MESSINSCENA
È termine ormai accettato nel linguaggio del teatro internazionale (dal francese mise-en-scène, donde anche metteur-en-scène) per designare non già la scenografia o in genere l'apparato scenico d'uno spettacolo (scene, costumi, arredi, ecc.), bensì il complesso dell'attività con cui si "mette in scena" un lavoro teatrale. Attività che comprende tutto quel processo per cui, dal testo scritto, l'opera dell'autore viene tradotta a "vivere" materialmente sul palcoscenico; e a cui - sotto la guida del metteur-en-scène, maestro di scena, direttore artistico, regista (trad. del francese régisseur; così da régie, regia) - concorrono attori, scene, costumi, arredi, luci, meccanismi, e quant'altro bisogna. (Al qual proposito v. anche le voci attori; commedia dell'arte; compagnia: X, p. 992; palcoscenico; scenografia; scenotecnica; teatro).
Nella voce dramma si è detto che la storia della messinscena è importante per conoscere quella che fu nei secoli la vita non solo dello spettacolo bensì anche del dramma, in quanto tutti i poeti che hanno scritto per la scena hanno commisurato l'opera propria, nella sua tecnica e nella sua stessa concezione, alle pratiche possibilità e ai limiti materiali della rappresentazione scenica cui l'opera era destinata. Ciò tuttavia non significa che il vero poeta abbia subito passivamente cotesti limiti e strettoie. Al contrario, in tanto egli li ha accettati, in quanto ha potuto e saputo servirsene come d'altrettante energie, di collaboratori o anche di suggerimenti, per esprimersi con piena efficacia. Dove i mezzi scenici gli divenivano un ostacolo, il poeta vero ha sempre finito col piegarli, modificarli, adeguarli ai fini suoi. "È il dramma che fa il teatro, e non il teatro che fa il dramma" (G. B. Shaw).
Grecia. - Si veda quel teatro che, se certamente non è stato il primo a sorgere nel mondo, è però quello i cui superstiti documenti scritti sono ancora oggi i più antichi: il teatro greco.
In origine, per attestazione d'Aristotele, la tragedia greca fu semplicemente l'inno (τραγωδία, canto del capro) epico-lirico intonato da un coro dionisiaco che, danzando in circolo intorno all'altare (ϑυμέλη), dove s'immolava un capro in olocausto a Dioniso, celebrava le gesta del nume e, più tardi, anche d'altri numi ed eroi. A quel coro s'aggiunse poi l'apparizione di Dioniso in persona, o degli altri numi o eroi, per opera d'un attore che, via via camuffandosi, li raffigurava uno alla volta. Questa rappresentazione ancora embrionale, affidata a un solo attore, fu trasformata da Eschilo in vera e propria rappresentazione drammatica, grazie all'introduzione del secondo attore; il che v'apportò l'essenza del dramma, ossia il conflitto (v. dramma). Ciascun attore sosteneva successivamente più parti; ma non potevano mai aversi in scena più di due personaggi alla volta.
Il coro fu mantenuto, ma con funzioni sempre più ibride, di personaggio collettivo, avente forse meno carattere di attore che non di spettatore e commentatore.
Il modo con cui il dramma greco fu messo in scena, nel tipico teatro essenzialmente composto di gradinate semicircolari all'aperto, variò sensibilmente dall'età classica a quella ellenistica. Da principio il regista è lo stesso poeta: a Eschilo anzi la leggenda attribuisce addirittura invenzioni tecniche, come quelle fondamentali della maschera e del coturno. Gli attori greci, tutti uomini anche per le parti femminili, che avevano il compito di recitare e di cantare, erano probabilmente più simili ai nostri cantanti che non ai nostri attori. Nella tragedia, essi appaiono quasi enormi fantocci, a raffigurare eroi al disopra della comune umanità. Perciò sono elevati anche nella statura mediante i coturni, e ingranditi da imbottiture e da maschere: queste ultime sono stilizzate in un'espressione fissa (sempre piangenti nella tragedia e ridenti nella commedia), e contengono nella bocca un megafono il cui scopo era non tanto quello di far giungere nettamente le parole in tutto il teatro (ch'era di solito assai bene acustico) quanto quello d'ingrandire idealmente la voce del personaggio. Sofocle portò il numero degli attori tragici a tre (sempre affidando a ciascuno più parti); oltre il quale numero i Greci nella tragedia non andarono. Tuttavia fu ammesso un quarto personaggio muto, o che dicesse poche parole; come anche si ammisero personaggi infantili, e, oltre al coro, gruppi di popolo, servi, ancelle, guardie, ecc.
Si è disputato (W. Dörpfeld) se, in origine, gli attori apparissero nella platea (orchestra) compresa fra il più basso semicerchio delle gradinate, e dove parlava, cantava e danzava il coro che v'entrava dai due ingressi (párodoi) laterali; ovvero se gli attori parlassero o agissero dallo strettissimo e lunghissimo palcoscenico (logeĩon), lasciando il coro solo nell'orchestra: alcuni studiosi accedono oggi all'opinione che questo secondo uso si sia introdotto solo in un secondo tempo, forse per influenza italiota (B. Pace). La scena, in origine, era stata la tenda (skēnē) dietro la quale l'unico attore della primitiva tragedia andava a camuffarsi; poi si era trasformata in una costruzione stabile, in legno, e finalmente in pietra, che limitava e chiudeva lo stretto palcoscenico. Essa, nella tragedia, rappresentava normalmente il tempio o il palazzo reale (convenzionale) a tre porte, e talora la "tenda" di un capitano o (con aiuto di tela dipinta) un paesaggio campestre o marino; nella commedia attica antica (Aristofane) più luoghi alla volta (città, campagna, cielo, inferi); nella commedia attica nuova una via o piazza con le case degl'interlocutori; infine nel dramma satiresco un paesaggio spesso silvestre. Con la scena concordavano i periáktoi, quinte triangolari, aventi ciascima delle tre facce dipinta in modo da intonarsi volta per volta allo sfondo. Gli attori potevano entrare in scena, oltre che dalle porte di fondo, da ingressi laterali. Nulla fa ritenere che i Greci usassero il sipario; di regola i loro personaggi non si trovano in scena al principio di un'azione, né vi restano alla fine, ma sempre entrano o escono; alcuni pochi esempî che si son voluti addurre in contrario, di quadri già composti per la vista dello spettatore all'inizio di tragedie (Agamennone, Oreste) o commedie (Nuvole), possono benissimo eseguirsi, come anche oggi si eseguono in recite classiche all'aperto, senza sipario, ricorrendo ad altri espedienti. Dei meccanismi, che furono largamente adoperati dai Greci, conosciamo i nomi e l'uso, ma non le date; furono forse da principio pochi e rozzi, perfezionandosi col tempo e specie nell'età ellenistica. Questi erano l'egkúklēma, piattaforma mobile, la quale si avanzava sulla scena da una porta, per mostrare improvvisamente quanto accadeva o era accaduto (per esempio, un assassinio) nell'interno; la mēchanē, per far volare nel cielo gli dei e certi eroi; il theologeĩon, mobile per far apparire in luoghi elevati gli dei, specie nei loro interventi nello scioglimento dell'azione (quello che i Latini chiamarono deus ex machina: frequente in Euripide); la distegia, praticabile fisso, pure per apparizioni in luoghi elevati; la scala di Caronte, per discendere sottoterra; gli anapiésmata, viceversa, per evocare dei ed eroi da regioni sotterranee; il bronteĩon, per fare i tuoni; il keraunoscopeĩon, per i lampi; ecc.
Ma nonostante queste risorse meccaniche, più o meno rapidamente adottate, anche dalla messinscena del dramma greco traspare ch'esso aveva, conforme al gusto della razza, un'essenziale linearità, aborrente da divagazioni, ricami episodici, ecc. Esso tende, seppure non sempre le osserva rigorosamente, alle cosiddette unità aristoteliche (tempo, luogo, azione), non per costrizione esteriore, ma per innato gusto classico, che gli fa prediligere un'estrema semplicità. La riluttanza a mutare scena, il piccolo numero di attori che vi agisce, e la difficoltà ch'essi hanno, nel loro complicato abbigliamento, a muoversi con troppa vivacità, fa sì che nel dramma greco sia spesso minima la parte effettivamente rappresentata, e grande la parte raccontata (vi sono tragedie, p. es., le Trachinie di Sofocle, che constano quasi esclusivamente di racconti): donde tra l'altro la regola (poi catalogata anche a Roma da Orazio nell'Arte poetica), che nessuna catastrofe avvenga alla vista del pubblico, ma dietro la scena. Da tutto ciò il poeta greco non diminuisce, sibbene aumenta i suoi effetti: quando Eschilo lascia intraudire, nell'Agamennone, l'assassinio del protagonista, l'effetto scenico è tale che anche oggi, sebbene la tecnica moderna consenta di mostrare agli spettatori quanto si vuole, più drammaturghi moderni s'attengono allo stesso sistema. In conclusione, come nel dramma greco tutto è affidato alla parola, così nella sua messinscena la parte visiva non è se non un suo volenteroso sussidio. Chi trionfa è il poeta, di cui si cercano interpreti che siano soprattutto ottimi dicitori, declamatori e cantori: statue viventi, marionette tragiche o grottesche, di proporzioni (nella tragedia) superumane, che davano al pubblico un'immagine terribilmente o umoristicamente stilizzata della vicenda, sia tragica sia comica ma più o meno irreale, e incorniciata dall'ideale barriera del coro, delle sue invocazioni, delle sue apostrofi, dei suoi canti e delle sue danze.
Roma. - Il teatro drammatico romano non si sviluppò dalle primitive forme autoctone e popolaresche delle vecchie terre etrusche, laziali, campane, ecc. (Fescennini, Saturae, Atellanae, ecc.), ma diede i suoi frutti d'importanza letteraria sotto la diretta influenza del dramma greco (tragedia e commedia). E se delle tragedie latine - di cui non una, fino a Seneca, ci è rimasta intera - non possiamo dire gran che, sappiamo invece che le commedie giunte fino a noi, di Plauto e di Terenzio, non erano se non volgarizzazioni, rifacimenti, riduzioni, contaminazioni (salvo uno spirito sensibilmente o grandemente diverso) di originali greci.
Perciò l'edificio del teatro romano (v. teatro) non fu architettonicamente se non una modificazione di quello greco; e la messinscena romana in sostanza fu, almeno agl'inizî, la ripetizione di quella greca. Tuttavia poiché nel teatro romano le gradinate riservate agli spettatori occupavano non, come in Grecia, circa due terzi d'un cerchio, ma la metà, il palcoscenico era più grande. Esso aveva inoltre un sipario che, a differenza del nostro, per scoprire la scena si abbassava arrotolandosi in un'apposita custodia, e per ricoprirla si alzava. Non esistendo nel dramma romano il coro, l'azione si svolgeva unicamente sul palcoscenico, e la platea (orchestra) era occupata dagli stalli per personaggi di riguardo.
Di regola la commedia latina offriva anch'essa, come la "commedia attica nuova), su cui era ricalcata, una scena fissa con la via o piazza, e più case a fronte: luogo obbligato d'incontro, che rappresentava in primo piano la vita all'aperto, e in secondo piano faceva intravvedere, o suggeriva, gl'"interni". Forse la commedia latina, più ancora della greca, può rassomigliarsi alla nostra operetta, almeno riferendosi alla sua struttura, mista di dialogo parlato, di canti e di piccole danze; e ai suoi intrecci con tipi fissi, donne di piacere, ragazzacci scapestrati e innamorati, vecchi babbei, servi intriganti, e macchiette assortite di lenoni, di parassiti, di smargiassi, di bietoloni campagnoli, e simili: tipi che il pubblico riconosceva al solo apparire, dall'abito e dalla maschera.
Messinscene ben altrimenti spettacolose si ebbero invece a Roma nella tragedia e nel dramma di soggetto storico, leggendario o mitico; dove tra l'ultimo secolo della repubblica e i primi dell'impero, la primitiva semplicità cedette il luogo al lusso e al fasto, i quali ben presto soffocarono la parola del poeta: vedi le descrizioni fattene ironicamente da Orazio nella 1ª epistola del libro II, e da Cicerone, nella lettera in cui narra che, all'inaugurazione del Teatro di Pompeo, nella Clitennestra di Accio sfilarono sulla scena seicento muli carichi del bottino che Agamennone riportava da Troia; e che nel Cavallo di Troia d'Andronico si fecero vedere tremila vasi preziosi, rubati alla reggia di Priamo. Tutto questo grosso spreco di mezzi visivi, fastosi, ma probabilmente accumulati con criterî realistici e quantitativi meglio che con gusto d'arte, si sostituì all'intima deficienza dei drammaturghi, e assorbì tutto l'interesse del pubblico nello "spettacolo": sicché anche le vecchie tragedie, greche e latine, divennero soltanto un pretesto per grandi coreografie, oppure per la virtuosità personale di mimi e pantomimi famosi. Poi con l'avvento sulla scena delle donne (che a Roma per secoli, come in Grecia, erano rimaste escluse dal vero teatro drammatico, dove anche i personaggi femminili eran sostenuti da uomini), il realismo arrivò, specie nei mimi, alla materiale rappresentazione dei fatti più immondi. Ai quali fece da contrappeso il gusto della ferocia e del sangue importato dal circo: come quando, nelle rappresentazioni dell'eroismo di Scevola, o di Ercole bruciato dalla camicia di Nesso, all'ultimo momento l'attore si sostituiva con un condannato, cui si cacciava veramente la mano nel fuoco o che veniva arso vivo. Di qui la guerra del sopravvenuto cristianesimo agli spettacoli teatrali come a quelli del circo, a ragione confusi in una stessa condanna; e, col tempo, la loro fine.
Oriente. - Grande è stata nei secoli la varietà dei teatri orientali; e troppo arduo sarebbe fare minutamente l'esame del modo con cui nei principali di essi fu concepita e attuata la messinscena. Per attenerci soltanto ad alcuni dei massimi paesi del continente asiatico, ricorderemo che in India, in Cina, in Persia, dai più antichi tempi di cui s'abbia memoria fino ai giorni nostri, una caratteristica ricorrente nell'arte di mettere in scena le opere teatrali è consistita nella rinuncia a soverchi apparati visivi, e talvolta addirittura nella loro soppressione, affidando la scenografia e i particolari della visione, molto più che a una materiale rappresentazione, alle parole degli attori, a sommarie convenzioni più o meno stilizzate, e soprattutto alla fantasia degli spettatori.
Nell'antica India, p. es. - dove a differenza della Grecia il concetto di "dramma" non sembra differire essenzialmente da quello d'un ampio racconto dialogato, il senso del conflitto è minimo, e i maggiori pregi dell'opera teatrale sono nelle larghe, vaghe, prolisse divagazioni descrittive ed effusioni liriche - gli attori appaiono soprattutto come gli attraenti dicitori, o cantori, d'un poema. Vivono adunati in compagnie vagabonde, il cui capo, arrivando alla corte d'un sovrano o d'un mecenate, rizza lì per lì il suo palco, in una gran sala o in una galleria o in un giardino, osservando un formulario di specialissime regole, anche religiose. Questo palco, di una decina di metri d'ampiezza, è fornito di un sipario che si apre dai due lati. I suoi attori, tutti belli e senza maschera, appaiono sullo sfondo d'una tenda, dal colore in convenzionale armonia col dramma: bianco se è un dramma d'amore, giallo se è eroico, cupo se è patetico, rosso se è violento, variopinto se è comico, nero se è tragico. Due leggiadre fanciulle sollevano la tenda all'entrata di ciascun personaggio: solo se costui è in stato d'animo di straordinaria violenza può entrare sollevandola da sé. Quanto alla scenografia, un oggetto, un ramo d'albero, un piccolo mobile, bastano ad aiutare lo spettatore, con un minimo suggerimento, a immaginarsi l'ambiente, che cambia via via di episodio in episodio, senza limiti di spazio e di tempo. Le descrizioni degl'interni, e dei paesaggi le fanno, parlando, gli attori: pitture verbali, ispirate a un delicato, idilliaco, squisito senso della natura.
L'assenza quasi assoluta d'una scenografia è caratteristica anche del teatro in Persia, che dall'antichità a oggi ha conservato come forse nessun altro teatro al mondo un carattere strettamente religioso, e dove l'attenzione del pubblico è tutta concentrata negli attori, i quali recitano su un palco nudo.
Altrettanto succede in Cina, dove la magnificenza visiva dell'antico spettacolo (i più vecchi fra i drammi cinesi che ci restano risalgono a circa un migliaio d'anni fa) è tutta nelle vesti, sontuosissime, degli attori che incarnano i più nobili personaggi del dramma. Ed è allo stesso la messinscena cinese. Si potrebbe dire che l'attore cinese reciti, oltre il dramma, anche le didascalie. Ogni personaggio, entrando in scena, dichiara al pubblico le proprie generalità; e se deve compiere un'azione scenica (es., uno spostamento, un viaggio) lo dichiara allo spettatore.
Alquanto più ricca è stata la scenografia in Giappone; e relativamente abbondanti, da secoli, gli apparati meccanici. Ma è notabile che - a differenza del teatro classico greco, dove imperava il poeta servito dagl'interpreti - in Giappone ancor più che altrove il teatro è stato prevalente mente il regno dell'attore: al quale attore il drammaturgo si è, il più delle volte, limitato a fornire un pretesto per le sue bravure di mimica e di dizione. Bravure magnificatissime in tutti i tempi: e che possono sotto certi aspetti far raccostare gli attori giapponesi (come tecnici, come mimi, come acrobati, come improvvisatori "a soggetto", come recitatori d'indiavolato affiatamento) ai nostri comici dell'arte: arte non realistica, bensì fantasiosa e agitata, sino alla frenesia. Per far ammirare minuziosamente al pubblico la mimica dell'attore, il Giappone inventa, tanti secoli innanzi al cinema, il "primo piano": ossia una lampada che un inserviente - l'"ombra" dell'eroe - reca in cima a una canna, accostandola al volto dell'attore nei momenti culminanti dell'azione, a illuminarne i giuochi di fisionomia. E per mettere in più stretta comunione attori e pubblico il Giappone inventa altresì piattaforme girevoli e "vie fiorite" (ponti gettati fra palcoscenico e platea). Dal canto suo il pubblico adora gli attori, e per essi s'accende al punto da partecipare ai conflitti scenici, con risse anche sanguinose, che la polizia deve reprimere.
Medioevo. - Contrariamente alla messinscena di quel dramma greco-latino, che tendeva alle unità aristoteliche (anche se non sempre le osservava scrupolosamente), nel Medioevo, rinascendo il grande teatro da nuove fonti religiose e cristiane, si tratta di mettere in scena un tipo di dramma tecnicamente ben diverso dall'antico: dramma che ignora le "unità", e non ha limiti né di tempo né di spazio né di attori. Sicché mentre il palcoscenico greco, di regola, rappresentava un solo luogo, che rimaneva immutabile durante tutto il dramma, o al più si cambiava una sola volta, il palcoscenico medievale rappresenta invece una quantità di luoghi; e li rappresenta tutti insieme: donde le sue definizioni di palcoscenico multiplo e simultaneo.
Ciò che in Grecia aveva costituito un'eccezione (v. sopra, la commedia attica antica), diviene la regola nel Medioevo cristiano. In una Passione di Cristo, p. es., si allineano via via sul palco, uno accanto all'altro, la casa di Maria a Nazaret, la grotta di Betlem, il deserto d'Egitto, il tempio di Gerusalemme, il lago di Tiberiade, il tribunale di Caifa, il Calvario, ecc.: come in tanti quadri attigui, divisi idealmente o anche materialmente (con scompartimenti, fors'anche, in certi casi, chiusi ciascuno da una tenda che s'apriva al momento opportuno); e gli attori passavano via via dall'uno all'altro quadro, trascorrendo in un attimo con un giuoco immaginoso, da un luogo all'altro. Si aggiunga che, in molte scenografie medievali, al disotto della linea di cotesti scompartimenti esisteva una cavità (una grotta, l'enorme bocca spalancata d'un dragone, ecc.) che rappresentava l'inferno; e al disopra di quella stessa linea un luogo aereo, il paradiso.
Queste molteplicità e simultaneità sono già implicite nei cosiddetti drammi liturgici; ossia in quei primi, timidi dialoghi in latino, che nell'alto Medioevo cominciarono a recitarsi nelle chiese, fiorendo cautissimamente dal rito ecclesiastico, per opera dei ministri del culto, con una messinscena estremamente sommaria e stilizzata, affidata tutto al più a qualche simbolo. E piena e fantasiosa e illimitata libertà di tempo, spazio, ecc., si ha in quegli altri drammi, di argomento religioso, ma non collegati al rito, scritti in latino con pretese letterarie ma con fini essenzialmente edificanti, per esser recitati nei monasteri e nelle case religiose, di cui ci sono rimasti come tipici quelli di Rosvita (sec. X).
Su questa linea e con questo spirito la messinscena si arricchì con lo svilupparsi dei drammi liturgici nei cosiddetti drammi misti, dove accanto al latino, non più compreso dalle folle, s'introdusse il volgare. Dalle più antiche chiese, dove l'elevato "santuario" offriva un palcoscenico naturale, e dalle nuove, dove all'occorrenza lo si erigeva, la rappresentazione uscì a poco a poco sotto il portico, sul sagrato, nella vicina canonica, nei cortili, in piazza e (in Inghilterra) nei cimiteri; finché divenne un semplice dramma di soggetto sacro, tutto scritto in lingua volgare, e rappresentato non più da ministri del culto ma da laici, adunati tuttavia a scopo pio, e sempre uomini (spesso giovinetti) anche per le parti femminili, salvo il caso delle rappresentazioni nei monasteri di donne, dove tutte le parti, anche maschili, sono sostenute da suore o educande (v. sopra il caso di Rosvita).
Non sarebbe possibile seguire la varietà e lo splendore con cui in progresso di tempo le sacre rappresentazioni furono messe in scena in tutta Europa. Le loro testimonianze visive vanno cercate nelle tavole e negli affreschi dei pittori contemporanei, i quali, evidentemente ispirati a un'analoga concezione, seguono sovente i criterî di molteplicità e di simultaneità della scena medievale. In Italia, e specialmente a Firenze (donde l'uso passò alle altre città), col trionfo del gusto del Rinascimento, le sacre rappresentazioni ebbero "ingegni", scenografie e apparati sempre più splendidi: confluirono nella loro messinscena le meraviglie visive che insigni artisti fiorentini (p. es., il Brunelleschi) avevano creato per le cosiddette "rappresentazioni mute", o quadri viventi, dell'Annunciazione, descritte con entusiasmo dal Vasari. E allora il pubblico poté godere in siffatti spettacoli prospetti che si mutavano a vista, incendî, catastrofi, apparizione di draghi e di belve mitiche, nonché acconciature e truccature fantasiose d'attori per rappresentare personaggi ultraterreni, come i diavoli, gli angeli, lo stesso Dio, oppure personaggi simbolici, come l'anima, la natura, la fede, il carnasciale, la quaresima, ecc.
Naturalmente, come sempre avviene, lo sviluppo di questa parte coreografica e visiva finì col sopraffare il testo; i pretesti di belle visioni spettacolose, che dapprima si toglievano dalle occasioni del testo (una cena, una caccia, una giostra, una battaglia) e poi si crearono addirittura dai cosiddetti "intermezzi" coreografici, nonostante le proteste dei letterati (p. es., il Lasca), finirono col costituire il vero e unico interesse della rappresentazione. Tuttavia è importante notare che la tecnica della sacra rappresentazione medievale fu essenzialmente quella del grande teatro spagnolo dei secoli XVI e XVII, fu quella del teatro elisabettiano e di Shakespeare: e che il suo schema scenografico si riscontra ancora nel teatro francese del sec. XVI, non soltanto nei drammi di A. Hardy, ma anche, sebbene sempre più timidamente, nelle prime opere di Corneille.
Dal Rinascimento all'età barocca. - La scena multipla e simultanea fu sbandita dall'avvento dell'Umanesimo che, rimettendo in onore i modelli della tragedia e della commedia greco-latine, tornò a restringere la quantità degli attori, e riadottò la severa e nuda scena classica. Il Poliziano nell'Orfeo si serve ancora, essenzialmente, d'un palcoscenico multiplo, una sorta di compromesso fra sacra rappresentazione e dramma antico. Ma gli autori che gli succedono nei tre "generi" teatrali del Cinquecento - commedia, tragedia, dramma pastorale - ritornano più che possono a quelle "unità", che la più o meno esatta interpretazione d'alcuni passi d'Aristotele impone ai drammaturghi del secolo.
La messinscena segue gli autori, ritornando alle scene fisse: per la commedia, la via o piazza con le due case a fronte; per la tragedia, un "esterno" cittadino di grande nobiltà; per il dramma pastorale, la cosiddetta "scena satirica" (da satiro), ch'è un "esterno" campagnolo, boschetto e simili. Scene che non hanno, da principio, se non il compito che avevano agl'inizî del teatro classico, sia in Grecia sia in Roma, prima della decadenza amante del fasto: cornice all'azione drammatica; luogo d'incontro obbligato per tutti i suoi personaggi. Attori sono, ancora per un pezzo, i dilettanti; ossia per lo più gentiluomini, accademici e studenti (v. attori; filodrammatici), diretti da letterati e umanisti, se non dallo stesso autore; che spesso (come, p. es., fece l'Ariosto) recitava personalmente il prologo.
Ma al desiderio di spettacoli teatrali, onde il Rinascimento era avidissimo, non sempre corrispondeva il gelido contenuto di tanto teatro erudito, sia comico sia tragico; per il quale anzi più confessioni contemporanee ci svelano il frequente tedio del pubblico. È allora che l'interesse si sposta ancora una volta, dal dramma, alla sua interpretazione e messinscena. Il che avviene, anzitutto, con l'apparire in Italia dei comici "di mestiere", detti perciò "comici dell'arte", i quali rappresentano drammi regolari, ma conseguono eccellenza e fama soprattutto nella commedia improvvisa. Quivi i tipi fissi, attinti sia alla farsa popolare sia alla commedia classica, vengono stilizzati nelle maschere; e alla deficienza d'opere d'arte scritte si supplisce con le meraviglie di un'esecuzione, apparentemente estemporanea, di "scenarî", sulla cui disciplina si è già detto alla voce commedia dell'arte. Fatto importante è che i comici dell'arte riportano definitivamente sulle scene le donne come attrici.
L'altra grande novità del Rinascimemo, circa la messinscena, fu, pure in Italia, la scoperta della "prospettiva". Lo spettacolo, dall'aperto dove il grande teatro occidentale aveva di preferenza agito per duemila anni, si trasporta in un luogo chiuso, con luce artificiale, la quale favorisce stupendamente gli effetti pittorici e gl'inganni prospettici. Di qui sboccia la grande scenografia moderna. Nel primo teatro umanistico essa si si limita a variare più o meno le tre scene rituali: la comica, la tragica, la satirica o boschereccia. Ma poi essa via via s'arricchisce al punto di sopraffare, a sua volta, la parola decaduta a mero pretesto; in Italia, nel Seicento e in buona parte del Settecento, quello che conta nel teatro drammatico non è più il dramma, bensì gli attori e l'apparato scenico e coreografico. Sopraffazione che si verifica, oltreché nel teatro drammatico, anche in un nuovo teatro, il lirico, pure creato in Italia da artisti che proponendosi di rifare la tragedia greca avevano invece inventato un altro genere d'arte, il melodramma. Si sa come, nel Seicento e in gran parte del Settecento, sia il libretto sia la stessa musica abbiano finito col perdere importanza artistica in confronto dello "spettacolo" con "Cieli, Deitadi, Mari, Reggie, Palazzi, Boscaglie, Foreste, ed altre vaghe e dilettevoli apparenze" (Ivanovich, Memorie teatrali di Venezia): per oltre un secolo il grande interesse del pubblico verso l'opera fu, forse, più che musicale, visivo.
Per tornare al teatro drammatico, a cotesta sopraffazione resistono come possono i grandi autori: in Francia, la tragedia di Corneille e di Racine (ancorché eseguita con doviziosi apparati, e da personaggi romani e greci che vestono in costumi del Seicento e si chiamano fra loro Madame e Monsieur) cerca di tener fede all'ovvio principio di dare il predominio alla parola, servita dalla dizione e dalla messinscena. Simile è il caso di Molière, in cui si verifica la più ideale delle circostanze: quella dell'identità fra le persone del poeta, del regista e del primo attore. Ma il carattere generale del teatro del secolo è quello del divertimento offerto a una società fastosa: il suo grande scopo sono i prodigi della visione.
Sete di spettacoloso che si perpetua e s'accresce in tutta l'età barocca; dove lo "spettacolo" collabora per tanta parte ai successi d'un Metastasio; dove la semplicità bonaria d'un Goldoni - la cui riforma ha tra i suoi principî quello di riportare gli attori all'ufficio di fedeli e veraci interpreti d'un testo - si trova spesso a malpartito nella concorrenza fattale dalle fiabesche "meraviglie" d'un Gozzi; dove perfino nei collegi l'amore del fasto soverchia l'ispirazione moralistica degli spettacoli "edificanti" (si pensi allo splendore scenico di certo teatro gesuitico, specie in Germania); e dove lo scabro Alfieri, coi suoi cinque o sei paludati personaggi sopra un nudo e immobile sfondo greco-romano, inveisce con ira contro le visive mollezze dei teatri che chiamano il gran pubblico. Sicché si può in sostanza concludere che, sino alla rivoluzione francese e al Romanticismo, e nonostante le generose reazioni di autori insigni, nei secoli XVII e XVIII bene spesso i rapporti fra dramma e messinscena sono spostati con l'avvilimento del primo, e la sopraffazione della seconda.
Dal Romanticismo al verismo. - Anche il Romanticismo riafferma naturalmente l'importanza del dramma e torna a concepire, come ogni movimento letterario, la messinscena quale strumento della parola. Ma dove i classicisti, sostenitori delle unità di luogo e di tempo, tenevano istintivamente per una piccola quantità d'attori e per un apparato scenico semplice ed essenziale, i romantici, che credono di richiamarsi a Shakespeare, s'affidano a una gran quantità di personaggi, vaganti fra mutamenti di scena frequenti e avventurosi nello spazio e nel tempo. Sennonché Shakespeare era l'erede della stilizzata e fantasiosa scena medievale; mentre i romantici - che ripudiano le unità e la semplicità della messinscena classica come "convenzione" - partivano dal concetto di fare opera "simile al vero".
È il concetto che si trova al fondo del manifesto del Romanticismo francese (la prefazione di V. Hugo al Cromwell); è l'idea che s' intese, di conseguenza, applicare alle rappresentazioni dei drammi romantici. "Verosimiglianza" che non cessava d'esser veristica per il fatto di essere archeologica, con la riproduzione "fedele", "documentaria", ecc., di monumenti, attrezzi, costumi dell'epoca (già Talma, e altri prima di lui, avevan cominciato a recitare le tragedie classiche in abiti antichi), i cui campioni s'andavano addirittura a cercare nei musei. S'intende che poi questa pretesa esattezza si risolveva in inconsapevoli deformazioni, attraverso un gusto che oggi chiamiamo, a buon diritto, "melodrammatico": è infatti nel melodramma, italiano e straniero, che trionfa la messinscena romantica; e nella seconda metà dell'Ottocento lo stesso Wagner, fra i dogmi della sua complessa e macchinosa messinscena, poneva quello della "illusione del vero", da dare allo spettatore con tutti i mezzi materiali: "Niente di ciò che può materialmente rappresentarsi dev'esser suggerito; tutto dev'essere mostrato".
Quanto alla recitazione nel teatro drammatico, si sa che, contro gli originarî toni declamati e cantilenati, la "verità" era da secoli la meta d'innumerevoli, evidenti sforzi: Shakespeare per bocca d'Amleto l'aveva predicata ai comici, Goldoni aveva inteso attingerla contro le assurdità strampalate dei comici dell'arte del suo tempo, Alfieri aveva raccomandato di copiare le "parti" degli attori senza andare a capo da verso a verso perché essi le recitassero come prosa, Napoleone I aveva fatto una celebre lezione di "naturalezza" a Talma; infine, in Italia essa fu l'oggetto della "riforma" di più attori della prima metà dell'Ottocento, fra cui principe Gustavo Modena. Ma fu proprio in nome della "verità" che gli apparatori del teatro di prosa smorzarono sempre più ogni volo di fantasia, contentandosi spesso di fornire ai capocomici, come corredo, riproduzioni in serie" di esterni e di interni, in cui s'erano sforzati di copiare convenzionalmente i più comuni ambienti della vita (agiata, o piccoloborghese, o popolare) del tempo, da potersi adottare in dieci o cento lavori differenti. Questi ambienti erano la piazzetta, la campagna, l'osteria, la camera rustica, la sala da pranzo, lo studio, ecc., e soprattutto quel "salotto con vetrate sul giardino", che pare il luogo d'incontro obbligato di tante commedie ottocentesche. D'una messinscena e d'una recitazione così essenzialmente piane e intenzionalmente sempre più veristiche si serve il massimo drammaturgo del secolo, Ibsen.
Infine a queste che abbiamo chiamato "intenzioni" e "apparenze" veriste, segue il vero e proprio e fotografico verismo, come si chiamò da noi, naturalismo, in Francia, dove nacque. Nel nome di Zola e dei suoi principî, A. Antoine costituisce nel 1887 il suo Theâtre Libre a Parigi, seguito due anni dopo, ossia nel 1889, dalla Freie Bühne di Berlino, e poi da una serie d'imitatori in tutta Europa. Si proclama allora che il dramma dev'esser non altro se non brano di vita, la vita come è, senza nemmeno segrete idealizzazioni, e neppure interpretazioni: il che significò morte, non della messinscena nel senso di "arte di mettere in scena" (arte a cui anzi Antoine dette caratteri suoi proprî, importantissimi e talvolta inconfondibili), ma della vera e propria scenografia, impossibile a farsi in un teatro in cui non si "riproducevano", bensì si trasportavano, puramente e semplicemente, gli oggetti della realtà. Col naturalismo e col verismo, tutto ha da esser vero: le porte vere e le finestre vere, il vero banco del macellaio coi veri quarti di bue, e sul desco familiare la vera minestra che fuma, e diffonde nel teatro l'odore del brodo. Per secondare l'autore naturalista, il regista si serve non tanto di pittori o d'apparatori o di scenotecnici, quanto, materialmente, delle cose. Donde seguì il rapido declinare di un'arte talmente grigia, e per la sua stessa natura antiteatrale: la sua fortuna andò precipitando nel corso di pochissimi anni. Con l'ultimo grande tentativo di scena veristica, quello del primo Teatro d'arte di K.S. Stanislavskij a Mosca (1898) - ma d'un verismo già prossimo alla trasformazione, un verismo percorso da brividi, un verismo nato, insomma, dall'arte di Čechov - il cosiddetto culto della realtà sulla scena, muore al principio del Novecento.
Il Novecento. - Difatti la messinscena del Novecento, per quanto ispirata ai più diversi e talora opposti principî, è tuttavia caratterizzata, almeno sino a oggi (1933), da un principio cumune a tutti, la reazione al naturalismo, al realismo, alla cosiddetta verità bruta. Non si vuole più la "riproduzione" del vero; si vuole la sua interpretazione, il suo superamento, la sua stilizzazione o idealizzazione (e magari la sua negazione). Ai quali intenti di trasfigurazione della realtà la messinscena moderna ha avuto a sua disposizione un novissimo mezzo meccanico: la luce elettrica. Si può dire che, nell'infinita varietà delle vie battute dai moderni registi, l'unica caratteristica comune a tutti è stata - fatto di profonda significazione - l'impiego delle luci.
D'altra parte la messinscena moderna poggia tutta sull'apparizione d'una figura dominatrice, e in certo senso nuova, nel teatro d'oggidì: quella del metteur-en-scène, régisseur, regista. Sino a oggi nelle epoche in cui il dramma è fiorito (non in quelle in cui decadde) chi l'aveva messo in scena era stato, di regola, l'autore in persona: Eschilo, Sofocle, Plauto, Shakespeare, Molière, Calderón, Goldoni, Goethe, Ostrowskij, Ibsen, o anche Sardou. Ma tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento si afferma una pratica nuova, derivante da quell'estetica per cui il dramma scritto ha una sua compiuta e perfetta esistenza nel libro, mentre la sua rappresentazione è un'opera nuova e nata da un altro artista: colui che la mette in scena, il regista. A differenza del vecchio direttore, il quale dirigeva non tanto lo spettacolo quanto la compagnia (sia come capo disciplinare dei suoi attori, sia come loro maestro di recitazione più o meno fedele), il moderno regista è il capo d'una "interpretazione" collettiva e originale; ossia di un modo tutto suo personale d'intendere e rinfrescare e rinnovare, in una visione sua, lo spirito del dramma messo in scena dal complesso degli artisti da lui guidati. Donde la proclamazione del suo diritto ad avere una sua personalità, una sua originalità, un suo stile se non addirittura una sua teoria da applicare, un mondo suo da esprimere. E donde il dualismo, tipico nel teatro del nostro secolo, fra autore e regista: inevitabile per la natura delle cose: e non meno grave, se non più, di quello eterno fra autore e attore.
Quanto alle innumerevoli teorie esposte, e or più or meno praticate, dai moderni maestri della messinscena, non possiamo che rimandare il lettore alle singole voci dei loro nomi, non potendo qui, per mancanza di spazio, accennare nemmeno alle principali: dal Craig, primo assertore del principio che l'opera del regista è "creazione" autonoma, e artista che ha avuto la più grande influenza su quasi tutti gli altri, ad A. Fuchs, primo sostenitore del principio di "riteatralizzare il teatro"; ad A. Appia, che offre alla persona dell'attore la cornice di messinscene austerissime a J. Copeau, banditore di una religiosa essenzialità, educatore di molti fra i nuovi registi e attori parigini; a M. Reinhardt, spirito eclettico, prestigioso tecnico di tutte le esperienze sceniche in tutti gli stili, e maestro d'una generazione d'attori tedeschi; e infine ai Russi, la cui arte della regia è ormai famosa in Europa da trent'anni, per essere passata dal primitivo, spirituale, e sempre più stilizzato "realismo" di Stanislavskij e V. Nemirovič Dančenko al fasto coreografico di V. E. Bakst, ai criterî geometrici di Meyerhold, alla scenoplastica di A. Tairov, ecc. Fra questi teorici e questi pratici vi sono stati coloro che hanno bandito e, almeno parzialmente attuato, il ritorno a un'estrema semplicità di mezzi; spesso confinandosi, come in laboratorî, in piccoli teatri sperimentali (studios, Kammerspiele, ecc.): si ricordi l'opera svolta dal Vieux-Colombier in Francia o dalla Provincetown Playhouse negli Stati Uniti d'America. E vi sono stati e vi sono, forse in più gran numero, coloro che hanno invece accettato, dalle meccaniche risorse moderne, tutti gli strumenti più varî, mastodontici o raffinati: palcoscenici girevoli, palcoseenici mobili in senso verticale o orizzontale, palcoscenicì scomponibili, scene multiple alla maniera medievale per dare il senso della simultaneità di più azioni, scene proiettate, tapis roulants, collaborazione del cinematografo, ritorno agli spettacoli diurni o notturni all'aperto (in teatri antichi, arene, ville, piazze, chiostri, ecc.), e soprattutto geniali impieghi della luce elettrica. Ma poiché, come si è visto, la messinscena nasce dal dramma, e non il dramma dalla messinscena, è da augurare che tutte coteste ricerche, anziché pretendere di suggerire agli autori la loro poesia, o addirittura di sopraffarla, valgano piuttosto a offrire loro quella pratica, stimolante collaborazione, di cui essi vorranno valersi. Più volte, nelle età trascorse, s'è avuto il caso in cui a teatro scrittore e interprete si son fusi in una persona sola: come con Molière, poeta e attore; come con Eschilo, poeta e, secondo la leggenda, creatore della regia. Sono stati i tempi felici del dramma. A respirare in scena, per quanto è possibile, un'atmosfera altrettanto felice, è necessario che una tale fusione torni ad avverarsi, idealmente se non materialmente: e che sia il nuovo drammaturgo a schiudere al suo fido collaboratore, il regista, le strade della nuova regia.
V. tavv. VII-X.
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