MESSIANISMO
. Parola e concetto proprî delle religioni ebraica e cristiana, punto centrale d'intesa insieme e di opposizione fra di esse; d'intesa sul fondo comune dei vaticinî dell'Antico Testamento, di opposizione circa il loro avveramento..
Il termine fu applicato - come si vedrà - non solo ai passi dell'Antico e del Nuovo Testamento che si riferiscono alla persona del Messia, ma anche a quelli che descrivono i tempi messianici; e non solo alle descrizioni contenute nei libri canonici e deutero-canonici, bensì anche a quelle contenute negli apocrifi, o presso esegeti, ecc. Sicché il termine messianismo ha finito, nelle lingue moderne, per essere usato - impropriamente - in un senso larghissimo, a proposito quasi d'ogni aspettativa escatologica molto intensa, sempre però riguardo all'escatologia collettiva; e persino, fuori del campo religioso, a proposito di vive speranze di restaurazione nazionale, di miglioramento della società, ecc. Si è potuto così parlare, p. es., del carattere "messianico" di certe letterature profane. *
Il nome "Messia". - Messia è forma grecizzata della parola ebraica mašhīaḥ "unto", che si riservava a colui che col ricevere la sacra unzione sul capo veniva consacrato pontefice (sommo sacerdote: Esodo, XXIX, 7; Levitico, IV, 3,5) o re (I Samuele, X,1; XVI, 13; I Re, I, 39; II Re, IX, 6). Specialmente il re si chiamava presso gli Ebrei měšīaḥ Jahvè "l'unto del Signore" per eccellenza (cfr. I Samuele, XXIV, 7, 11; XII, 3; Lamentazioni, IV, 20). Nell'uso posteriore il vocabolo si restrinse ancora più a indicare l'ultimo e supremo re, di cui divenne come nome proprio; κριστός, donde Cristo e cristiano, ne è la traduzione greca, che prevalse nell'uso occidentale; la forma ebraica Messia fu messa in voga ai tempi moderni nel linguaggio tecnico della teologia e della controversia.
Messianismo Biblico.
Le promesse dell'Antico Testamento. - Il concetto di Messia e messianismo riposa sopra un certo numero di passi dell'Antico Testamento, specialmente dei profeti, di varia portata. A tutti è comune l'annunzio di un'era di felicità e di gloria per Israele, era di prosperità religiosa e sociale, di cui si dipingono or l'uno or l'altro, ora più insieme dei molteplici aspetti. In largo senso (messianismo reale) tutti i cosiffatti testi si possono chiamare messianici. Ma più propriamente così vanno detti quelli che la predetta felicità imperniano sulla persona di un duce o re eminente, che di essa è provvidenziale fattore (messianismo personale). Questi fanno in prima linea al presente scopo, e ci serviranno a stabilire la sostanza del messianismo; i primi ci aiuteranno a detenninarne il carattere. Degli uni e degli altri è necessario citare qui, per la chiarezza e solidità dell'esposizione, almeno i principali, che offrono maggior evidenza d'espressione, e meno campo a obbiezioni critiche.
La persona, l'origine, i benefici effetti del Messia ci son messi innanzi in un quadro quasi drammatico da Isaia (9, 1-6):
Il popolo che camminava al buio, vide un gran chiarore; abitavano in terra tenebrosa e brillò ad essi la luce... perché il giogo che l'opprimeva, e il peso che gli gravava le spalle, la verga del suo aguzzino, tu li hai spezzati come nella giornata di Madian (l'apostrofe va a Dio e il paragone alla vittoria di Gedeone sui Madianiti; Giudici, VII); perché ci è nato un pargolo, ci fu largito un figlio; sulle spalle ha le insegne del potere e ha nome: ‛Meraviglioso ideatore, Dio possente, Padre perpetuo, Re di Pace', per accrescer il potere, per una pace senza fine, sul trono di Davide e sul reame di lui, a stabilirlo e sostenerlo con rettitudine e giustizia, da ora per sempre!".
L'origine davidica e il salutare governo del meraviglioso sovrano sono con abbondanza e vivacità di colori messi in rilievo dallo stesso profeta un poco più sotto: (capo XI).
Spunterà un ramoscello dal tronco di Isai (volg. Iesse), e un germoglio dalle radici di lui verrà in fiore; sopra di lui si poserà lo spirito di Jahvè, spirito di saviezza e di discernimento, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore di Dio. Non secondo l'apparenza farà giustizia, né darà sentenza secondo che sente dire; ma con equità farà giustizia ai miseri e con rettitudine darà sentenza per gli umili... della giustizia si cingerà i lombi e la lealtà si stringerà ai fianchi. Abiterà il lupo con l'agnello e il pardo si poserà accanto al capretto; giovenco e lioncello si faran compagnia e un piccol fanciullo li guiderà... Nessun male, nessun guasto faranno per tutto il mio santo monte, perché la terra sarà piena della conoscenza di Jahvè, come le acque ricoprono il mare".
Si direbbe che quest'oracolo è la spiegazione del precedente, tanto ne ripete le idee e fin le parole; la pace profonda, "senza fine" la predetta, qui è adombrata con l'immagine della piena pacificazione fra le bestie, che sembra ricondurre la beata felicità primordiale del paradiso terrestre (Genesi, II); ma che si debba prendere in senso metaforico, e qual sia la sorgente di tanto benessere, è detto in fine: è la religione, il riverente ossequio al vero Dio.
Un contemporaneo d'Isaia (Michea, V,1-3) esalta l'origine, umana e sovrumana, e la missione del divino condottiero:
"E tu, Betlemme Efrata, ben piccola sei fra i capi di Giuda; eppure da te ha da uscire uno a comandare in Israele; ha un'origine antica, dalla più remota età. Pertanto Egli (Dio) li darà (i Giudei in balia dei nemici) fino a che partorisca quella che ha da partorire. Allora il resto dei suoi fratelli tomerà ai figli d'Israele; ed egli si ergerà e governerà per la potenza di Jahvè, per la maestà del nome di Jahvè suo Dio; si starà in pace, perch'egli omai grandeggerà sino agli estremi confini della terra".
Notiamo di passaggio come in quella espressione, in sé laconica, "colei che ha da partorire", abbiamo un'eco antichissima, quasi contemporanea, di quell'altro celebre vaticinio d'Isaia (VII, 14) dell'"Emmanuele = Dio-con-noi" che doveva nascere da una ‛almāh, ossia da una "vergine", come intese la più antica tradizione esegetica (LXX e Matteo, II, 23). La relazione di sangue, e anche di carattere, che il promesso rampollo ha con Davide, è sì stretta e sì nota che più volte nel linguaggio dei profeti l'illustre nipote prende addirittura il nome dell'avo e ci si presenta come un David redivivo, sublimato. Geremia, dopo avere predetto: "Ecco venir giorni, dice Jahvè, che io farò sorgere per David un Rampollo giusto, che regnerà da re e con successo, e farà giustizia e diritto in terra" (XXIII, 5), altrove promette: "In quel giorno, dice il Signore, spezzerò il giogo che gli pesa sul collo (ad Israele) e ne infrangerò i ceppi; né più saranno soggetti allo straniero, ma serviranno a Jahvè loro Dio e a Davide loro re" (XXX, 9). Ezechiele ripete con altra immagine, parlando sempre a nome di Dio: "Susciterò su di loro (Israeliti) un pastore unico, ed egli li pascerà, il mio servo David... Io, Jahvè, sarò loro Dio, ed il mio servo David sara principe in mezzo ad essi" (XXXIV, 23 seg.).
Si direbbe che qui Ezechiele per scrupolo d'esattezza di linguaggio voglia insinuare che in un regime teocratico il re propriamente è Jahvè, e il Messia ne tiene il luogo fra gli uomini. Un carme profetico, incorporato nel libro dei Salmi, precisa la relazione fra essi due: popoli e re insorgono "contro Jahvè e contro il suo Masīah"; ma dei loro sforzi "si ride Colui, che siede in cielo", perché con una parola li sgomina: "Ho consacrato io il mio re sul Sion, il monte mio santo". E il Messia, così proclamato re in faccia al mondo, a sua volta promulga i divini decreti: "Jahvè mi ha detto: Tu sei mio figlio; Io oggi ti ho generato. Chiedi a me e ti darò in retaggio i popoli, in dominio i confini della terra" (Salmo II). In altro salmo parallelo, il vate contempla il Messia seduto alla destra di Jahvè, e lo apostrofa: "Lo scettro di tua potenza stenderà Jahvè dal Sion; impera sui tuoi nemici". Poi aggiunse m nuovo titolo allo scettrato Messia, riferendo un divino oracolo: "Jahvè ha giurato e non se ne pentirà: Tu sei sacerdote in eterno sul tipo di Melchisedec" (Salmo CX). Comunque si abbiano da sciogliere le questioni di autore e di circostanze storiche per questi due nobilissimi salmi, è certo che parlano d'un re ideale, d'un re Messia. Essi ne esaltano la potenza specie con immagini battagliere, come d'un conquistatore. Il Salmo LXXII invece ne vanta soprattutto la giustizia nel governo, la protezione dei miseri, come già il capo XI d'Isaia.
Rimarrebbe incompiuta la figura del Messia tracciata nelle pagine dell'Antico Testamento se fin d'ora non ricordassimo qui i celebri carmi del "servo di Jahvè" nel libro di Isaia. Ai due titoli o aspetti di re e sacerdote, essi aggiungono quelli di profeta e di martire.
Cominciano con idee e frasi del capo XI già citato, presentando per bocca di Jahvè stesso il protagonista: "Ecco il mio servo, da me sostenuto, il mio eletto, oggetto di mie compiacenze; ho posato sopra di lui il mio spirito, ed egli arrecherà alle genti la giustizia... non si lascerà abbattere finché abbia stabilita in terra la giustizia, e da lui attenderanno la tōrāh i paesi oltremare" (Isaia, XLII,1-5). La voce ebraica tōrāh comprende non solo la legge del sovrano, ma anche l'istruzione del dottore. Lo spirito messo da Jahvè nel suo "servo" (ebr. ‛ebed; così si chiamavano i ministri rispetto al re e i profeti rispetto a Jahvè) è della più varia e vasta efficacia. Continua Jahvè dirigendo la parola allo stesso eletto: "Io, Jahvè, ti ho preso per mano, ti ho destinato ad alleanza del popolo a faro delle genti, ad aprir gli occhi ai ciechi, a trarre dal carcere i detenuti, dalla prigione i relegati nelle tenebre" (ivi, 7). Poi, come nel Sahio II, entra in scena a parlare di sé lo stesso eletto: "Orbene, disse Jahvè, che dal seno materno mi ha formato a suo servo per ricondurre a Lui Giacobbe, ed Israele a Lui riunire,... disse dunque: È poca cosa, per esser tu mio servo, il ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstili Israeliti; e però io ti elevo a faro delle genti, a portare la mia salute sino ai confini della terra" (XLIX, 5, 6). Qui il pensiero corre naturalmente all'esilio babilonese, dove gl'Israeliti, violentemente strappati alla patria, gemevano. Esso è il precipuo, ma non l'unico luogo donde nelle aspirazioni e nelle premesse dei profeti dovevano i dispersi d'Israele ricondursi alla patria; nel loro pensiero era inclusa, e spesso è anche espressa nelle loro parole, la diaspora in ogni parte del mondo (cfr. Isaia, XLIII, 5 segg.; XLIX, 12; Geremia, XVI, 15, ecc.; Ezechiele, XXXVII, 21; XXXVI, 24). È pure a notare con quanta frequenza l'inizio della grande e felice era messianica si metta in connessione col ritorno dalla cattività di Babilonia; ma i salutari effetti non si restringono alla nazione dei reduci, bensì si estendono a tutte le genti. Così vasta e complessa è la missione del "servo di Jahvè". Egli a questa è ben preparato e risoluto: "Il Signore Jahvè mi ha dato lingua di ammaestrato... Il Signore Jahvè mi ha schiuso l'orecchio, ed io non fui restio, non mi trassi indietro. Ho presentato il mio dorso alle percosse, e la mia guancia agli strappi; la mia faccia non ho sottratta agli affronti e agli sputi. Ma il Signore Jahvè mi soccorre... perciò ho resa la mia faccia come un macigno, e so certo che non sarò deluso" (Isaia, L, 4-7). L'esito finale della missione è quindi assicurato. Ma durante la personale attività del "servo di Jahvè", quante fatiche, quanti dolori, senza il conforto di sensibile risultato! Egli medesimo se ne lamenta: "Ed io dissi: Invano mi sono affaticato; a vuoto, per niente ho spese le mie forze. Ma il mio diritto sta presso Jahvè e l'opera mia presso il mio Dio" (XLIX, 4). La fine personale dell'eroico "servo di Jahvè" ci è mestamente narrata da altri, discepoli e spettatori: "Lo vedemmo... vilipeso e schivato dagli uomini, uomo di dolori ed avvezzo alle infermità... Noi lo credevamo percosso e colpito da Dio ed umiliato; ma egli fu trafitto per i nostri misfatti, fu pestato per i nostri peccati... Jahvè ha fatto cadere su di lui le iniquità di noi tutti... poiché fu levato dalla terra dei vivi, per i delitti del mio popolo fu percosso a morte"(LIII, 2-8). Tuttavia, benché messo a morte nel più bello delle sue fatiche apostoliche, "l'impresa di Jahvè per suo mezzo riuscirà" (ivi 10). Infatti la sua attività si prolunga oltre la tomba; il suo ritorno alla vita è espresso nella lezione dei LXX: "dopo l'affizione dell'anima sua vedrà la luce" (ivi, 11); implicitamente lo proclama Jahvè stesso, che è primo e ultimo ad avere la parola in questi carmi sublimi: "Il mio servo, giusto egli, giusti renderà i molti, e delle loro colpe si caricherà lui. Perciò io gli darò in premio i molti e dei forti farà suo bottino, in cambio d'aver esposto sé stesso alla morte ed essere stato annoverato fra i rei, mentre egli portò il peccato dei molti e per i rei intercede" (ivi, 11, 12).
Molte e gravi questioni sollevano questi carmi così pieni di misteriosi chiaroscuri. Fondamentale è la domanda: chi è questo "servo di Jahvè"? Un popolo o un individuo? Persona morale o persona fisica? Nulla in sé osterebbe che di tal nome fosse fregiato tutto un popolo, anzi è certo che in altre parti del medesimo libro di Isaia col dolce appellativo di "mio servo" Jahvè stesso chiama Israele, come nazione (Isaia, XLI, 8-seg.; XLII, 19; XLIV, 1 seg.); nel secolo scorso fu quasi generale opinione dei commentatori protestanti che anche nei carmi dianzi citati si parli sempre collettivamente d'Israele. Ma ora, dopo più matura riflessione, quasi tutti gli esegeti d'ogni indirizzo si schierano per l'interpretazione individuale. Con quanta ragione, basti qui ricordare quei luoghi (XLIX, 6; LIII, 4-6) dove il "servo di Jahvè", è distinto da tutto Israele e ad esso è opposto, ovvero dove si dice "messo a morte e sepolto" (LIII, 8 seg.); il popolo non muore. Né vale con pochi ritardatarî aggrapparsi alla distinzione di un Israele ideale, che ancor meno può morire, o della parte migliore del popolo, opposta alla massa corrotta; la parte migliore sono appunto quegli Israeliti risparmiati ai quali ricondurre è mandato il "servo di Jahvè" (XLIX, 9). II "servo di Jahvè" è dunque un individuo, e, per quello che gli si attribuisce nei carmi, una figura delle più eminenti nella storia. Acutamente osserva un recentissimo commentatore: il profeta è entusiasta delle vittorie di Ciro (Isaia, XLIV, 24-XLV, 7); ma egli, il "servo di Jahvè" sente in sé qualcosa di più grande; "non Ciro, ma egli stesso doveva essere il conquistatore del mondo" (P. Volz, Jeseja, II, Lipsia 1932, p. 167), in più alto senso, religioso-morale, s'intende. Chi si debba riconoscere in quella singolare personalità, vedremo più innanzi. Qui dobbiamo volgere lo sguardo all'altro aspetto, reale, del messianismo e coglierne i caratteri più salienti.
Pitture idilliche d'una felicità senza pari, quale vedemmo già abbozzata nel c. XI d'Isaia, ricorrono più volte nelle pagine dei profeti fra le rosee visioni dell'era futura. I vaticinî di Amos e di Gioele si chiudono nella prospettiva di giardini e di vigne, di messi e di frutti, di monti che colano mosto e di colli che si disfanno in latte e miele, ad allietare i fortunati Israeliti che ne godranno (Amos, IX, 13-15; Gioele, III, 18). In Isaia ancora leggiamo il deserto cangiato in giardino, data la vista ai ciechi, l'udito ai sordi, la favella ai muti, l'agilità del cervo agli zoppi, cessati il dolore e l'infermità la letizia e la gioia fare perpetua dimora nella rinnovata Sionne (Isaia, XXXV,1-10; LI, 3). Da Ezechiele udiamo scomparsa ogni bestia nociva, il cielo dare piogge benefiche, la terra produrre abbondanza di raccolti, e stare la gente felice e tranquilla senza timore di nemici o di carestia (Ezechiele, XXXIV, 25-29). E così altri (Geremia, XXXI, 10-14; Osea, II, 21 seg.; Zaccaria, VIII, 12, ecc.).
Anche più di questa felicità individuale ha risalto la prosperità nazionale. Israele, non solo sarà libero dal giogo straniero, ma a sua volta avrà il predominio sulle altre nazioni; re e popoli gli saranno tributarî e gli presteranno ogni sorta di servizî (Isaia, XLIX, 24; LX, 1-12). Questo dominio universale d'Israele è messo in rilievo specialmente nelle visioni di Daniele: i più grandi imperi mondiali sono rappresentati in una statua colossale di varî metalli, ma dai piedi in parte d'argilla; un ciottolo, non mosso da mano d'uomo, viene a percuotere quei fragili piedi, cade la statua e va in polvere dispersa dal vento; il ciottolo invece cresce in monte immenso, che riempie la terra (Daniele, II, 31-35). Ciò vuol dire, che "al tempo di quegli imperi il Dio del cielo farà sorgere un regno, che non sarà distrutto in eterno e la sua sovranità non passerà ad altro popolo; esso frantumerà e annienterà tutti quegli imperi, ma esso sussisterà in eterno" (ivi, 44). E più sotto: "Stavo mirando (dice il profeta) nelle visioni notturne, ed ecco venire con le nubi celesti un come figlio d'uomo, e giunger sino all'Antichissimo (Dio); a Lui fu presentato, ed Ei gli diede signoria e maestà ed impero, onde tutte le nazioni, genti e lingue a lui servano, ed il suo dominio sia eterno, senza tramonto, ed il suo impero indistruttibile" (VII, 13 seg.), e ripete con qualche spiegazione: "l'impero e la potestà, e la grandezza degli imperi di sotto ogni cielo è data al popolo dei Santi dell'Altissimo; a lui serviranno e ubbidiranno tutti i potentati" (ivi, 27); dove si vede il senso collettivo (popolo dei santi) e l'individuale (un figlio d'uomo), quasi toccarsi e darsi la mano.
Accanto però a questo lato materiale e politico della felice era messianica, i profeti non trascurano di premere anche più sul lato morale e religioso del rinnovamento che caratterizza quell'epoca. Tre linee di idee si rilevano in questo proposito:
1. Cesseranno quei vizî ed abusi, soprattutto superstizioni idolatriche ed ingiustizie sociali, che avevano attirato dall'ira divina sulla nazione il tremendo castigo dell'esilio babilonese. Dalla terribile prova il popolo eletto uscirà purificato e trasformato in meglio (Isaia, I, 24-29; LII, 1 segg.; LX,. 17-22; Geremia, XXXIII, 6-9; XXXII, 37-39; Ezechiele, XXXVI, 16-32).
2. A fondamento di così profonda rinnovazione sarà stabilita una nuova alleanza tra Dio e il suo popolo, alleanza paragonabile al patto del Sinai per distacco dal passato ma superiore ad esso per intrinseca perfezione.
Principale banditore del nuovo patto, per forza e chiarezza, si fece Geremia: "Ecco vengono giorni, dice Jahvè, che io stringerò con Israele e con Giuda un patto nuovo; non quale il patto che ho stretto coi padri loro quando li presi per mano per trarli dall'Egitto... Ma tale è il patto, che io stringerò con Israele dopo quei giorni; dice Jahvè: porrò la mia legge nei loro cuori e nelle loro menti l'imprimerò: essi mi avranno per Dio ed io li avrò per mio popolo... e darò loro un cuor solo e una condotta uniforme, sì che siano a me devoti in ogni tempo per bene loro e dei loro figli dopo'essi. Farò con essi un patto eterno, di non distogliermi da loro con beneficarli, e metterò nei loro cuori il mio timore perché non si distacchino da me" (Geremia, XXXI, 31 segg.; XXXII, 39 segg.). Ma d'un nuovo patto parlano ancora Osea, II, 16; Isaia, LV, 3; Ezechiele, XXXVII, 26; XXXIV, 25. Quest'ultimo a indicare una radicale trasformazione usa le più forti immagini: "Vi darò un cuor nuovo (parla Jahvè al popolo) e porrò dentro di voi uno spirito nuovo: toglierò dal vostro corpo il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne; dentro di voi porrò il mio spirito e farò sì che seguirete i miei precetti e le mie leggi osserverete e metterete in pratica" (Ezechiele, XXXVI, 26 segg.). È la nuova religione dello spirito, che va diritto alla mente e al cuore, santificando le sorgenti dell'umana attività, lepiù nobili facoltà dell'anima.
3. Infine la religione di Jahvè, così nobilitata, non sarà più esclusivo privilegio di un popolo, ma si comunicherà a tutte le genti, che nel culto dell'unico vero Dio si associeranno ad Israele. Questa generale conversione dei popoli al Dio d'Israele viene drammatizzata in un vaticinio che si legge identico in Isaia e Michea, ma deve essere più antico dei due, tramandato, come proprietà comune, da generazioni: "Negli ultimi tempi il monte del tempio di Jahvè sarà come eretto in cima ai monti ed elevato sopra i colli; ad esso affluiranno tutte le genti. Molti popoli accorreranno dicendo: Venite, saliamo al monte di Jahvè, al tempio del Dio di Giacobbe; Egli ci istruirà nelle sue vie e noi seguiremo i suoi dettami; perché da Sionne uscirà la legge e la parola di Jahvè da Gerusalemme" (Isaia, II, 2 seg.; Michea, IV, 1 seg.). Medesima immagine in altre parole presso Zaccaria, VIII, 20-23. Così Gerusalemme sarà il centro religioso del mondo, la madre spirituale dei popoli (Saemo LXXXVII), e Jahvè universalmente riconosciuto come il vero, il solo Dio (Isaia, XLV, 14; LVI, 3-6; Zaccaria, II, 15 [Volg. ii]; Sofonia, III, 9 seg.).
Origine ed evoluzione. - Come e quando sorsero in Israele così radiose speranze? È questione ardentemente dibattuta in questi ultimi tempi. Sulla fine del secolo scorso, col trionfo della ricostruzione wellhauseniana della storia israelitica, era divenuto quasi assioma, fra i critici, che il messianismo è prodotto dell'ultima età dei profeti, dopo l'esilio. I grandi profeti anteriori all'esilio (si diceva), rigidi predicatori di severa morale, non fecero che minacciare castighi per la profonda corruzione del popolo. Solo dopo che, con la tremenda catastrofe del sec. VI a. C., il popolo ebreo fu purificato, e, restituito alla patria dal doloroso esilio, rinacque a novella vita nazionale con migliori auspici, più ancora quando con l'eroica insurrezione maccabaica scosse il giogo straniero, spiegò le ali alle fantastiche speranze messianiche, e vaticinî ad esse ispirati furono inseriti nei volumi degli antichi profeti per temperarne l'agro sapore.
Al principio del secolo XX la scuola comparativa (Gunkel, Gressmann) rovesciò i termini; l'idea di un messia salvatore (disse) è tra gli elementi più antichi del messaggio profetico; ha le sue radici nella mitologia delle origini cosmiche, quale fu coltivata specialmente in Babilonia e di là propagata per tutto l'Oriente. Secondo le supposte teorie babilonesi, il mondo deve finire in modo analogo al suo principio, la fine deve rispondere al principio; il mondo o, per meglio dire, il ciclo attuale del mondo, cominciò per la vittoria di un dio creatore sopra le avverse forze demoniache, e dovrà finire con la vittoria di un divino salvatore sopra i malefici avversarî, per iniziare un nuovo mondo. Ecco, secondo questa scuola, il gemme donde nella fervida anima religiosa d'Israele sbocciò la maestosa figura del Messia e del suo regno. Nessuna ragione quindi per negare che tali magnifiche speranze già fossero negli Ebrei diffuse prima dell'esilio, alla data tradizionale degli scritti profetici.
A questa derivazione esotica del messianismo ebraico si rimprovera dai numerosi suoi avversarî, di destra e di sinistra, di spremere dai testi più che non dicono, e supporre una rispondenza tra fine e principio, che non si può dimostrare. Un messianismo comparabile all'ebraico non si trova né in Babilonia né in Egitto, i due centri di civiltà che ebbero influenza sull'antica letteratura ebraica, l'influsso del mazdeismo persiano, se mai ci fu, non entra qui in conto, perché è solo possibile in età più tarda.
Un'origine indigena, pur con lontana dipendenza da Babilonia, asserì di recente per altra via S. Mowinckel. Nel tempio di Gerusalemme si sarebbe celebrata al primo giorno dell'anno civile la festa della regalità di Jahvè, a imitazione di simile festa che ogni anno si celebrava in onore di Marduk. Il regno di Jahvè, drammatizzato nella liturgia di quel giorno, non vedendosi adempiere nel presente, fu proiettato nell'avvenire e così sorse l'idea messianica nel popolo ebreo ancora ai tempi della monarchia. Anche in questa brillante teoria però si suppongono più cose senza solide prove. Nessuna traccia presso gli Ebrei di una festa di Jahvè re; né in Babilonia stessa la festa del Capodanno aveva quel senso che le si presta; si onorava Marduk come distributore del destino per il nuovo anno, cerimonie di buon augurio, non di omaggio a una pretesa dignità regale.
Più prossima alla realtà, una scuola di mezzo (Sellin) ripete l'origine del messianismo ebraico dal solenne patto del Sinai e dalla conseguente privilegiata posizione d'Israele nel consesso dei popoli. Infatti la radice dell'aspettazione di un finale trionfo di Israele sopra le altre nazioni, come ce la presenta la Bibbia stessa, sta nella sua particolare elezione a "popolo di Jahvè", a cultore dell'unico vero Dio. A conferma è qui da ricordare che anche i Samaritani, pur non riconoscendo l'autorità dei profeti, ma solo il Pentateuco, aspettavano e tuttavia aspettano un Messia, che chiamano Ta' eb (v. Giovanni, IV, 25). Ma quell'elezione, speciale vincolo fra Jahvè e il suo popolo, sebbene si sia conclusa e come sigillata ai piedi del monte Sinai, pure la tradizione ebraica consegnata nella Bibbia la fa risalire al progenitore Abramo. Essa è contenuta come in germe nelle promesse ripetute a quel patriarca: "In te, nella tua stirpe, saranno benedette tutte le genti della terra e la tua stirpe occuperà le porte de' suoi nemici" cioè ne menerà trionfo (Genesi XII, 3; XVIII, 18; XXII, 18). La promessa si va poi precisando e restringendo alla posterità di Giacobbe (Genesi, XXVII, 29; Numeri, XXIV, 17) e poi di Giuda (Genesi, XLIX, 10).
In quest'ultimo luogo è il celebre vaticinio, leggermente offuscato dalle ombre che avvolgono una parola centrale: "A te, Giuda, a te i tuoi fratelli renderanno omaggio; la tua mano piegherà il collo dei tuoi nemici e s'inchineranno a te i figli di tuo padre... Non sfuggirà lo scettro a Giuda, né l'autorità alla sua discendenza, finché venga il Pacifico, al quale obbediranno i popoli". Così la traduzione del rabbinato francese. La voce testuale šīloh rispondente a pacifico si presta però a varie interpretazioni (ovvia, fra l'altre, la città di Silo, che però non si vede che abbia a far qui), e neppur ne è certa la scrittura, poiché le antiche versioni (LXX, i varî Targūm giudaici, il samaritano, la Pešiṭtā, in parte la Volgata) e un luogo parallelo di Ezechiele (XXI, 32) autorizzerebbero la lettura un po' diversa e meglio armonizzante col contesto šellō, cioè "quegli a cui è" riservato (lo scettro), come ben già tradussero i LXX e il Targūm. Ma qualunque lezione si segua, può dirsi certo che qui si parla dell'eminente personaggio detto poi per eccellenza il Messia, termine, che il Targūm giudaico introduce qui nella sua versione.
Alla supremazia sulle tribù sorelle la tribù di Giuda fu portata da David, che in pari tempo fondò un regno ebreo d'ampiezza e di forza insorpassate. Con lui la potenza politica degli Ebrei raggiunse l'apogeo. Sopra la sua persona vennero perciò a confluire e posarsi le speranze fatidiche della nazione, ed egli le trasmise ai suoi successori, venendogli assicurata da promessa celeste la perpetuità della sua stirpe (II Samuele, VII; XXIII, 5; Salmi LXXXVIII e CXXXII Volg.). David prese così in quest'ordine d'idee un posto di tale importanza, che il Messia verrà a chiamarsi il figlio di David" per eccellenza (Salmi di Salomone, XVII,23; Marco, X, 47; Matteo, XXI, 9; IX, 27, col commento Strack-Billerbeck), e anzi come s'è visto a prendere nel linguaggio dei profeti il nome stesso di David, affermandosi con questo la mutua relazione dei due poli su cui si regge il messianismo ebraico. I profeti, di più, al carattere politico fino allora esclusivamente, o quasi, espresso nelle promesse messianiche, aggiunsero l'elemento morale e religioso, facendolo presto avanzare al primo posto.
Data e avveramento. - Si può stabilire il tempo in cui doveva venire il Messia e cominciare l'era messianica, in base ai vaticinî dei profeti? Normalmente i profeti non specificavano il tempo, ma solo implicitamente collocavano quella venuta dietro la fine d'una presente o imminente calamità. Isaia vede l'Emmanuele in connessione con la ritirata dell'invasore siro-efraimita (735 a. C.), vede spuntare il rampollo di David dopo la disfatta del tiranno assiro, Sennacherib (701 a. C.). È frequente soprattutto nello stesso Isaia (seconda parte), in Osea, in Geremia, in Ezechiele l'annunzio della felicità messianica dopo il ritorno dall'esilio babilonese. In Daniele invece il regno universale messianico succede al crollo dell'impero seleucida, alla riscossa maccabaica. Quanto tempo debba decorrere da ciascuno di tali fatti alla comparsa del Messia, o all'apertura della nuova era, non è detto; talora si fa con qualche circostanza capire che intercederà un buon tratto di tempo, come quando Isaia nel portarsi ad annunziare l'Emmanuele si fa accompagnare da suo figlio, che, nel suo nome significativo di Šeāryāšûb "l'avanzo tornerà", portava una permanente predizione di eccidio, sbandamento, ritorno, che avrebbe preceduto. Ma per lo più manca ogni indizio per misurare la distanza; effetto insieme e causa d'un fenomeno psicologico che ravvicina i fatti futuri, come agli occhi in distanza gli oggetti appaiono fra loro accostati. I quadri tracciati dai profeti (come l'antica arte orientale) mancano di prospettiva, ed esigono la riflessione per giudicarli; ma un tratto può dirsi certo e comune a tutti i profeti: per tutti essi la venuta del Messia non doveva essere tanto lontana.
Due vaticinî vanno considerati a parte, perché fuori dell'ordinario dànno espresse indicazioni di tempo: Genesi, XLIX, 10, e Daniele, IX, 24-27. Nel primo si dice che non verrà meno l'autorità nella tribù di Giuda finché venga il Messia; dove alla questione presente è accessorio che la congiunzione "finché" si prenda in senso esclusivo o inclusivo, quando nel regno del Messia davidico intendasi continuata e perpetuata la supremazia di Giuda. Ora da che con l'avvento di David, come notammo, Giuda prese in mano lo scettro, è noto che la dinastia davidica si sostenne solida per oltre quattro secoli, mentre il vicino regno di Samaria in due secoli otto volte cambiò dinastia. Vella restaurazione nazionale dopo la bufera dell'esilio la discendenza davidica non fu più rimessa in trono, ma la supremazia di Giuda sopra le altre tribù d'Israele si affermò più che mai, poiché praticamente le assorbì tutte e da allora Giudei e giudaismo furono gli ordinarî vocaboli per tutta la schiatta e la religione ebraica. I Maccabei, che resero alla nazione l'indipendenza, alla tribù di Giuda non appartenevano di sangue, ma d'adozione; e quando lo scettro passò alla famiglia idumea degli Erodi, volgeva alla fine non solo l'indipendenza, ma l'esistenza stessa dello stato giudaico, scomparso per sempre nel cozzo con la tremenda forza di Roma. I tempi vagamente indicati dal vaticinio di Giacobbe dovettero allora apparire passati.
In Daniele, IX, 24-27, si fanno cifre: "Settanta settimane (di anni) a partire dalla parola data per ricostruire Gerusalemme, fino al tempo che si metta fine all'infedeltà, sia espiato il peccato, abbia termine l'iniquità, s'inauguri la giustizia eterna, si ponga il sigillo a visioni e profezie". I caratteri di questo termine sono certo quelli dell'era messianica. Per il punto di partenza non è fuori di discussione se si debba intendere una promessa divina di restaurazione (Geremia, XXV, 11) ovvero un decreto reale (di Ciro: Esdra, I, 1-4, ovvero di Artaserse, ivi, VII, 12-26). Altri dati offre il seguito del vaticinio dividendo la somma 70 in tre parti: 7 + 62 + 1, che segnano come tre tappe: al termine di 7 settimane un "messia duce", mašīaḥ nāgīd; quindi, ricostruita Gerusalemme, 62 settimane di stasi pacifica; infine nell'ultima settimana "verrà ucciso un mašīaḥ per niente; alla città e al santuario sarà dato il guasto... e per una metà della settimana cesserà ogni sacrificio, cruento e incruento...". Il primo periodo di 7 settimane o 49 anni è chiaramente il tempo che va dalla presa di Gerusalemme (587-6 a. C.) al decreto di Ciro (538) che dava ai Giudei esuli in Babilonia libertà di tornare in patria e rifabbricare il tempio (Esdra, I,1-4; VI, 3-5). Ciò posto, è indifferente che nel "messia duce", la cui entrata in scena chiude quel periodo, si riconosca Ciro stesso, che già in Isaia, XLV, 1, è da Jahvè chiamato "suo messia", eletto cioè al detto scopo, ovvero Gesù di Josedec, sommo sacerdote ("unto", v. sopra) e capo religioso (nāgīd; Daniele, XI, 22) del primo nucleo di reduci.
Il guasto dato alla città e al santuario con la cessazione dei sacrifici nell'ultima settimana, l'antica esegesi lo riferiva all'eccidio di Gerusalemme sotto Tito (70 d. C.), i moderni comunemente alle violenze di Antioco Epifane (167 a. C.). Nel primo caso il numero intermedio di 62 settimane (434 anni) sarebbe troppo piccolo, nel secondo troppo grande; ma l'oscillazione non è tanta, e il numero fondamentale di 70, per comune idiotismo in ebraico e per le circostanze del presente vaticinio (Daniele, IX, 2), può essere una cifra tonda, non esatta. Rimane in ogni spiegazione il significato messianico, e un'approssimazione di tempo più o meno grande.
Nel Nuovo Testamento. - Infatti, che nel primo secolo dell'era volgare presso i Giudei si credesse generalmente prossima la venuta del Messia, fanno fede tre diversi generi di fonti: i Vangeli, gli storici romani Tacito (Hist., V, 13) e Svetonio (Vespas., IV, 5), lo storico giudeo Flavio Giuseppe (Guerra, VI, 312), il quale inoltre riferisce di parecchi avventurieri che in quel torno di tempo si presentarono al popolo come il Messia e furono creduti da molti (Antichità, XX, 97, 169, 188; Guerra, II, 261). La conquista romana, che rendeva ai Giudei più evidente e dolorosa la perdita dell'indipendenza, acuì l'aspettazione del Messia col desiderio della prossima liberazione dal giogo straniero; ma contribuì pure alla confusione delle idee e alla divisione degli animi, orientando le aspirazioni del popolo verso rivendicazioni nazionali e prosperità materiale, a scapito dell'elemento religioso e morale così prominente presso i profeti. Sintomi di tale piega, che prendeva il messianismo giudaico, sono già i Salmi di Salomone, occasionati dall'invasione di Pompeo in Palestina, primo segno d'allarme contro l'abborrito straniero d'Occidente. Dietro gli smaglianti colori, onde la fantasia accesa dalla brama dipingeva la gloria, il dominio, la felicità d'Israele nella nuova era, la persona del Messia rimaneva alquanto nella penombra. Più rilievo ha in alcuni dei libri apocalittici, scritti intorno a quell'epoca, come il libro di Enoch, l'Apocalisse di Baruc, il IV Esdra, che ne esaltano il carattere sovrumano; ma essi non rappresentano l'idea popolare, e il loro ideale d'avvenire è pur esso tutto nazionale. Diversamente da queste varie correnti nazionalistiche, Gesù di Nazaret, appena uscì in pubblico, si diede a predicare l'imminenza del "Regno di Dio" (Marco, I, 15 e passim), formula che mette in risalto la natura spirituale, religiosa e morale dell'opera messianica. Alle aspirazioni nazionali Gesù fu indifferente; e perciò quando i suoi avversari, per tentarne i sentimenti in proposito, lo interrogarono se fosse lecito o no pagare il tributo a Cesare (implicito riconoscimento di politica dipendenza del popolo eletto da un potere pagano) diede la celebre risposta: "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio" (Matteo, XXII, 21 e paralleli). Non mise innanzi la sua persona; anzi per molto tempo non permise di essere acclamato Messia, anche per non dare esca al popolare entusiasmo facile alle imprudenze e agli eccessi (Marco, III, 12; Matteo, XVI, 20; Luca, IX, 21) e quando la turba, da lui non solo istruita, ma anche pasciuta, stava per farlo re a forza, egli si dileguò (Giovanni, VI, 14-16). Però, domandato chi egli fosse, additava le sue opere con le parole dei profeti, di cui dovevano essere l'adempimento (Matteo, XI,2-5; Luca, IV, 17-23; VII, 18-23), né ricusò a tempo opportuno di accettare e confermare i titoli equivalenti di Messia, di re d'Israele, di figlio di Dio, che gli venivano dati dai discepoli (Matteo, XVI, 16) o dalle turbe (Marco, XI, 9 seg. e parall.; Giovanni XII, 13) e quando ne fu interrogato ufficialmente nel tribunale del sinedrio (Matteo, XXVI, 63 e parall.). Ma al procuratore romano, che gli chiedeva: "Dunque sei tu il re dei Giudei?" rispose: "Re sono io, come tu dici... ma il regno mio non è di questo mondo" (Giovanni, XIX, 33-37). Con tale concetto del regno messianico non seppero intendersi né il popolo (gli stessi discepoli di Gesù penarono fino all'ultimo ad accettarlo), né tanto meno i capi della nazione; di qui l'insanabile dissidio che culminò nella tragedia del Calvario. Questa per altra parte veniva a riprodurre la tragedia del "servo di Jahvè" in Isaia, e così a mettere in rilievo un lato meno appariscente e meno considerato del messianismo delineato nell'Antico Testamento, quello della sua morte espiatrice e redentrice.
Un Messia morto e risorto, un messianismo che si era adempiuto in Gesù di Nazaret, era la nuova fede che gli apostoli dovevano predicare e persuadere a tutto il mondo, cominciando dai Giudei. Ma per questi un Messia messo in croce era uno scandalo, come per i pagani una follia (I Corinzî, I, 23). Il continuo sforzo degli apostoli (gli Atti ne fanno fede) per convincere i Giudei fu perciò mostrare loro con le Scritture dei profeti come "bisognava che il Cristo patisse e risorgesse da morte" e come Gesù Nazareno si era dimostrato quel Messia appunto promesso dai profeti (Atti, II, 22-36; III, 13-24; IX, 20-22; XIII, 26-41; XVII, 2-3; XXVIII, 23). Un simile studio si rileva anche nella predicazione scritta, cioè nei Vangeli, massime nel primo. L'opposizione, che tale predicazione incontrò presso la maggior parte della nazione giudaica ha la sua prima radice nel diverso concetto che s'era formato del messianismo. E quindi S. Paolo, quando, accusato dal partito d'opposizione e messo in ceppi, fu portato al tribunale di Cesare, poté dire ai suoi connazionali di Roma: "Per le speranze d'Israele mi trovo stretto in queste catene" (Atti, XXVIII, 20). Ma a Timoteo scrisse pure da Roma: "La parola di Dio non s'incatena" (II Tim., ii, 9); e il mondo romano accetto il Messia ripudiato dai Giudei.
L'idea messianica nell'ebraismo post biblico.
Il Messia nei libri tradizionali. - Dopo la caduta degli Asmonei e sotto la dominazione romana, l'idea, già espressa specie da quei profeti che hanno accompagnato o seguito l'esilio babilonese, che un discendente del re David tornerà a salire finalmente il trono paterno rimasto a lungo vuoto, e redimerà il popolo d'Israele e per mezzo suo le genti tutte, si precisa e si concreta nella fede sicura nell'avvento del Messia come persona. Perciò la letteratura rabbinica è ricca di questioni intorno all'epoca della venuta del Messia (i tempi messianici), al suo nome, al luogo della sua dimora, ai fenomeni che precederanno e accompagneranno la sua apparizione. Nel Talmud (Pĕsāḥīm, 54 a) si legge che il nome, che è quanto dire l'idea, del Messia esisteva anche prima del mondo; altrove invece (Yĕrūsh. Bĕrākōt, II) è detto che il Messia è nato il giorno stesso in cui fu distrutto il Tempio e perciò gli viene attribuito il nome di Mĕnaḥēm (consolatore). Molteplici sono del resto i nomi con cui il M. è chiamato nei libri rabbinici: a designarlo è usato anche lo stesso nome divino; è detto poi Gō'ēl (redentore), ‛Ănānī (da ‛ānān "nube" perché, secondo Daniele, scenderà dal cielo sulle nubi), Ṣemaḥ (germoglio), Shīlōh, ‛Innōn, Ḥǎnīnāh.
Quanto al luogo della dimora del Messia, già creato da più o meno lungo tempo, alcuni testi (Derek Eres Zūţā, I) ce lo mostrano glorioso in paradiso, addolorato e piangente per la sciagura del suo popolo e consolato dagli angeli, altri (Sanhedrīn, 98, a) lo pensano nascosto e sofferente a Roma, come nella città che determinò la caduta del regno ebraico.
V'è discussione nel Talmud circa il tempo dell'avvento del Messia; ché mentre, secondo alcuni dottori, sembra ragionevole che l'avvento stesso supponga come condizione essenziale la penitenza, cioè un generale miglioramento morale e religioso e in particolare l'osservanza rigorosa e generale di certi più importanti precetti, secondo altri esso è già stabilito, e in esso, per quanti siano i peccati, il Messia dovrà venire.
Predomina però, nella tradizione, l'opinione che la redenzione dipende più che dalla volontà degli uomini da quella di Dio, che ha già stabilito il tempo del suo avvento (Midrash Ēkā Rabbātī, in fine). Molteplici sono a questo riguardo le precisazioni cronologiche che si possono trovare nei libri tradizionali (p. es., 4231 anni dalla creazione, 1400 anni dopo la dispersione, 990 dopo la distruzione del Tempio, ecc.). Così pure si ritiene (Měgillāh, 17 b., Rōsh ha-shānāh, 11 a, b, Sanhedrīn, 97 a) che il M. verrà in un anno sabbatico, nel mese di Nīsān o in quello di Tishrī.
I tempi messianici saranno annunziati e preceduti da una serie di sventure: il popolo ebraico stesso sarà numericamente molto diminuito, la decadenza morale sarà gravissima, in ogni aspetto della vita sociale; vi saranno pestilenze, carestia, siccità e povertà, e finalmente il mondo intero sarà dilaniato da guerre atroci. Riferendosi alla profezia di Ezechiele, XXXVIII segg., la tradizione parla di Gog e Magog come del tipo dei nemici che combatteranno gli Ebrei nei tempi messianici e ad esso aggiunge un'altra figura, Armilos, che combatterà gli Ebrei e si opporrà anche al Messia, ma finirà con l'essere da questi sopraffatto.
Anmmciato da tali segni, il Messia dovrà essere preceduto da un precursore, atto a preparare i tempi e i luoghi, che la tradizione concordemente identifica in Elia profeta, salito in cielo ancor vivo egli precederà il Messia d'un giorno o, secondo altre fonti, di tre. E poiché, secondo alcuni luoghi talmudici (p. es., Sukkāh, 52 a) due sarebbero i Messia; l'uno figlio di Giuseppe, l'altro, posteriore, figlio di David, Elia profeta verrebbe in compagnia del secondo e, a confortare Israele della perdita del primo Messia, ne opererebbe la resurrezione miracolosamente.
Molti luoghi talmudici descrivono i tempi messianici. La prima conseguenza della venuta del Messia consiste nel ritorno degli Ebrei, numericamente aumentati, in Palestina e la riedificazione della città di Gerusalemme e del Tempio, che diverrà sede della divina presenza tra gli uomini. Cesserà il peccato, e di conseguenza anche la morte. I figli d'Israele diverranno perciò immortali. Ma gli effetti della venuta del Messia non si faranno sentire solo per Israele: un'epoca di beatitudine si aprirà per tutte le nazioni che, pentite delle loro colpe, saranno perdonate. L'idolatria cesserà, tutte le genti adoreranno un solo Dio. I tempi messianici diventano così sinonimo di un rinnovamento universale per il quale, secondo la parola profetica, si avrà un nuovo cielo e una nuova terra, e fra gli uomini tutti moralità perfetta, il più alto grado di perfezionamento, felicità ideale. La venuta del Messia porterà pure la resurrezione dei morti: primi risorgerebbero i giusti del popolo ebreo e i più giusti degli altri popoli; poi, dopo l'era messianica, avverrebbe il giudizio finale; ma i testi a questo riguardo non sono concordi.
Il Messia nei filosofi ebrei. - Nella storia della dogmatica e della filosofia ebraica le idee intorno al Messia hanno avuto alcuni sviluppi di particolare importanza. Tra i filosofi maggiori, Sa'adyāh (sec. X) intende l'era messianica come palingenesi universale dell'umanità intera. Maimonide invece, seguendo l'opinione di Samuel, dottore babilonese del sec. II, restringe il compito del Messia alla restaurazione del popolo ebraico in Palestina, al ristabilimento della dinastia davidica, alla riedificazione del Tempio. Ma la maggior parte dei filosofi ebrei è per una visione più larga dei tempi messianici. Albo, Bahyà, Ibn ‛Ezrā, Abrabanel, Qimḥī ammettono la resurrezione dei morti; Giuda Levita e Nahmanide accettano l'idea della conversione di tutti i popoli a una sola religione. Nel giudaismo moderno, più che della personalità del Messia si parla dei tempi messianici, intesi come il risultato di un processo di perfezionamento morale dell'umanità e simbolo del perfezionamento stesso.
La credenza nel Messia nella storia postbiblica. I falsi Messia. - La credenza nel Messia è stata più intensamente professata in quei periodi storici nei quali le condizioni di vita erano per gli Ebrei particolarmente tristi, e poiché, come dicemmo, per la tradizione ebraica, il Messia dovrebbe essere preceduto da un periodo di guerre, dolori e sciagure di particolare gravità, è avvenuto che quando la vita ebraica nel mondo o in certi paesi diveniva particolarmente triste, sorgeva la speranza nell'imminente arrivo del Messia, e talora la fede nel Messia già venuto.
Numerosi sono perciò nella storia ebraica gli pseudo-Messia e gli pseudo annunziatori del Messia. In Palestina, dopo Theudas, sorto nel d. C. (forse uno di quegli stessi falsi profeti a cui allude Matteo, XXIVi 24), è da ricordarsi Bar Kōkhĕbā, capo della rivolta degli Ebrei sotto Adriano, nella cui realtà messianica credette anche ‛Aqībā (v.). Fuori di Palestina, ricordiamo Mosè da Creta (sec. V), in Creta; in Persia, Abū‛Isà al-Isfahānī e il suo discepolo Yudǵān (sec. VII-VIII), in Siria Sereno (sec. VIII). All'epoca delle crociate se ne registrano diversi, fra cui particolarmente notevoli uno a Fez, di cui parla Maimonide nella Iggeret Tēmān (1172), e David Alroy in Persia (circa 1160), la cui fama si diffuse in tutta l'Asia e dopo la morte del quale sussistette una setta di seguaci detti i Menachemisti. Verso la fine del sec. XIII, sotto l'influenza delle dottrine cabbalistiche, si dichiarò Messia Abraham Abulafia di Saragozza. Nel 1502, in Istria, Āshēr Lemmlein si proclamò Messia; circa venti anni dopo, apparve come annunziatore del Messia Dāvīd Rěūbenī che, propugnando l'espulsione dei Turchi dalla Palestina, fu accolto in udienza anche da papa Clemente VII; dietro la sua influenza, un marrano del Portogallo, Diego Pires (che prese il nome di Shēlōmōh Molcho), annunziò che il Messia sarebbe venuto nel 1540. Il più importante pseudo-Messia dei tempi moderni è Shabbĕtay Şĕbī, nato a Smirne nel 1626, morto a Dulcigno nel 1676, fondatore d'un vero e proprio movimento, continuato anche dopo la sua morte, con varî e numerosi seguaci. Tra questi, Mordekay Mōkīah di Eisenstadt, che annunziò imminente la resurrezione di Shabbĕtay Sĕbī, e poi proclamò Messia sé stesso. Il più recente pseudo-Messia è Ya‛aqōb Frank (1720-1791), il quale chiamò sé stesso "il santo signore", e poi si convertì al cristianesimo a Varsavia, nel novembre 1759.
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