merda
. Colui che D. nomina specificamente nella seconda bolgia, ritraendolo col capo sì di merda lordo (si noti l'allitterazione) da non potersi distinguere s'era laico o cherco (If XVIII 116), è Alessio Interminelli da Lucca, che non ebbe mai la lingua stucca da lusinghe; a simile pena soggiacciono le altre anime colpevoli dello stesso peccato. Sul probabile significato allegorico della pena, cfr. A. Pézard, Du Policraticus à la D.C., in " Romania " LXX (1948) 9-13; M. Barchiesi, Un tema classico e medievale: Gnatone e Taide, Padova 1963, 153-168.
Il vocabolo riappare nella descrizione del corpo di Maometto martoriato dal demonio giustiziere: la corata pendeva e 'l tristo sacco / che merda fa di quel che si trangugia (XXVIII 27). " Ben che sporca sia questa narrazione, nientedimeno non l'usò el Poeta solamente per monstrar la cosa naturale; ma allegoricamente significa che ciò che entra in bocca allo scismatico diventa sterco " (Landino).
La violenza plebea dell'espressione è attenuata dalle varianti di qualche codice: feccia nel primo degli esempi sopra riportati, sterco e puça nel secondo.
Al riguardo particolarmente significativo, perché contiene in certo qual modo in nuce il contrapasso dantesco, può considerarsi il passo di Malac. 2, 3 " dispergam super vultum vestrum stercus sollemnitatum vestrarum " Nella descrizione di Maometto può affiorare invece la reminiscenza di un detto evangelico (Matt. 15, 17): " omne quod in os intrat in ventrem vadit et in secessum emittitur ".