MESA (Mēsha‛)
Re di Moab, del quale la Bibbia (II [IV] Re, III, 4, 27) ricorda le guerre condotte contro il regno d'Israele. Dopo la sua ribellione alla supremazia israelita, in seguito alla morte di Acab, il re d'Israele Joram, insieme col re Giosafat di Giuda e col re di Edom, dopo una penosa marcia attraverso il deserto, durante la quale gli eserciti collegati scamparono alla morte per sete, grazie all'intervento miracoloso del profeta Eliseo, invase e devastò il territorio moabita, sconfisse il re M. e lo strinse d'assedio in una delle città del suo regno, Qir Ḥareśet (probabilmente l'odierna Kerak). M., vistosi in situazione disperata, sacrificò il proprio primogenito sulle mura della città: "allora una grande ira cadde sugli Israeliti, i quali partirono di là e tornarono in patria". Questi avvenimenti sono da porsi, secondo la cronologia più comunemente accolta, intorno all'840 a. C.
Questo episodio presenta un interesse singolare per la menzione del sacrificio del primogenito, in caso soprattutto di pericolo imminente, largamente attestato presso le popolazioni cananee e che il divieto pronunciato dalla legge ebraica e altre allusioni bibliche mostrano essere stato accolto, per influsso di quelle popolazioni, anche dagli Ebrei. Ma la grande notorietà che il nome del re M. ha assunta nel campo degli studî è dovuta alla scoperta, una delle più importanti dell'epigrafia semitica, di un'iscrizione proveniente da lui e riferentesi agli stessi avvenimenti ricordati nel testo biblico.
L'iscrizione di M. fu trovata nel I868 da alcuni beduini della Transgiordania (non è noto se sopra terra o in seguito a scavi fortuiti) nella località che sembra essere stata quella della città di Daibon, la capitale dei Moabiti. Veduta dapprima dal sacerdote tedesco Klein, fu poi acquistata dal francese Ch. Clermont-Ganneau (v.), in seguito a contestazioni alquanto vivaci, durante le quali i beduini, probabilmente nella speranza di guadagni maggiori, arroventarono e frantumarono la pietra, della quale solo alcuni frammenti furono ricuperati, rimanendone per buona sorte il calco preso prima della parziale distruzione (gli uni e l'altro ora al Louvre a Parigi). Si tratta di una stele oblunga, col lato superiore più breve dell'inferiore e alquanto arrotondato, mutila nella parte inferiore, molto simile per forma ad analoghi monumenti assiri e fenici. L'alfabeto presenta le forme del fenicio arcaico (v. alfabeto, II, 373 seg.), la lingua è tanto simile all'ebraico da costituirne appena una varietà dialettale: uniche differenze notevoli la desinenza del plurale che è regolarmente -īn, di contro al fenicio, dove è sempre -īm, e all'ebraico biblico dove -īm prevale, rimanendo la desinenza -īn limitata a casi sporadici, specialmente del linguaggio poetico (ma nell'ebraico più tardo -īn riprende la prevalenza), e la presenza di un riflessivo formato con infissione di t dopo la 1ª radicale, come in arabo e (peraltro finora con un solo esempio) in fenicio. Il testo, in generale ben conservato salvo nell'ultima parte, ma spesso di difficile lettura, comincia, al modo usuale, menzionando il nome del dedicante: "Io (sono) Mesa figlio di Kemōshbānā, re di Moab", e ricorda la fondazione di un altare (bāmāh) dedicato a Kemōsh, il dio nazionale moabita, in riconoscenza della salvezza accordatagli. "Omri regnò su Israele e umiliò per molto tempo Moab, poiché Kemosh era irritato contro il suo popolo. Poi gli seguì suo figlio (ossia Acab) e anch'egli disse: voglio umiliare Moab. Così disse egli al tempo mio; ma io trionfai di lui e della sua casa, e Israele fu abbattuto per sempre". In seguito M. ricorda la fondazione, o il restauro, di parecchie città tolte agl'Israeliti, le prede fatte su essi (tra l'altro, l. I8, gli arredi sacri [?] di Jahvè, conquistati nella città di Nebo), i prigionieri catturati; si diffonde nell'enumerare le diverse costruzioni, soprattutto cisterne e fortezze, da lui erette. È notevole nell'iscrizione la stretta somiglianza stilistica con testi storici della Bibbia, che attesta una comunanza di civiltà e di pensiero. Vi si ritrova perfino il ricordo della devozione (ḥerem) alla divinità nazionale di una città conquistata, con la strage completa di tutti gli abitanti: barbaro costume attestato anche nella Bibbia. Non è fatta parola, tuttavia, dell'assedio di cui narra il passo biblico; cosa che non sorprende tuttavia, essendo ben noto che in siffatti ricordi storici provenienti da sovrani orientali (analogie strettissime si hanno tanto in Assiria quanto in Egitto) le sconfitte non sono mai esplicitamente confessate, e lo stesso racconto biblico citato sopra vela con un'allusione alquanto vaga la grave sconfitta che la coalizione israelitica giudaicoedomitica dovette subire sotto le mura di Qir Ḥareśet. Ma sostanzialmente i due racconti non solo non si contraddicono, ma anzi si sompletano.
La scoperta dell'iscrizione di M. suscitò grandissimo interesse nel mondo scientifico e diede occasione all'offerta sul mercato antiquario di numerose "antichità moabitiche", l'avere dimostrato la falsità delle quali è insigne merito del Clermont-Ganneau. Ciò indusse parecchi, anche in tempi abbastanza recenti, a sostenere che la stessa grande iscrizione non fosse se non un'abile impostura: tesi cervellotica, che ora nessuno sosterrebbe più seriamente.
Bibl.: I numerosissimi scritti sull'iscrizione di Mesa sono elencati, fino al 1898, in M. Lidzbarski, Handbuch der nordsemit. Epigraphik, Weimar 1898 e, per gli anni seguenti, in Ephemeris für semit. Epigraphik dello stesso, Giessen 1900-1915 e in Répertoire d'Épigr. sémit., Parigi 1900 segg. V. anche H. Gressmann, Altorient. Texte und Bilder zum Alten Test., 2ª ed., Tubinga 1926.