Messo celeste
celeste. Con questa denominazione si suole correntemente indicare il misterioso personaggio che viene ad aprire a D. e a Virgilio la porta di Dite, dopo che i demoni con tracotanza l'hanno chiusa, negando le dolenti case a chi sanza morte, ardito, andava per lo regno de la morta gente. Una tracotanza non nuova, perché essi l'usarono anche contro Cristo disceso a liberare i giusti dal Limbo. Virgilio non dispera né vuole che D. disperi: sa che ci sarà un aiuto superiore: anzi, già di qua dalla porta dell'Inferno sta discendendo l'erta, / passando per li cerchi sanza scorta, / tal che per lui ne fia la terra aperta (If VIII 128-130). Questa fiducia e speranza di Virgilio in un aiuto che pure dovrà giungere, si fonda su un'offerta di aiuto a lui fatta: Tal ne s'offerse (IX 8). Un rombo, pien di spavento, annunzia l'arrivo del soccorso celeste, e, tra la fuga delle anime dannate, D. vede un ch'al passo / passava Stige con le piante asciutte. / Dal volto rimovea quell'aere grasso, / menando la sinistra innanzi spesso; / e sol di quell'angoscia parea lasso (IX 80-83). Pien di disdegno viene alla porta e con una verghetta / l'aperse, quindi, rivolto ai demoni, ribadisce loro che il volere divino non può mai essere diviso dal suo fine ed è inutile ne le fata dar di cozzo. Poi si rivolse per la strada lorda, / e non fé motto ai due poeti, ma fé sembiante / d'omo cui altra cura stringa e morda (IX 100-102).
I termini esatti con cui questo misterioso personaggio viene indicato nella Commedia sono: ch'elli era da ciel messo (If IX 85), dove la parola messo è usata come participio passivo, e non come sostantivo. Nel poema dantesco tale uso del termine non è raro. L'espressione più simile a quella di If IX 85 si trova in Pg XXX 10 (un di loro, quasi da ciel messo); pure affine è ignem de coelo missum (Ep XI 55). Una qualche simiglianza c'è inoltre in messo di Dio (Pg XXXIII 44), dove peraltro messo è usato come sostantivo. La funzione participiale del termine impedisce di definire con immediatezza se si tratti di un angelo o di altro personaggio, la qual cosa ha contribuito ad alimentare la serie delle ipotesi tendenti a identificare il M. celeste.
Tali ipotesi si possono così catalogare: a) angelo (s. Michele o altri: ipotesi che dal Boccaccio in poi è stata largamente recepita); b) dio o semidio pagano (Mercurio, Ercole; soprattutto l'identificazione con Mercurio ha avuto maggior credito: essa fu inizialmente avanzata da Pietro, da Benvenuto e dal Serravalle); c) personaggio biblico (Mosè, Aronne, s. Pietro: proposero la prima ipotesi, fra gli altri, il Piersantelli e il Cianciulli; la seconda il Filomusi Guelfi; la terza lo stesso Piersantelli); d) personaggio classico (Enea, Cesare; Enea fu sostenuto dal Caetani, dal Pascoli, dal Valli e in seguito dal Toffanin); e) personaggio contemporaneo (Enrico VII: ipotesi proposta e sostenuta dal Rossetti e poi ripresa dal Pietrobono); f) altre ipotesi (qualcuno - il Fornaciari, il Federzoni, ecc. - ha pensato perfino a Cristo).
In sostanza, le interpretazioni finora proposte circa il M. si riducono a due categorie: quella che vede nel M. un angelo e quella che lo vede come una creatura umana (Enrico VII, Cesare, Enea, Mosè), caratterizzata da superiore autorità. La proposta d'identificare il M. celeste con Mercurio appare riducibile alla prima categoria, così come quella di Ercole può avvicinarsi alla seconda, pur essendo Mercurio ed Ercole tentativi, a ben vedere, di sintesi o di medietà fra le due categorie sopra dette. Mercurio, infatti, è un essere celeste particolarmente vicino agli uomini, guida e protettore anche nelle loro opere civili; Ercole, per la sua figura eroica e soprattutto per la sua qualità di ‛ buon pastore ' (del gregge strappato a Gerione e poi a Caco), si avvicina ai ‛ pastori dei popoli ' che D. onora; ma è anche e rimane il figlio di Giove, è semidio con poteri sovrumani.
Come si è detto, l'ipotesi che ha più largo seguito e che più resiste è quella che identifica il M. con un angelo del cielo. Tuttavia non è priva di motivazione anche la tesi opposta, sicché una risposta del tutto soddisfacente sarebbe quella che riuscisse a identificare nel M. bensì un angelo del cielo, ma collegato per vincoli eccezionali con i valori della storia umana, con l'Impero, con il mondo classico e, in definitiva, con quel Limbo dantesco che tutto ciò in qualche modo riassume. Contro l'identificazione del M. in un angelo celeste si possono presentare poche e deboli obbiezioni. Una è che quest'angelo non dovrebbe avere quel sembiante umano che D. gli attribuisce (fé sembiante / d'omo cui altra cura stringa e morda, If IX 102): e cfr. anche quanto si dice in Pd IV 46-48. Le altre note che risultano dalla descrizione di If IX 64-103 sono anche applicabili agli angeli, secondo la loro figurazione tradizionale. Un'obbiezione più valida, anche perché confortata da quel che afferma Beatrice sull'intangibile beatitudine di un abitatore del cielo che ponga i piedi nei luoghi inferi (If II 91-93), è che il M. appare infastidito (IX 84) e in qualche modo preoccupato (v. 102): le quali cose sarebbero in contrasto con la sua qualità di beato abitatore del cielo. Ma occorre notare che i beati abitatori del cielo, nella Commedia, non appaiono esenti da certe generose emozioni, d'ira buona per es., o di affannosa cura: si ricordi, fra l'altro, lo sdegno espresso dal grido dei beati (Pd XXI 140) o il pianto di Beatrice (If II 116). Del resto, una più ampia motivazione dello stato di soprannaturale e sacrificale sofferenza in cui si trova questo particolare angelo apparirà meglio quando si vedrà il rapporto intercorrente con Hermes-Mercurio (dal volto atteggiato a mestizia, nella funzione di ‛ psicagogo '), e con l'angelo delle stigmate che apparve crocifisso a s. Francesco sulla Verna. Che poi si debba trattare di un angelo buono, e non di quelli precipitati dal cielo, è attestato dalla precisa indicazione: Ben m'accorsi ch'elli era da ciel messo e, prima che dalle operazioni che esso compie, dal fatto anche che egli debella la tracotanza di angeli da ciel piovuti (If VIII 83), che sono i cacciati del ciel, gente dispetta (IX 91): l'opposizione è evidente e volutamente rilevata dal poeta. Si notino poi i fenomeni che accompagnano l'arrivo del M. (IX 64-72): vento, tuono e terremoto. Nella tradizione e nella Sacra Scrittura, D. trovava bene attestato il rapporto fra l'intervento angelico e l'insorgere del vento (Ps. 17; Ezech. 1, 4, e altresì Zach. 6, 5; Dan. 7, 2); e un discorso analogo più esteso ed esplicito D. poteva leggere nell'Areopagita, a lui ben noto (De coelesti hyerarchia XV 6).
Quest'angelo deve scendere dal Limbo, e non dal Paradiso, come viene ad attestare il verso e già di qua da lei discende l'erta (If VIII 128), verso che suona: e già, appena or ora i diavoli mi hanno respinto, la forza angelica è partita in nostro soccorso, e si trova in un punto al di qua della porta dell'Inferno. Per far scendere il M. dal Paradiso, quella precisazione del v. 128 sarebbe inutile, anzi quasi assurda: infatti, in forza di essa, l'angelo impiegherebbe un istante o poco più per spostarsi dal cielo alla porta dell'Inferno, e un tempo molto più lungo (tutto quello corrispondente a quanto si dice nei vv. 1-63 del canto IX) per discendere l'erta, che è cammino di gran lunga più breve. Inoltre, se il M. ha preso a muoversi dal di qua della porta, cioè dal Limbo, Virgilio può sapere che scende da lì, poiché - e questo è il punto - sa che ivi è la dimora di lui, e le sue parole dunque hanno un significato; se invece il M. ha preso a muoversi dal cielo, non si comprende come possa Virgilio sapere con tanta esattezza a qual punto il M. sia arrivato in quel momento.
Quest'angelo deve avere una sorta di fraterna o paterna solidarietà con le anime a lui affidate: la qual cosa sarebbe una spiegazione all'angoscia del M. (If IX 82-84), che è singolarmente simile alla condizione dei limbicoli; e conferirebbe un chiaro significato al Tal ne s'offerse del v. 8 (che non appare riferibile a Beatrice, la quale più che offrire aiuto ne domandò, mentre è comprensibile se il M. angelico soccorritore si sia offerto ad aiutare Virgilio nel quadro di una sua attività protettiva escatologicamente finalizzata verso le anime del Limbo).
Ora, una ricerca così orientata ci ha permesso di motivare l'esistenza di un angelo buono che presiede al Limbo dantesco, in particolare ai ‛ megalopsicoi ' (con evidenti implicazioni circa la salvabilità dei limbicoli: ma su questo problema non possiamo che rinviare a quanto abbiamo esposto in altra sede: cfr. All'eterno dal tempo. Studi danteschi, Firenze 1966, 162 ss.; Sette chiose dantesche, in " Giorn. Ital. di Filol. " XXII [1970] 47 ss.; Il c. XIX del Paradiso, in Nuove letture V).
Vediamo rapidamente gl'indizi della presenza di quest'angelo. Anzitutto, non sarebbe conveniente che le anime, pur buone, del nobile castello fossero costrette a essere traghettate da Caronte (Quinci non passa mai anima buona, If III 127), del che si trova una confusa traccia nel discorso di Caronte a D. e un significativo precedente nel mito di Mercurio ‛ psicopompo '. E anche qui, come già abbiamo osservato per il M., il vento, il terremoto, il sonno e il risveglio di If III 130-136 e IV 1-6 sono fenomeni che denotano la presenza attiva di una forza angelica superiore ai margini dell'Inferno. Se poi mancasse un custode angelico nel Limbo, quest'unico luogo si troverebbe in un'inspiegabile disparità di condizioni rispetto a tutte le altre parti dell'oltretomba dantesco. Inoltre, nel Limbo, i segni di una presenza angelica sono il foco / ch'emisperio di tenebre vincia (If IV 68-69), lumera che, si badi, non procede dai ‛ megalopsicoi ', ma ne illumina la sede (v. 103) e quasi li ospita (v. 116). Il castello deve avere un castellano, né tale funzione può attribuirsi a Omero che è poeta sovrano, cioè primus inter pares. Vi è anche insieme con la percezione luminosa quella uditiva: la voce (IV 79, 82 e 92), non attribuibile ai savi. Il passaggio del bel fiumicello come terra dura (v. 109) appartiene alla categoria delle operazioni angeliche (e si veda anche qui l'affinità con il M. che passa Stige con le piante asciutte, IX 81). Anche il segnor de l'altissimo canto (IV 95-96) sembra a chi scrive riferibile piuttosto a una misteriosa forza angelica che al poeta Omero. La reticenza e il voto di Virgilio (IX 8-9) si spiegano meglio se Virgilio avverte forse confusamente, ma intensamente, che il suo andare e l'arrivo del M. celeste e la vittoria su Dite non sono individualistiche avventure, bensì sono momenti essenziali di un dramma storico ed escatologico, nel quale Virgilio stesso è direttamente cointeressato (Oh quanto tarda a me ch'altri qui giunga!, v. 9): sicché il M. non assiste soltanto D., ma anche Virgilio e tutto ciò che in Virgilio si riassume. Infine, l'apparente indelicatezza di XIV 44-45 cessa di esser tale, se diviene il ricordo di una circostanza in cui si è rilevata una protezione che non si esercita sul solo D., ma anche, anzi primariamente, su Virgilio.
Non mancano precedenti ideologici tradizionali circa l'esistenza di angeli buoni, che provvisoriamente non abbiano abitazione nei cieli: gli angeli custodi individuali, gli angeli dei popoli, degli stati e delle città. L'auctoritas forse decisiva per affermare la presenza attiva di un angelo ‛ psicopompo ' - e precisamente di s. Michele arcangelo - al margine dell'oscura cavità infernale, va indicata nell'Offertorio della messa per i defunti (" signifer sanctus Michaël repraesentet eas in lucem sanctam ", ecc.). Attraverso questa preghiera, nella quale perdura sincretisticamente un substrato originariamente pagano, si può risalire anche alla funzione mitica di Mercurio ‛ psicagogo ' e ‛ psicopompo ' (la qual cosa riduce di molto l'apparente bizzarria della spiegazione proposta da Pietro e da Benvenuto, che nel M. vedono il dio Mercurio). Né mancano vari altri elementi atti a conferire caratteri di ‛ angelicità ' e, per così dire, di ‛ limbicità ' al mito di Mercurio-Hermes. Con ciò non si vuole accettare sic et simpliciter un'identificazione M.-Mercurio, bensì notare la prefigurazione di un angelo nella figura mitica di Mercurio e la convenienza di quest'ultima con il comportamento del M. (cfr., ad es., If IX 82 con Aen. IV 222-278), e notare altresì l'affinità tra la severa contenuta profonda mestizia di Hermes ‛ psicagogo ' con i ‛ megalopsicoi '.
L'Apocalisse (cap. 20) parla di un angelo che ha la chiave del-l'abisso e con essa il potere di tenervi rinchiuso il demonio per mille anni; s. Paolo rivela l'esistenza di un misterioso ‛ katéchon ' (II Thess. 2, 1-11) che impedisce lo scatenamento delle forze infernali: le quali due ultime forze angeliche possono, dunque, identificarsi con quella che nel Limbo esercita il suo potere attorno al margine superiore del baratro dantesco. A proposito di questa funzione repressiva dell'arcangelo Michele rispetto ai demoni, non è stato mai osservato, a quanto ci consta, il combinarsi di un'antica tradizione giudaica raccolta nell'Epistola di s. Giuda Taddeo con la disposizione topografica del baratro infernale. Secondo quella tradizione, s. Michele appare come il custode della tomba di Mosè, che doveva trovarsi in quella regione fra Gerusalemme e il monte Sinai, sotto la quale è collocato l'imbuto infernale dantesco: ora, considerato il principio giuridico, onde il possesso di un terreno comprende anche il dominio di tutto ciò che si trova sotto il terreno stesso, ne segue che s. Michele ha il dominio e, dunque, la giurisdizione e la custodia del Limbo e dell'abisso infernale sottostante alla regione sinaitico-giudea (le dimensioni del cavo infernale dantesco sono molto inferiori rispetto alle figurazioni correnti. Cfr. R, Benini, D. tra gli splendori dei suoi enigmi risolti, Roma 1952, 149 ss.). Il M. celeste dantesco, identificato con l'angelo del Limbo, va poi in conseguenza ulteriormente identificato con l'angelo dell'Impero romano, cioè con il custode celeste di quel mondo classico e di quell'umanità non disonestamente pagana di cui Roma è il massimo prodotto e la suprema organizzatrice. A quest'angelo dell'Impero romano ci riconduce un'estesa tradizione patristica e medievale sul ‛ katéchon ' escatologico paolino, di cui abbiamo fatto cenno (cfr., fra l'altro, s. Girolamo Epistola CXXI 11). Anche attraverso il ‛ katéchon ' paolino è possibile ricondurre la figura del M. celeste-angelo del Limbo a quella dell'arcangelo Michele, che fu sempre oggetto di grande venerazione e particolarmente lo fu in età medievale. L'identità del ‛ katéchon ' con s. Michele doveva apparire almeno molto probabile a D. attraverso il confronto tra i citati passi di II Thess. 2, 1-11 e di Apoc. 20. E s. Michele presenta anche altri caratteri che lo avvicinano all'angelo del Limbo. Il suo stesso nome (Michael, com'è noto a tutta la tradizione cristiana, ebraica e islamica, significa " chi è come Dio? "), che suona adorazione degli arcani disegni di Dio, si addice al custode celeste del luogo in cui si riassumono la profonda obbedienza e l'umilissima disponibilità del pius Aeneas e dei suoi discendenti. Il dato biblico che presenta Michele come protettore del popolo d'Israele fa dedurre che, succeduta la Chiesa alla Sinagoga, il medesimo debba farsi difensore del nuovo popolo eletto, e, in primo luogo, del suo nucleo centrale, cioè di Roma e dell'Impero (e, dunque, di quel mondo classico che nel Limbo si riassume). Nel Medioevo sono innumerevoli le attestazioni di questa funzione attribuita all'arcangelo Michele come difensore di Roma e dei suoi valori.
D'altra parte, si può dire che fra il M. celeste e il principe delle milizie angeliche mancano note contraddittorie, mentre sussistono vari tratti affini. Per es., nel discorso del M. ai demoni si avverte un tono obbiettivo, quasi distaccato, anche se incupito secondo l'ambiente infernale e lo stile dantesco. Una lotta fra esseri angelici, cioè fra puri spiriti, pare che non possa svolgersi se non a colpi, per così dire, di giudizio intellettuale. Quel tono del M. suona molto simile, per l'obbiettività distaccata, al tono delle parole che vengono attribuite a s. Michele al cap. 8 dell'epistola a s. Giuda Taddeo; e non solo il tono, ma anche il contenuto, che è quello del riferimento all'intervento divino. È stato anche notato un certo piglio bellicoso, militaresco, nel M., un piglio che si addice al duce dell'esercito celeste. Ricordando poi che l'angelo d'Israele è s. Michele (cfr. Dan. 10, 13-21 e 12, 1) e che egli protesse il passaggio del suo popolo medesimo nel Mar Rosso, appare piuttosto evidente l'analogia con il M. che passa Stige con le piante asciutte.
Per ultimo, un conforto all'ipotesi di un angelo che per amore e nella speranza si faccia partecipe della condizione dolente dei limbicoli, poté venire a D. dalla visione che ebbe s. Francesco, quando ricevette il dono delle stigmate, precisamente da s. Michele arcangelo, che gli apparve in figura di angelo crocifisso. Il suggerimento francescano di Michele arcangelo crocifisso e così quasi prosecutore, su un piano spirituale, dell'opera redentiva del Salvatore, dà come risultato che s. Michele può bene trovarsi nella Commedia, in una condizione spiritualmente penosa, e che egli, accettando con assoluta offerta di sé tal condizione, vince contro le forze diaboliche, e guida a salvezza, per misteriose vie, coloro che nella medesima condizione si trovano, cioè le anime del Limbo.
Un conforto a quanto abbiamo affermato ci viene dal considerare che, per questa via, è possibile colmare un'assenza altrimenti inspiegabile: l'assenza, cioè, nella Commedia, della triade angelica suprema, i cui nomi erano sicuro e universale oggetto di conoscenza e di venerazione: Michele, Gabriele, Raffaele. Di essi il viatore mostra esplicitamente il solo Gabriele (Pd XXIII 94 ss. e XXXII 94 ss.), la qual cosa per un appassionato conoscitore di Dionigi Areopagita e per un quasi contemporaneo del ‛ Dottore Angelico ' costituirebbe una singolare carenza narrativa, tanto più che non si può immaginare una Commedia dove le forze sataniche siano così largamente trattate e intanto sia pressoché dimenticato il più illustre dei combattenti contro di esse. Identificato l'arcangelo Michele così come si è detto, non è più assente dall'immensa visione dell'oltremondo la figura più nota e più venerata delle schiere celesti. Riguardo a s. Raffaele, è congettura lecita e probabile identificarlo, in base alla sua biblica funzione significata dal nome (Raphael " medicina Dei ", cura risanatrice di Dio), nell'angelo che siede alla porta del Purgatorio, al quale spetta precisamente di formulare la diagnosi e prescrivere, per così dire, la cura per le anime vulnerate dal peccato. E si spiega perché D. ne abbia taciuto il nome: in caso contrario, l'unico grande assente sarebbe stato s. Michele, e ciò avrebbe diminuito e deformato quell'alone di mistero con cui D. ha voluto circondare l'angelo del Limbo, mistero a sua volta indispensabile per l'esito poetico della speranza dantesca in ordine al Limbo stesso.
Bibl. - Per un'esposizione delle varie ipotesi formulate dall'esegesi circa il M. celeste: M. Cianciulli, Il M. c. nell'Inferno dantesco, Roma 1930; successivamente si ricordano: M. Marcazzan, Il canto delle Furie, in " Humanitas " VII (1952) 1131-1145 (poi in Lett. dant. 153-172); L. Pietrobono, Il canto IX dell'Inferno, in " Responsabilità del Sapere " XI (1957) 185-200 (poi Torino 1959); A. Ricolfi, La trasfigurazione cristiana delle porte dell'Ade virgiliano in D. e il " messo da cielo ", in " Nuova Rivista Stor. " XLII (1958) 223-256; G. Severino, Sotto il velame delli versi strani, Campobasso 1959, 24; G. Toffanin, Il canto VIII dell'Inferno, Firenze 1961; U. Zannoni, Il canto IX dell'Inferno, ibid. 1961 (poi entrambi in Lect. Scaligera I 249 ss., 275 ss.); A. Vallone, Il canto IX dell'Inferno, in Nuove lett. I 237 ss. Circa la sostanziale identità fra il soccorso che trasporta i due poeti oltre l'Acheronte e il soccorso che apre loro la porta di Dite, cfr. E. Donadoni, Scritti e discorsi letterari, Firenze 1921, 398-399. Per le questioni relative al ‛ katéchon ' cfr. S. Rosadini, Notae exegeticae. I. Loca selecta ex epistolis paulinis, Roma 1934, 15-25. Circa gli angeli e particolarmente s. Michele arcangelo, cfr. H. Leclercq, Anges, in Dictionnaire d'Archéologie Chrétienne et de Liturgie, Parigi 1905, 2080-2161; B.M. Serpilli, L'Offertorio della Messa dei defunti, Roma 1946, 87-95; la voce Michele Arcangelo in Bibliotheca sanctorum, ibid. 1967, 410-446; J. Danielou, Anges, démons et êtres intermédiaires, Tours 1969, 157-166.