METAFORA (dal gr. μεταϕορά "trasferimento; metafora"; lat. metaphora)
La retorica antica chiamò metafora quella figura che consiste nel trasferire un termine da quel concetto a cui propriamente si applica a un nuovo concetto che presenta col primo qualche somiglianza di carattere: per es., quando si dice di un uomo coraggioso che "è un leone" o si parla dei "denti di un ingranaggio".
Da un punto di vista logico, la metafora non è perciò che una similitudine abbreviata. Ma essa non va considerata solo dal punto di vista logico, e solo come una specie di ornamento retorico: metaforico è nelle sue origini tutto il linguaggio, come ben vide G. B. Vico, il quale, sottolineando l'aspetto intuitivo della metafora, la defini "una picciola favoletta".
Metafore vive sono quelle in cui ancora si percepisce, accanto al significato traslato, quello proprio, come nel primo e, un po' meno, nel secondo degli esempî citati; invece solo una più attenta osservazione permette di ricostruire l'antica bivalenza, ormai obliterata, in termini come occhiello (propriamente "piccolo occhio"), appannarsi (propriamente "coprirsi d'un panno"), sgattaiolare (uscire di soppiatto come un gatto per la gattaiola). Finché le metafore sono bivalenti è indispensabile evitare incoerenze come quelle che si notano nelle frasi caricaturali: "una stella in erba che canta con mano maestra"; "il carro dello stato naviga su un vulcano".
Bibl.: G. Gerber, Die Sprache als Kunst, 2ª ed., Berlino 1884; U. Cosmo, in Scritti vari in onore di R. Renier, Torino 1912, pp. 773-793.