Metafisica
(Μεταφυσικά; τὰ μετὰ τὰ φυσικά) Opera di Aristotele. Il termine metafisica con cui si designa l’insieme dei 14 trattati, raccolti ed editi da Andronico di Rodi intorno alla metà del 1° sec. a.C., non compare nella filosofia antica ed entra nell’uso in epoca tardo-antica e medievale; esso rinvia, genericamente, agli scritti che seguivano quelli sulle cose fisiche (φυσικά) ed erano quindi collocati «μετὰ τὰ φυσικά», formula poi contratta in μεταφυσικά. Il carattere composito del testo è stato oggetto di approfondite ricostruzioni filologico-genetiche, stilometriche e interpretative (H. Bonitz, 1849; Jaeger, 1912, 2a ed., 1923; W.D. Ross, 1924; P. Aubenque, 1962; I. Düring, 1966) circa l’origine, la disposizione e l’autenticità delle sue parti, ma nella forma in cui è stato prevalentemente studiato nella storia della filosofia lo scritto si compone di 14 libri, indicati con la numerazione romana da I a XIV o, nell’edizione greca, con le lettere da Α a Ν, in quanto al lib. Α (alfa maiuscolo) segue il lib. α (alfa minuscolo), cosa che non avviene per gli altri libri. Nella tradizione latina α è stato indicato come lib. II, originando uno spostamento nella corrispondenza fra ordine numerico e ordine alfabetico (Β è il lib. III, Γ, il lib. IV, e così via).
Nei trattati della M. Aristotele si propone di determinare i principi ultimi da cui dipende l’esistenza di tutte le cose; a tale conoscenza egli dà il nome di «filosofia prima» (πρῶτη φιλοσοφία) come scienza delle sostanze ‘separate’, in opposizione alla «filosofia seconda», o «fisica», che si occupa delle sostanze sensibili. La metafisica può essere dunque considerata come studio delle cause e dei principi primi, come scienza della sostanza (οὐσία) e, specificamente, della sostanza prima, ossia come conoscenza o scienza teoretica del divino («ϑεολογική»; 1026 a 19; 1064 b 2), e ancora come scienza dell’«essere in quanto essere» («τὸ ὄν ᾗ ὄν» 1003 a 20), al di qua dei caratteri specifici, oggetto delle scienze particolari. Il desiderio di conoscere è proprio dell’uomo (Α, 1) e deve essere perseguito mediante una scienza apposita. Per conoscere non è sufficiente limitarsi alla mera constatazione dell’oggetto dell’esperienza, il «che» (τὸ ὄτι), ma bisogna penetrarne le condizioni necessarie, fondanti e strutturanti, ossia comprendere «perché» (τὸ διότι) qualcosa è, mediante la conoscenza della causa (αἰτία). La scienza che indaga il «perché» oltrepassa sia la competenza empirica (ἐμπειρία), sia la competenza teorica (τέχνη), pervenendo alla conoscenza prima e generale, che concerne tutte le cose ed è ricercata per sé stessa. Tale conoscenza si declina successivamente nelle specificazioni particolari delle diverse applicazioni disciplinari (Α, 1-2). La conoscenza della causa si attinge secondo quattro prospettive, alla quale corrispondono altrettanti tipi di cause, formale, materiale, efficiente (o motrice) e finale, delle quali soltanto le prime due sono state identificate, ma in modo impreciso e imperfetto, dai filosofi precedenti. Aristotele, ripercorrendo e interpretando le tesi di costoro, pur entro il proprio disegno teorico e mediante il proprio apparato concettuale e terminologico, traccia la prima storia della filosofia, dai «naturalisti» fino ai suoi contemporanei. Nel far ciò, egli confuta sia l’errore dei pitagorici nel considerare il numero come «principio», conferendogli impropriamente il carattere di sostanza, sia la teoria platonica delle idee come cause formali «separate», che avvia, inoltre, la successiva speculazione sull’uno e la diade (Α 3-9). Il lib. II (α), la cui attribuzione è più insicura, espone le difficoltà che sorgono nel determinare la verità come conoscenza adeguata delle cause supreme. Nell’indagine scientifica è necessario tener conto sia di ciò che è più conosciuto per noi (per es., ciò che è attingibile mediante i sensi) sia di ciò che è più conosciuto in senso assoluto; inoltre, il metodo delle scienze non può essere unico, ma peculiare e appropriato all’oggetto di ciascuna di esse (α, 3). Nel lib. III (Β) Aristotele presenta e discute le aporie derivate da approcci filosofici incentrati sull’unilaterale, e insormontabile, contrapposizione fra tesi e antitesi, per es., relativamente all’esistenza separata delle idee e delle nozioni matematiche; allo statuto di nozioni universali privilegiate, quali genere, essere e uno; alla derivazione delle cose corruttibili dalle incorruttibili; alla possibile anteriorità della potenza rispetto all’atto, e così via. Nel lib. IV (Γ) Aristotele definisce la filosofia prima come la scienza dell’«essere in quanto essere» (τὸ ὄν ᾗ ὄν, 1003 a 20), ma constata che il termine essere «è usato in molte accezioni» (1003 a 33) e, essendo più ampio delle specie e del genere, per essere studiato e compreso deve essere riferito alla sostanza (οὐσία), risolvendo le aporie fra essere e non-essere, simile e dissimile, identico e altro, uno e molteplice (Γ, 1-2). Ne consegue che compito della metafisica sia anche lo studio e il riconoscimento dei principi, indimostrabili ed evidenti, del ragionamento e della realtà, come sono gli assiomi, in primo luogo quelli di non-contraddizione (Γ, 3-6) e del terzo escluso (Γ, 7). Essendo tali assiomi indimostrabili, Aristotele si avvale del procedimento dell’ἔλεγχος per confutare l’intrinseca contraddittorietà delle tesi che pretendono di negarli. Il lib. V (Δ) chiarisce il lessico filosofico che Aristotele impiega definendo nozioni chiave, quali: principio, causa, elemento, natura, necessario, uno, essere, sostanza. Di grande importanza sono le precisazioni relative al termine essere «ὄν» (Δ, 7; successivamente riprese e approfondite in Ε, 2-4 e Κ, 8-9). L’essere può essere considerato relativamente all’accidente (ὄν κατὰ συμβεβηκός) o per sé (ὄν καϑ᾿αὑτό), ossia in quanto sostanza che, a sua volta, è anche la prima e la principale delle categorie. Inoltre l’essere può riferirsi al vero (in quanto il falso o non-essere, μὴ ὄν, ha una consistenza non ontologica, ma puramente verbale e mentale), e anche alla potenza e all’atto (ὄν δυνάμει καὶ ἐντελεχείᾳ). Il lib. VI (Ε) classifica le scienze in «pratiche» (volte all’azione), «poietiche» (volte alla produzione) e «teoretiche» (volte alla conoscenza); queste ultime sono a loro volta suddivise in «fisica» (studio delle sostanze sensibili mobili e separate), «matematica» (studio delle sostanze immobili, ma non separate – se non per astrazione), «metafisica» (studio delle sostanze soprasensibili, immobili e separate, ossia del divino). Lo studio dell’essere in quanto essere spetta dunque a quella scienza che è prima anche rispetto all’ambito teoretico, cioè la scienza del divino. La determinazione dell’essere in quanto essere viene ricondotta ai diversi significati che il concetto assume (2-4); l’accidente è definito come vicino al non-essere, il falso come affezione del pensiero e non come carattere del reale. Nel lib. VII (Ζ) l’essere è riferito alle categorie, fra le quali quella di sostanza ha carattere prioritario sia in merito ai diversi significati, sia rispetto alle supreme divisioni ontologiche del reale. Stabilire cosa sia l’essere significa stabilire cosa sia la sostanza (οὐσία), la quale è sostrato (ῢποκείμενον), in quanto sottostà alle determinazioni categoriali e accidentali, o forma (εἶδος, μορφή), o, in quanto definibile, è essenza (τὸ τί ἦν εἶναι), o ancora individuo concreto, ossia «sinolo» (σύνολον) di materia e forma, prioritario rispetto al conoscere sensibile. Dal punto di vista metafisico, tuttavia, la priorità spetta alla forma, e la sostanza si determina come ciò che non inerisce né si predica di altro, sussiste per sé, come alcunché di determinato (τόδε τι), ha unità, ossia non è un aggregato di parti, è «atto» o è «in atto ». I concetti di potenza (δύναμις) e atto (ἐντελέχεια) sono esposti nel lib. VIII (Η) in merito alla correlazione fra materia e forma; in senso proprio soltanto il loro composto (sinolo) esiste, ma la sua unità è determinata dalla forma. L’analisi della potenza e dell’atto prosegue nel lib. IX (Θ). La potenza è principio di cambiamento (Θ, 1-5) e la materia, rispetto alla forma, è appunto potenza, mentre la forma è sostanza e atto (come l’anima per il corpo). L’atto ha cioè maggiore densità ontologica della potenza e per tale motivo ciò che è incorruttibile esiste solamente in atto ed è scevro di potenzialità: tale è il primo motore. Il lib X (Ι) tratta dell’uno, sottolineando che gli usi diversi del termine rinviano comunque tutti al suo carattere di indivisibile. L’uno è principio del numero e nozione astratta, ed è stato impropriamente elevato a realtà dai platonici. Le astrazioni sono infatti predicati della realtà, ed è questo che consente di ricalibrare e risolvere le dicotomie platoniche relative all’uno e al molteplice, all’uguale e al diverso, e ai contrari. Nel lib. XI (Κ) Aristotele riassume alcuni contenuti dei i libri precedenti e gli ultimi quattro capitoli della Fisica (➔), mentre nel lib. XII (Λ) dimostra (1-7) l’esistenza del primo motore, a partire dalla riflessione sull’eternità del tempo e del movimento (che non può avere inizio temporale), sulla sostanza, sensibile e soprasensibile, sulla potenza e sull’atto. L’essere composto di materia e forma comporta l’essere potenza e atto, ma la sostanza pura e separata, essendo pura forma e immateriale, è atto puro scevro da potenzialità; il contrario implicherebbe infatti il tendere a un fine, dunque un processo da compiersi, contrario alla perfezione e all’eternità. Il movimento del mondo dipende da un primo motore (Λ, 7; Fisica, VIII), che, pur immobile ed eterno, suscita il movimento come l’oggetto amato lo suscita nell’amante: «κινεῖ δὴ ὡς ἐρώμενον» (1072 b 3-4) e si identifica con il divino. Da ciò deriva anche l’eternità dell’Universo. Essendo pienamente in atto, il divino è attività di conoscenza che si attua come pensiero di sé, ossia di pensiero (νόησις νοήσεως), e tale contemplazione si risolve in sé e nell’amore di sé, con esclusione degli individui empirici e particolari. In Λ 8 Aristotele espone la sua cosmologia in base all’astronomia geocentrica di Eudosso, stabilendo il movimento degli astri, ordinati in 55 (o 47, a seconda di come si considerino i movimenti del Sole e della Luna) sfere trasparenti e solide, mosse da motori immobili (atti puri) e disposte gerarchicamente. Nei libri XIII (Μ) e XIV (Ν) Aristotele mostra come la sua dottrina metafisica consenta di superare i limiti e le difficoltà poste sia dalle concezioni pitagoriche circa il numero e l’astrazione, sia dal platonismo quale è venuto configurandosi in Speusippo (allora guida dell’Accademia), la cui riflessione è incentrata sull’uno e sulla diade indefinita di grande e piccolo (Ν, 1-2). Aristotele nega la coincidenza fra uno e bene (Ν, 4) e l’identificazione dei numeri con le cause della realtà (Ν, 5-6).