli al voto di povertà. Nel corso dell’Ottocento numerosi Barnabiti – come padre Semeria, padre Ghignoni, padre Gazzola – assumevano tendenze filoliberali. L’ordine veniva poi scosso dalla crisi modernista e dalla polemica rosminiana, ma anche dalla Prima guerra mondiale: molti padri richiamati alle armi morivano al fronte, collegi e case venivano trasformati in ospedali e infermerie. Durante la guerra di Liberazione si distingueva padre Grassi, vescovo di Alba. Le città italiane ospitano ancora oggi numerosi collegi, confermando la vocazione originaria dell’ordine.
Anche l’ordine degli Scolopi (chierici regolari poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie), nato nel 1597, si poneva l’obiettivo di educare e istruire la gioventù aprendo scuole gratuite senza distinzioni di classe e censo in tutta Italia, pronunciando un quarto voto: l’educazione cristiana della gioventù. Poiché prima del 1861 le singole province si erano sviluppate in modo difforme, esse subivano con un peso diverso i contraccolpi delle leggi del 1866: notevole per la provincia di Napoli, letale per quella siciliana e sarda. Nel secolo XIX, anche tra gli Scolopi molti furono attratti e affascinati dalle idee liberali. Negli anni Cinquanta-Sessanta del Novecento, dopo aver avuto una notevole espansione fuori dai confini nazionali, l’ordine trovava nuovo vigore anche in Italia, dove emergeva la figura di padreErnesto Balducci29 (processato e condannato, tra l’altro, per aver difeso l’obiezione di coscienza), la cui attività pastorale si fondava sulla formazione teologica dei laici e le iniziative caritativo-sociali.
Dediti anch’essi all’istruzione, i Somaschi (detti anche ‘servi dei poveri’) appartenevano a una congregazione religiosa che a partire dal secolo XVI aveva fondato in Italia numerosi collegi, orfanotrofi e scuole, specializzandosi soprattutto nell’istruzione di chi era privo di mezzi. Dopo le leggi del 1866 perdevano numerose case e subivano la dispersione dei religiosi, ulteriormente colpiti dalla Prima guerra mondiale. Nella seconda metà del Novecento riprendevano vigore espandendosi in tutto il mondo e dedicandosi alle nuove forme di povertà (assistenza ai giovani tossicodipendenti).
Fondati da Filippo Neri alla fine del Cinquecento, i Filippini30 (o Oratoriani) si distinguevano per la singolare carità verso il prossimo, unita alla ricerca e alla pratica della semplicità evangelica. Tra le personalità di peso notevolissimo che appartenevano alla congregazione ricordiamo – per l’Ottocento – il vescovo di Capua Alfonso Capecelatro e – per il Novecento – padreGiulio Bevilacqua, animatore a Brescia di quell’ambiente cattolico-liberale nel quale si sarebbe formato Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI.
L’ordine dei Camilliani (chierici regolari ministri degli infermi), fondato alla fine del Cinquecento da s. Camillo de Lellis, ai tre voti solenni aggiungeva quello di assistenza spirituale e corporale ai malati e altri quattro voti semplici (aboliti nel 1965), che prevedevano di non aspirare a cariche ecclesiastiche e di rifiutare la proprietà e l’amministrazione degli ospedali pubblici. All’inizio dell’Ottocento anche molti Camilliani – come altri chierici – erano venuti meno allo spirito del fondatore, abbandonando per comodità la vita comune ed esercitando l’assistenza agli infermi a domicilio per peculio. A tale situazione di rilassamento poneva fine con successo, a metà Ottocento, il veronese padre Bresciani, che aboliva il peculio privato e contribuiva a diffondere l’ordine nel lombardo-veneto, dove i chierici curavano i feriti nel 1848 nelle battaglie di Pastrengo e Custoza, nel 1859 a San Martino e Solferino e nel 1870 a Roma. Fedeli a una loro antica vocazione, assistevano i malati di colera nelle epidemie dal 1835 al 1886. Nel corso del Novecento diffondevano poi il loro apostolato caritativo in ospedali e ambulatori in tutto il mondo, fondando case di cura e cliniche proprie, ma anche dedicandosi alla formazione e all’assistenza del personale sanitario.
Le nuove congregazioni religiose31 di primo Ottocento nascevano negli anni in cui il processo di laicizzazione, avviato dall’Illuminismo e proseguito durante la Rivoluzione francese, trovava il suo culmine nella legislazione napoleonica. Le vecchie forme di vita claustrale erano andate in crisi e molti ordini erano stati soppressi dal «laicismo modernizzatore del Codice Napoleone (che individua nei voti religiosi perpetui una inaccettabile rinuncia ai diritti civili)»32: da quel momento il «vertice dello stato di perfezione» – osservava Nicola Raponi – non era più la contemplazione, ma la «carità operosa verso il prossimo». Se venivano però mantenuti la vita comune, i voti evangelici e la preghiera, rispetto al passato veniva abolita la clausura, venivano sospesi i voti perpetui introducendo i voti temporanei, le varie fondazioni venivano centralizzate sotto un unico superiore.
La novità maggiore risiedeva tuttavia nella scelta di porre al centro dei nuovi istituti l’apostolato verso il prossimo: «operare nella società e a vantaggio della società, nel mondo e per il mondo e non più nel chiuso del chiostro, per lenire le sofferenze dei singoli e i mali – morali e fisici, spirituali e materiali – della società, a vantaggio soprattutto dei più deboli, degli emarginati, degli esclusi»33. Gli ambiti di intervento erano molteplici e andavano dall’assistenza ospedaliera all’accoglienza degli orfani e degli abbandonati, dall’istruzione della gioventù cittadina alla formazione della gioventù rurale, all’educazione e avviamento al lavoro dei disabili. I nuovi istituti dediti all’insegnamento e all’assistenza dei più bisognosi proliferavano, distribuendosi geograficamente alla fine dell’Ottocento più al Nord che al Sud34.
Naturalmente ogni modello di vita religiosa si sviluppa in un certo tipo di società: gli ordini mendicanti nel Medioevo, i chierici regolari nel Cinquecento-Seicento, le congregazioni religiose nell’Ottocento, aprendo il loro reclutamento alle classi popolari: di conseguenza esse si presentavano come un elemento di evoluzione sia religiosa sia sociale35.
Nei seminari o nei pre-seminari dopo la fine delle elementari (o anche prima), entravano nelle nuove congregazioni anche i figli dei ceti piccolo-borghesi e proletari: il reclutamento nelle classi medio-basse spiega – secondo Rocca – «oltre l’abbondanza delle vocazioni, il livello piuttosto medio di tante istituzioni sia per quanto riguarda la cultura che altri valori umano-religiosi»36.
La maggior parte dei religiosi nell’Ottocento apparteneva quindi ai nuovi ‘istituti di voti semplici’, che ricevevano però una regolamentazione giuridico-statutaria solo con Pio XII: con la Conditae a Christo (1900) le fondazioni ottocentesche ottenevano la definizione canonica dello status religioso, ulteriormente precisato nel codice di diritto canonico (1917), quando ormai gran parte della loro storia era stata vissuta. Nella scala degli ‘istituti di perfezione’ all’inizio del Novecento erano collocati al primo posto ordini e congregazioni religiose (religiones), al secondo le società di vita comune senza voti pubblici e al terzo gli istituti secolari. Con la Provida Mater Ecclesia (1947), seguita l’anno successivo dalla Primo feliciter, si distinguevano le congregazioni religiose dalle società di vita comune senza voti semplici e si riconoscevano gli istituti secolari di nuova fondazione.
I cali numerici registrati dopo il 1866 riguardavano soprattutto gli ordini antichi, come i Francescani, mentre la tendenza sarebbe stata opposta nei nuovi ordini, come i Salesiani. Secondo un computo (che riguarda però tanto gli istituti maschili quanto quelli femminili), i nuovi istituti religiosi sorti tra Ottocento e Novecento erano distribuiti in maniera difforme tra Nord, Centro e Sud: se nella prima metà dell’Ottocento ne nascevano più al Nord (52) che al Centro (19) e al Sud (4), un secolo più tardi si assisteva a un ribaltamento dei dati: al Nord 47, al Centro 58 e al Sud 65, ma le congregazioni del Sud erano a carattere locale, quelle del Nord nazionale e, in poco tempo, internazionale. Fino al 1960 il numero di religiosi e religiose aumentava (anche se una prima diminuzione si registrava già negli anni Trenta del Novecento), poi iniziava il calo.
Gli istituti religiosi maschili fondati nell’Ottocento furono 2337 (quelli femminili 183): tre istituti missionari (Pontificio istituto missioni estere; Comboniani; Saveriani); un istituto per gli emigranti (Scalabriniani); sei istituti di carità (Compagnia di Maria per l’educazione dei sordomuti; Frati bigi; Congregazione della sacra famiglia di Bergamo; Missionari servi dei poveri o Boccone del povero; Società dei sacerdoti di s. Giuseppe Cottolengo; Fratelli dell’Immacolata Concezione); sette istituti dediti all’educazione della gioventù (Sacerdoti delle scuole di carità o Istituto Cavanis; Figli di Maria Immacolata o Pavoniani; Stimmatini o Congregazione delle SS. Stimmate di Nostro Signore Gesù Cristo; Salesiani; Congregazione di s. Giuseppe voluta da Leonardo Murialdo; Figli della carità canossiani; Sacra Famiglia di Nazareth o Piamarta); sei dediti ad attività varie (Oblati di Maria Vergine; Missionari dei SS. Cuori di Gesù e Maria; Istituto della carità o Rosminiani; Oblati di s. Giuseppe di Asti; Missionari del Preziosissimo Sangue; Società dell’apostolato cattolico o Pallottini). A partire dalla metà dell’Ottocento nascevano dunque in Italia, su iniziativa di sacerdoti fondatori, istituti religiosi che incontravano le esigenze di una società modellata dallo sviluppo economico, dall’industrializzazione e dai fenomeni, a essa collegati, dell’inurbamento e della secolarizzazione. Tra i vari ambiti di assistenza al prossimo vi era quello della formazione dell’infanzia e della gioventù povera e abbandonata, alla quale dedicarono la loro opera tre sacerdoti lombardi: Pavoni, Piamarta e Guanella.
Lodovico Pavoni (1784-1849)38, che avrebbe ispirato tanto don Bosco quanto Piamarta, si dedicava a Brescia all’assistenza, catechesi, istruzione e formazione professionale della gioventù povera e abbandonata, costretta a lavorare in ambienti degradati e degradanti dal punto di vista fisico e morale. Nel 1821 apriva un istituto assistenziale ed educativo con diverse specializzazioni professionali, tra le quali la tipografia, utilizzata in seguito per una forma di apostolato della stampa pubblicando opere di teologia e filosofia, ma anche manuali per la predicazione, testi di apologetica e catechismi. Tramite la sua opera Pavoni avviava il passaggio da un’educazione repressiva (comunemente utilizzata per la gioventù abbandonata e in difficoltà) a una formazione armonica basata sulla valorizzazione delle doti di ciascuno in una comunità accogliente. Pavoni acquistava poi la proprietà e il convento di Saiano, per avviarvi una scuola agricola e raccogliere gli orfani del contado. Nel 1841 entravano nell’istituto i primi sordomuti, ai quali venivano dedicate speciali attenzioni. Nel 1847 nasceva come opera educativo-assistenziale la congregazione dei Figli di Maria Immacolata (o Pavoniani). Se il governo provvisorio successivo alla cacciata degli austriaci aboliva tutti gli ordini religiosi tranne quello di Pavoni, riconoscendone il valore civile e sociale, le soppressioni nazionali del 1866 non salvavano invece la congregazione, diffusa ormai nel bresciano e in Veneto, dalla confisca e dalla dispersione dei membri. I pavoniani si riprendevano poi a Trento e a Milano e, all’inizio del Novecento, anche a Brescia, dove nel 1939, tramite la fondazione dell’editrice Ancora, veniva riorganizzato l’apostolato della stampa.
Qualche decennio dopo, anche il sacerdote Giovanni Piamarta39 (1841-1913), dirigendo l’oratorio di S. Alessandro a Brescia, nel prendere coscienza delle difficoltà della gioventù inurbata decideva di fondare un’opera che coniugasse la formazione e l’assistenza religiosa con la formazione professionale. Grazie all’aiuto economico di monsignor Capretti nel 1886 apriva un istituto per i primi quattro orfani trovati per strada, divenuti presto un centinaio. Tra le arti che si apprendevano nella sua opera (Istituto Artigianelli40) vi erano la falegnameria, l’officina-fabbri, l’officina meccanica, la forneria, la scuola edile. La tipografia annessa all’istituto stampava il «Cittadino di Brescia», che «esprimeva la corrente cattolico-liberale di Giorgio Montini, e contribuì alla diffusione di scritti educativi e di formazione morale e religiosa come Lo studente istruito nella dottrina cristiana del Bonomelli»41. Dopo la morte di Piamarta nasceva la congregazione della Sacra famiglia di Nazareth (approvata nel 1939), la cui finalità era l’assistenza religiosa, scolastica e professionale dei giovani, soprattutto i più poveri e bisognosi. Tra le iniziative piamartine si deve segnalare la fondazione dell’editrice Queriniana, specializzata nelle pubblicazioni teologiche.
L’attenzione di molti sacerdoti fondatori ottocenteschi non era rivolta solo alla realtà urbana e industriale, ma anche a quella rurale e agricola, dove molti intravedevano una sorta di oasi, refrattaria ai ‘frutti nefasti’ della modernità (e della città): scristianizzazione, degrado morale, allontanamento dagli insegnamenti del Vangelo. Padre Piamarta acquistava un vasto appezzamento di terra per dedicarsi alla formazione dei figli dei contadini ed evitare così un loro precoce inurbamento. Direttore della colonia agricola di Remedello (che sarebbe poi divenuto l’«Istituto Bonsignori», scuola agraria tutt’oggi molto attiva) era Giovanni Bonsignori (1846-1914), collaboratore di Piamarta, sacerdote e agronomo, autore del volume L’intensiva coltivazione della terra (1893), fondatore della rivista «La famiglia agricola» e della «Cattedra ambulante di agricoltura». Negli stessi anni il salesiano don Baratta dirigeva a Parma l’istituto S. Benedetto e scriveva Di una nuova missione del clero dinnanzi alla questione sociale (1895). Sia Bonsignori, sia Baratta si richiamavano alle teorie neo-fisiocratiche di Stanislao Solari; oltre ad occuparsi della formazione professionale degli artigiani e degli operai della città, essi si rivolgono anche ai figli dei contadini, addestrandoli nelle tecniche per migliorare le condizioni di vita nelle campagne42.
Bonsignori e Baratta credevano, con un ottimismo eccessivo, che il miglioramento del sistema agricolo avrebbe addirittura risolto la questione sociale: il contadino avrebbe incrementato i suoi guadagni fino a raggiungere quelli dell’operaio, che a sua volta avrebbe beneficiato di una progressiva diminuzione del prezzo degli alimenti. Le idee di Bonsignori, diffuse nella bassa lombarda, contribuirono alla nascita di un movimento agricolo organizzato. Altre colonie agricole venivano create da Murialdo, da Orione e da Guanella.
Don Luigi Guanella43 (1842-1915) sceglieva di dedicarsi ai poveri abbandonati, ai disabili, alla formazione religiosa delle popolazioni rurali. Nel 1875 per tre anni si univa a Torino alla Congregazione salesiana di don Bosco con voti triennali, scaduti i quali tornava in diocesi. I capisaldi della congregazione dei Servi della Carità (Opera don Guanella), fondata a Como nel 1886, erano: amore e cura dei poveri, disabili psichici (assistiti con sempre maggior attenzione e preparazione dal punto di vista medico, psico-pedagogico, scolastico, dell’inserimento sociale), sordomuti, anziani abbandonati e indigenti. L’opera interveniva con aiuti nell’epidemia di colera a Napoli (1884), nei terremoti in Calabria (1905), a Messina (1908) e nella Marsica (1915), espandendosi poi anche all’estero.
Per essere espressione anch’essi di questo ‘attivismo lombardo’ di stampo apostolico-sociale, meritano di essere ricordati – nonostante siano fondatori di una congregazione missionaria che, come si è detto, non è qui oggetto di particolare trattazione – Daniele Comboni e Giovanni Battista Scalabrini. Fondatore di una famiglia missionaria, il brescianoComboni (1831-1881) si rivolgeva totalmente all’evangelizzazione del continente africano, secondo il principio di «salvare l’Africa con l’Africa» e avviava una serie di iniziative finalizzate alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica italiana ai problemi del mondo africano, di cui oggi sono gli eredi il mensile «Nigrizia» e «Piccolo missionario», rivolto ai ragazzi. Da sacerdote, Scalabrini (1839-1905) fondava a Como una società di mutuo soccorso, un oratorio e un asilo infantile. Divenuto vescovo esortava i suoi sacerdoti a prestare attenzione alle nuove problematiche della società ottocentesca, come la questione operaia e l’emigrazione. Favorevole alla partecipazione dei cattolici alla vita politica del paese, collaborava con Geremia Bonomelli alla preparazione della conciliazione tra Stato e Chiesa. A Piacenza apriva un istituto per le sordomute (1879) e l’Opera pro Mondariso (1903).
Comunemente noti come Padri rosminiani, i membri dell’Istituto della carità appartengono a una congregazione ideata nel 1825-1826 su suggerimento di Maddalena di Canossa e avviata da Antonio Rosmini, che ottenne l’approvazione pontificia nel 1839: essa non si proponeva un fine particolare, ma la carità in tutte le sue forme, di Dio e del prossimo (carità temporale, intellettuale, spirituale), diffondendosi in pochi anni dall’Italia all’Inghilterra all’Irlanda. L’Istituto religioso rosminiano nasceva anche – sostiene Fulvio De Giorgi44 – per contribuire a migliorare la formazione del clero e dunque, in una prospettiva più ampia, alla riforma generale della Chiesa. Degni eredi del loro fondatore nel campo religioso e culturale sono stati nel corso del Novecento i sacerdoti rosminiani Giuseppe Bozzetti (superiore generale, attivo negli anni della Liberazione e incarcerato dai fascisti a Novara), Clemente Rebora (fine poeta religioso), Clemente Riva (sostenitore dell’ecumenismo e del dialogo con l’ebraismo).
Voluta dal francescano Ludovico da Casoria – di cui si è già detto – per la realizzazione della sua opera, la congregazione dei Frati della Carità (noti come ‘Frati Bigi’ dal colore dell’abito che indossavano), veniva creata nel 1860, approvata nel 1896 e aggregata all’Ofm nel 1906. Inizialmente costituita da laici destinati agli ospedali di Napoli per l’assistenza ai degenti, continuava poi a operare nel settore educativo e assistenziale: Francesco II per esempio li chiamava a Caserta per curare i feriti dell’esercito napoletano e dell’esercito garibaldino nel 1860. Dopo il 1960 si assisteva a un calo vocazionale al quale, nel 1971, faceva seguito il decreto di soppressione.
Nell’ambito sanitario-assistenziale nasceva nel 1857 a Roma la Congregazione dei Figli dell’Immacolata Concezione (concezionisti), fondata da Luigi Monti (1825-1900) e dedita oggi non solo all’assistenza degli ammalati, ma anche alla gestione di strutture sanitarie e alla ricerca medica e farmacologica.
Fondatore di un complesso di istituzioni religiose che prende il nome di «Famiglia Paolina», don Giacomo Alberione45 (1884-1971), dopo aver diretto il settimanale diocesano «Gazzetta d’Alba», dava vita a una scuola tipografica, nella convinzione che – nella nuova società – l’apostolato della stampa e degli altri mezzi di comunicazione sociale fosse una vera predicazione: «le macchine sono pulpiti e la tipografia una chiesa». L’obiettivo della congregazione religiosa maschile voluta da Alberione (la Pia società s. Paolo) era l’istruzione cristiana e gratuita tramite la scuola, la predicazione e la diffusione della ‘buona stampa’. Per sostenere le spese e facilitare gli investimenti della parte tipografico-editoriale (cresciuta notevolmente), nonostante Alberione volesse che restasse solo un mezzo per la diffusione del messaggio cristiano, diveniva presto necessario creare una banca e una società per azioni. Negli anni venti la scuola tipografica era ben avviata, economicamente attiva, aveva un ramo maschile e uno femminile, sacerdoti, chierici, centinaia di studenti, stampava settimanali, bollettini, riviste (tra le quali «Il Giornalino», settimanale per bambini diffuso anche oggi). Tra gli anni Venti e Settanta l’Istituto cresceva molto sia in Italia sia all’estero, la casa generalizia e Alberione si trasferivano dal Piemonte a Roma, dove il centro dell’attività diveniva quella cinematografica, radiofonica ed editoriale (nella prima metà degli anni Sessanta contribuiva tramite traduzioni a far conoscere in Italia il pensiero teologico di De Lubac, Rahner, Schille- beeckx, Congar, Möhler).
Tra le varie istituzioni volute da don Alberione vi era la Società anonima italiana editrice, fondata allo scopo di produrre e diffondere libri non espressamente religiosi negli ambienti non cattolici, assumendo anche personale non religioso e configurandosi, sempre sotto la direzione dei sacerdoti paolini, come società editoriale laica. Nel 1938 nasceva la Sanpaolo film che avviava un’intensa attività cinematografica prima con il noleggio e poi con la produzione di cortometraggi e lungometraggi. Nel gruppo periodici si sviluppavano sempre più le riviste (tra le quali «Famiglia cristiana», oggi la rivista cattolica più diffusa del mondo). Il «Gruppo libri» nel 1978 prendeva il nome di Edizioni Paoline, mentre il «Gruppo Sanpaolo film» continua a produrre, noleggiare e distribuire film attraverso la sua rete di librerie, spesso collocate nel cuore delle principali città. Con il calo delle vocazioni il numero dei membri della Società di s. Paolo da 719 nel 1968 passava a 490 nel 1979.
Paolo VI in un discorso del 1963 aveva attribuito al sostrato spirituale e sociale che, nel corso dell’Ottocento, aveva dato alla Chiesa «un tipo di ecclesiastico santo, fedelissimo alla dottrina ortodossa e al costume canonico, un uomo di preghiera e di mortificazione», pronto a intervenire laddove «bisogni gravi ed urgenti reclamano il suo intervento»46 la definizione di «Scuola di santità torinese».
Espressione di quella forma di ‘santità sociale’ sono stati Giuseppe Benedetto Cottolengo, Giovanni Bosco, Leonardo Murialdo, ai quali si devono aggiungere anche Luigi Orione e Giuseppe Allamano. Canonizzati entrambi nel 1934 da Pio XI, i primi due si dedicavano soprattutto alla gioventù bisognosa.
Giuseppe Cottolengo (1786-1842), Fondatore della Piccola Casa della Divina Provvidenza e dei preti secolari della SS. Trinità del Cottolengo di Torino (1840) sceglieva di dedicarsi ai più poveri e derelitti della società: orfani, invalidi, disabili psichici. Stimato da Carlo Alberto, apriva uno dei primi asili infantili in Piemonte (1831).
La vocazione educativa caratterizzava fin da subito l’apostolato di don Bosco (1815-1888), prima tra i detenuti e poi a Torino nell’oratorio del quartiere periferico di Valdocco, che diveniva il centro propulsore della sua opera. Egli si rivolgeva alla gioventù abbandonata con intenti catechetico-religiosi e ricreativi, ma anche nell’ottica dell’apprendistato e della formazione professionale. A partire dalla metà del secolo iniziava un’intensa attività di divulgatore con saggi e volumi di natura apologetica, fondando poi una casa editrice presso la quale pubblicava i suoi scritti e collane di libri scolastici. Il modello dell’oratorio e della casa per giovani di Valdocco si diffondeva presto in tutta Italia, in Europa e in Sud America, così come l’intuizione educativa di don Bosco, che si fondava sul cosiddetto metodo preventivo e prevedeva che l’educatore, attraverso un atteggiamento paziente e amorevole, riuscisse a prevenire i comportamenti devianti, soprattutto presso la gioventù disagiata e abbandonata. La società salesiana, fondata a Torino nel 1859, si ispirava alla spiritualità del vescovo di Ginevra s. Francesco di Sales (molto diffusa nell’Ottocento), dal quale derivava il carisma di ottimismo e amorevolezza. Per proteggere la congregazione dalle leggi di soppressione, il ministro Umberto Rattazzi suggeriva a don Bosco che i membri restassero privati cittadini riuniti per beneficenza, mantenendo diritti e doveri civili47. Nell’anno della morte del fondatore i Salesiani erano 773, divenuti 6.000 a inizio Novecento – grazie alla consistente presenza missionaria nei paesi più poveri – e 15.000 alla fine degli anni Quaranta; nel 1967 erano 21.614. Con il 1968 la contestazione giovanile entrava anche tra i Salesiani; tra il 1977 e il 1984 si verificava una decrescita numerica del 20%, con fenomeni di abbandono dei voti. Presso l’oratorio salesiano di don Bosco a Torino, si formava il sacerdote Giuseppe Allamano (1851-1926), fondatore dell’Istituto della Consolata per le missioni estere (missionari della Consolata), presente oggi in tutto il mondo.
Nel solco della tradizione pavoniana e salesiana, ma arricchito da una formazione internazionale acquisita nel contatto diretto con le più vive realtà educative europee, si collocava il torinese Leonardo Murialdo48 (1828-1900). Nel diventare sacerdote si dedicava ai giovani poveri e abbandonati, dirigendo, su invito di don Bosco, l’oratorio di S. Luigi a Torino. Dopo qualche anno di formazione a Parigi, prendeva a dirigere il collegio Artigianelli, rivolto ai giovani dagli 8 ai 24 anni. Istituiva il riformatorio di Bosco Marengo (Alessandria) per i giovani carcerati e una colonia agricola a Rivoli Torinese con la scuola tecnico-pratica annessa. A Torino nel 1878 apriva una casa-famiglia per i giovani operai e gli studenti poveri e un dormitorio per i lavoratori in viaggio; creava le Unioni operaie cattoliche, che avrebbero contribuito alla nascita del movimento operaio cattolico, avviando tutta una serie di iniziative per la formazione religiosa, culturale e professionale dell’operaio: catechismi serali, biblioteche circolanti, uffici di collocamento, casse di soccorso.
Per elevare culturalmente gli operai e dare voce alle loro legittime rivendicazioni fondava il giornale «La voce dell’operaio», «organo delle associazioni operaie cattoliche». Tra le numerose iniziative associative, se ne ricordano alcune con intenti elettorali, per la libertà dell’insegnamento cattolico e per la diffusione della ‘buona stampa’. Ai membri della Congregazione di s. Giuseppe (Giuseppini del Murialdo), fondata nel 1873 a Torino, venivano richieste abilità e capacità pedagogica, unite a moralità e religiosità, pazienza e calma, fedeltà ai principi di solidarietà e giustizia per formare, in un clima di amicizia e ottimismo, «personalità responsabili e libere». Si rivolgevano agli abbandonati, ai poveri e alla gioventù bisognosa di correzione operando negli orfanotrofi, nelle carceri, nei riformatori, nelle colonie agricole, nelle scuole operaie. All’inizio del Novecento i giuseppini esportavano la loro opera in Cirenaica e Tripolitania (Libia), poi Brasile, Ecuador, Argentina, Cile, Stati Uniti, Spagna.
Definito da Pio XII «apostolo della carità» e «padre dei poveri», don Luigi Orione49 (1872-1940) istituiva la Piccola Opera della Divina Provvidenza (Orioniti), a Torino nel 1903. Si occupava dell’infanzia povera creando scuole e colonie agricole, guadagnandosi la stima di Pio X, che gli affidava la chiesa di S. Anna in Vaticano e gli donava la colonia agricola S. Maria (1912). Come don Guanella, a seguito del terremoto di Messina (1908) e della Marsica (1915), si spostava nel Mezzogiorno per occuparsi dei numerosi orfani, divenendo per tre anni vicario generale dell’arcidiocesi di Messina. All’inizio del secolo inviava i primi missionari in Brasile e Palestina, fondando poi case in Polonia, Stati Uniti, Ungheria, Albania, Sud-America.
A partire dalla metà dell’Ottocento, la Chiesa cattolica – ormai caduti i presupposti che da secoli avevano retto l’alleanza trono-altare – si era trovata ad affrontare una questione che, per certi versi, può essere considerata fondamentale, cioè la definizione del suo rapporto con la modernità. In questi ultimi centocinquant’anni la Chiesa intraprendeva un percorso nel quale la relazione con la modernità passava dalla contrapposizione frontale al tentativo di integrare con il cattolicesimo principi e valori del moderno ritenuti validi. Fallito l’intransigentismo iniziato con il Sillabo, culminato nella condanna del modernismo e durato fino alla metà del secolo appena trascorso, Giovanni XXIII avviava – com’è noto – l’aggiornamento, tramite l’indizione del concilio Vaticano II, del rapporto della Chiesa con il moderno.
Gli istituti religiosi, in questo complesso percorso al quale qui si è solo per sommi capi accennato, si collocavano in una posizione del tutto originale: se per certi versi hanno rischiato l’estinzione (al momento delle ‘soppressioni’), hanno dall’altra parte – come si è visto – saputo trasformarsi, compiere una sorta di metamorfosi che ha consentito loro di attraversare da protagonisti il ‘lungo Ottocento’ arrivato fino alla Prima guerra mondiale. Essi infatti, di fronte ai processi di modernizzazione, svilupparono una nuova sensibilità spirituale e caritativa verso le nuove povertà generate dalla rivoluzione industriale e dall’urbanesimo; istituirono opere, specialmente nei campi educativo e socio-sanitario, innovative in quanto a metodi, strumenti, modalità operative; per il loro continuo contatto con la modernità acquisirono una conoscenza specifica e puntuale – non fosse altro per motivi giudiziari – dei meccanismi istituzionali statali e della burocrazia; infine, diedero un contributo concreto e sostanzioso alla modernizzazione della società in Italia50.
Come si è visto, rispetto al movimento cattolico, le congregazioni religiose coglievano per tempo «gli elementi di modernità e di trasformazione della società, dei rapporti sociali; esse avvertono l’avanzata della società industriale e preparano gli uomini ad operarvi dall’interno foggiando gli strumenti per affrontarne le conseguenze negative»51. Inoltre, nel conflitto ottocentesco Stato-Chiesa le congregazioni religiose hanno forse rappresentato – complessivamente – un compromesso ben accetto allo Stato, anche se hanno dovuto far fronte alle difficoltà scaturite dalle leggi di soppressione, che hanno però contribuito al loro aggiornamento statutario-organizzativo e – privandole delle rendite patrimoniali (‘manomorta’) – le hanno costrette a fondare su nuove basi economiche il loro sostentamento.
Dall’altra parte le congregazioni – nella loro ‘metamorfosi’ a contatto con il mondo moderno – hanno colmato uno spazio lasciato vuoto dallo Stato (rappresentando oltre tutto un’ingente fonte di risparmio per il nascente Stato nazionale costantemente in deficit finanziario) nel sistema sanitario, nel sistema scolastico (educazione della prima infanzia, introduzione di novità pedagogiche: dal metodo repressivo al metodo preventivo di don Bosco e dei suoi seguaci); nell’assistenza ai lavoratori (conoscenza dei diritti, scuole serali, prime forme di mutuo soccorso-sindacali); nell’assistenza agli anziani (case di riposo per vecchi pescatori, preti anziani, nobili decaduti); nella formazione professionale (gli artigianelli). I religiosi hanno inoltre espresso delle forme di solidarietà nazionale (intervento nei terremoti di Messina e della Marsica da parte di congregazioni radicate nel Nord Italia) mostrando in diverse occasioni fedeltà allo Stato (come cappellani militari al fronte, prestando soccorso ai feriti nelle guerre risorgimentali e mondiali, ma anche in relazione all’attività missionaria nella politica coloniale).
Prima di altre istituzioni statali, gli ordini e le congregazioni religiose hanno saputo approfondire la conoscenza del mondo moderno nei suoi aspetti negativi (inurbamento e degrado legati all’industrializzazione) sfruttando al contempo le innovazioni utili al loro apostolato (la stampa prima, la radio, la televisione e la rete poi), divenendo così attenti interpreti dei problemi della società (che dal Medioevo all’età contemporanea ha sempre più accelerato le fasi di cambiamento, determinando quindi una progressiva riduzione della loro ‘vita’: tre-quattro secoli per gli ordini medievali, 150 anni per le congregazioni ottocentesche), formulando adeguate risposte alle esigenze dell’epoca nella quale si trovavano a vivere.
1 La bibliografia sugli ordini, le congregazioni religiose e i fondatori è vastissima: per ragioni di spazio, si rimanda a G. Rocca, La storiografia italiana sulla congregazione religiosa, in Religiose, religiosi, economia e società nell’Italia contemporanea, a cura di G. Gregorini, Milano 2008, pp. 29-71; per i dati numerici e biografici relativi a fondatori e congregazioni si rimanda al DIP.
2 Cfr. R. Hostie, Vie et mort des ordres religieux: approches psychologiques, Paris 1972.
3 Cfr. N. Raponi, Congregazioni religiose e Movimento cattolico, in DSMC. Aggiornamento 1980-1995, a cura di F. Traniello, G. Campanini, Genova 1997, pp. 82-96.
4 G. Martina, s.v., Italia, in DIP, cit., col. 221; sul piano di riforma di monsignor Sala cfr. F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo. L’educazione dell’uomo moderno tra riforma della filosofia e rinnovamento della Chiesa (1797-1833), Brescia 2003, pp. 188-197.
5 G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, in M. Rosa, Clero e società nell’Italia contemporanea, Roma-Bari 1992, pp. 207-208.
6 G. Griseri, s.v., Soppressioni, in DIP, cit., col. 1862.
7 Ibidem.
8 La legislazione italiana si distingueva dunque in questo da altri paesi europei, che invece avevano addirittura vietato a frati, chierici e monaci la vita comune.
9 G. Martina, s.v., Italia, in DIP, cit., col. 226 segg.
10 Ibidem, col. 229.
11 G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, cit., pp. 237-238.
12 G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII (1939-58), in Problemi di storia della Chiesa. Dal Vaticano I al Vaticano II, a cura dell’Associazione italiana dei professori di storia della chiesa, Roma 1988, p. 264.
13 Cfr. G. Martina, La situazione degli istituti religiosi in Italia intorno al 1870, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), Atti del IV Convegno di storia della Chiesa (La Mendola, 1971), I, Relazioni, Milano 1973, pp. 194-335.
14 G. Martina, s.v., Italia, in DIP, cit., col. 231.
15 Ibidem, coll. 231-232.
16 Ibidem, col. 232.
17 Ibidem.
18 G. Martina, s.v., Soppressioni, in DIP, cit., col. 1876.
19 G. Rocca, Istituti religiosi in Italia tra Otto e Novecento, cit., p. 230.
20 Cfr. F. De Giorgi, I missionari da Massaia a Comboni. Educatori religiosi o educatori di italianità?, in Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra otto e novecento, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1999, pp. 145-188.
21 Cordovani, (1883-1950), teologo, amico di Giovanni Battista Montini dai tempi della Fuci.
22 Spiazzi, (1918-2002), teologo, autore di centinaia tra saggi e volumi, tra i quali l’Opera omnia di s. Tommaso d’Aquino.
23 G. Martina, Storia della Compagnia di Gesù in Italia (1814-1983), Brescia 2003, p. 13.
24 Ibidem, p. 73.
25 Ibidem.
26 Cfr. A. Giovagnoli, Dalla teologia alla politica. L’itinerario di Carlo Passaglia negli anni di Pio IX e Cavour, Brescia 1984.
27 G. Zizola, Il microfono di Dio: Pio XII, padre Lombardi e i cattolici italiani, Milano 1990.
28 G. Rocca, La vita religiosa, in I cattolici nel mondo contemporaneo (1922-1958), a cura di M. Guasco, E. Guerriero, F. Traniello, Cinisello Balsamo, 1991, p. 381.
29 B. Bocchini Camaiani, Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità, Roma-Bari 2002.
30 Cfr. F. De Giorgi, La spiritualità dell’Oratorio nell’Ottocento, in Oratorio e laboratorio. L’intuizione di san Filippo Neri e la figura di Sebastiano Valfrè, F. Bolgiani, G.F. Gauna, A. Gobbo et al., Bologna 2008.
31 Cfr. G. Rocca, La vita religiosa dal 1878 al 1922, in La Chiesa e la società industriale (1878-1922), a cura di E. Guerriero, A. Zambarbieri, Cinisello Balsamo, 1990, pp. 137-160.
32 N. Raponi, Congregazioni religiose e Movimento Cattolico, cit., p. 83.
33 Ibidem.
34 G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII (1939-58), cit., p. 242; cfr. Id., Aspetti istituzionali e linee operative nell’attività dei nuovi istituti religiosi, in Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, a cura di L. Pazzaglia, Brescia 1994, pp. 173-198.
35 G. Rocca, Riorganizzazione e sviluppo degli istituti religiosi in Italia dalla soppressione del 1866 a Pio XII (1939-58), cit., p. 292.
36 Id., La vita religiosa, cit., p. 374.
37 G. Martina, s.v., Italia, in DIP, cit., coll. 217 segg.
38 Cfr. A. Palazzini, Pavoni, in DIP, cit., coll. 1295-1297; Id., Figli di Maria Immacolata, in DIP, cit., coll. 1507-1513; Lodovico Pavoni. Un fondatore e la sua città, Atti del Convegno di studi (Brescia, 1999), Brescia 2000.
39 Cfr. Giovanni Piamarta e il suo tempo (1841-1913), Atti del Colloquio di studio (Brescia, 1987), Brescia 1987; D. Bettinzoli, Piamarta, in DIP, cit., coll. 1533-1535; Id., Sacra famiglia di Nazareth, in DIP, cit., coll. 142-143.
40 Cfr. A. Salini, Educare al lavoro. L’Istituto Artigianelli di Brescia e la Colonia agricola di Remedello Sopra tra ’800 e ’900, Milano 2005.
41 N. Raponi, Congregazioni religiose e Movimento Cattolico, cit., p. 90.
42 Ibidem, p. 91.
43 Cfr. L’opera di don Luigi Guanella. Le origini e gli sviluppi nell’area lombarda, Atti del Convegno di studio per il centenario della fondazione della Casa della Divina Provvidenza (Como 1986), Como 1988; P. Pasquali, Guanella, in DIP, cit., coll. 1458-1461; P. Pasquali, D. Saginario, Servi della carità, in DIP, cit., coll. 1390-1393.
44 Cfr. F. De Giorgi, Rosmini e il suo tempo, cit.
45 G. Rocca, s.v., Pia società di s. Paolo, in DIP, cit., col. 1549.
46 G. Milone, s.v., Leonardo Murialdo, in DIP, cit., col. 595.
47 Cfr. P. Stella, Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, Roma 1979.
48 Cfr. L. Pazzaglia, Apprendistato e istruzione degli artigiani a Valdocco, in Don Bosco nella storia della cultura popolare, a cura di F. Traniello, Torino 1987, pp. 13-80.
49 Cfr. La figura e l’opera di don Luigi Orione (1872-1940), Atti dell’Incontro di studio (Milano 1990), Milano 1994.
50 Cfr. F. De Giorgi, Sviluppi e prospettive della storiografia sulla Congregazioni religiose italiane di fondazione ottocentesca, in Lodovico Pavoni. Un fondatore e la sua città, cit., p. 30; cfr. Id., Cattolici ed educazione tra Restaurazione e Risorgimento. Ordini religiosi, antigesuitismo e pedagogia nei processi di modernizzazione, Milano 1999.
51 N. Raponi, Congregazioni religiose e Movimento Cattolico, cit., p. 93; cfr. Id., Congregazioni religiose e società civile, «Ricerche storiche salesiane», 19, 2000, pp. 135-146.