Mercurio
Figlio di Zeus e di Maia, Ermes - in cui i Romani ravvisarono il loro M. - nacque in Arcadia sul monte Cillene (onde è detto Arcade e Cillenio); ebbe i figli Ermafrodito da Venere (cfr. Met. IV 288), Autolico da Chione (cfr. XI 313).
Rappresentato come un giovane biondo e di bell'aspetto (cfr. Aen. IV 559), munito di calzari alati, con nella mano destra il caduceo (una verga con due serpi attorcigliate, datrice di sonno) e in testa il galerio (cfr. Theb. I 304-306), fu venerato come dio dei sogni, delle invenzioni, del commercio, dei ladri, delle strade (onde in suo onore si ponevano sue immagini, ‛ erme ', nei crocicchi); inoltre gli si attribuirono le funzioni di messaggero di Giove e di conduttore delle anime agl'Inferi: sì che per questa molteplicità di attribuzioni gli antichi vollero distinguere ben cinque divinità omonime (cfr. Cicerone Nat. deor. III XXII 56; la distinzione è stata quindi ripresa dal Boccaccio Geneal. deor. II 7, II 12, III 20, VII 34, VII 36).
Tra le molte imprese di M. le Metamorfosi ovidiane narrano ampiamente l'uccisione di Argo custode di Io (I 668-724; e cfr. anche Phars. IX 663-665), il furto delle giovenche di Apollo (II 685-707), l'innamoramento per Egle e la punizione dell'invidiosa Aglauro (vv. 708-835); mentre Virgilio e Stazio descrivono M. soprattutto nell'espletamento delle sue funzioni di porta-ordini di Giove (cfr. Aen. IV 222-278, 557-570; Theb. I 292-311, II 1-124; e cfr. anche Met. II 744-745 e 837).
Due soli, e rapidissimi, sono i cenni dedicati a M. nella Commedia: entrambe le volte per indicare il pianeta omonimo (Pd XXII 144, come figlio di Maia), i cui influssi - come quelli degli altri cieli - i pagani personificarono erroneamente in divinità (Pd IV 61-63). È invece notevole che Pietro Alighieri ravvisi senza alcuna perplessità proprio M. nel messo da ciel di If IX 80-103: questo è descritto dal poeta non secondo la tipologia degli angeli biblico-cristiani (per cui cfr. Pg II 17-39) bensì secondo particolari che sono chiaramente ripresi dalla narrazione staziana della discesa del messaggero di Giove agli Inferi (Dal volto rimovea quell'aere grasso, / menando la sinistra innanzi spesso; / e sol di quell'angoscia parea lasso; cfr. Theb. II 2-3 " undique pigrae / ire vetant nubes et turbidus implicat aer ", e 56-57 " infernaque nubila vultu / discutit ", con la mano sinistra occorre intendere se nella destra tiene il caduceo: cfr. Theb. I 306-308 " dextrae virgam inseruit ... qua nigra subire / Tartara... assueverat "). Nella verghetta di cui è armato il messo va ravvisato dunque il caduceo, simbolo del potere sul regno dei morti; di esso dice Virgilio: " tum virga capita hac animas ille evocat Orco / pallentis, alias sub Tartara tristia mittit, / dat somnos adimitque, et lumina morte resignat. / Illa fretus agit ventos et turbida tranat / nubila " (Aen. IV 242-246; oltretutto, l'ultimo verso richiama i danteschi E già venìa su per le torbide onde / un fracasso... / non altrimenti fatto che d'un vento / impetüoso, If IX 64-68).
Propriamente D. nomina M. per la funzione di messo della somma divinità per ben due volte riportando citazioni dirette di versi di un medesimo episodio virgiliano: nella Monarchia (II VI 10) cita, a garanzia della romanità dell'Impero, le parole che Giove dice a M. nell'inviarlo a Enea affinché l'eroe sia esortato a proseguire nel viaggio provvidenziale (Aen. IV 227-230), e nell'epistola a Enrico VII (VII 17) ricorda all'imperatore quel che Anubi rimproverò a Enea (Aen. IV 272-276).
Per l'identificazione di M. con Anubi (v.), cfr. Guido da Pisa (Fiore d'Italia, rubr. LXXI): " Lo suo idolo si facea con un cappello in capo, con una verga in mano, con piedi alati e con capo di cane... Capo canino li faceano, secondo santo Isidoro, perché lo cane tra tutti li altri animali è più sagace, e al parlatore si richiede molta sagacitade ".
Il pianeta. - Nel sistema dell'astronomia tolemaica M. occupa la seconda ‛ sfera ', cioè la seconda sezione sferica compresa tra quella della Luna e quella di Venere (Cv II III 7, Pd V 93).
Il suo movimento si sviluppa secondo la teoria epiciclica, ma presenta due caratteristiche proprie: il centro del deferente non è fisso sulla linea dei centri, ma percorre un piccolo cerchio il cui centro è sulla linea dei centri, mentre la coordinata che misura la velocità angolare del centro dell'epiciclo sul deferente coincide sempre con quella che misura il movimento del sole sul suo eccentrico, vale a dire la rivoluzione siderale dei due astri è sempre la stessa (Cv II XIV 16). Quest'ultima particolarità, comune sia a M. che a Venere, fa sì che questi due pianeti non possano allontanarsi molto dal sole (cfr. Pd XXII 144); lo scarto massimo di M. è infatti di 30° (corrispondente alla somma dell'equazione massima dell'argomento del pianeta, della sua equazione massima del centro, della diversità massima del diametro, e dell'equazione massima del sole: 22° 2' + 3° 2' + 3° 12' + 2° 10' = 30° 26').
Una simile prossimità al sole nuoce alla luminosità di M. (Pd V 129, Cv II XIII 11, due volte), che si può scorgere soltanto immediatamente dopo il tramonto o immediatamente prima della levata del sole; questa difficoltà è poi accentuata dalla dimensione del pianeta che gli astronomi medievali consideravano come il più piccolo (cfr. picciola stella di Pd VI 112), in quanto il suo diametro è uguale alla ventottesima parte di quello della terra (Alfragano Liber de aggregationibus XXII, ediz. Campani, p. 149, e cfr. Cv II XIII 11). In Cv II V 13 D. ricorda che i movitori di M. sono gli Arcangeli.
Cielo di Mercurio. - D. descrive il suo arrivo e la permanenza nel cielo di M., il secondo del Paradiso, nei versi che vanno dal c. V 88 a tutto il VII, collocando in tale cielo gli spiriti che sono stati attivi al fine di conquistare onore e fama, secondo l'idea che dal pianeta emanassero influssi che spingessero a ogni genere di attività. D. si avvede del mutamento di cielo (dalla Luna a M.) per il fatto che B. si trasfigura divenendo più luminosa. Nel cielo di M. il poeta vede a sé avvicinarsi ben più di mille splendori, ciascuno dei quali dice: Ecco chi crescerà li nostri amori (V 103 e 105), ci darà modo di alimentare, cioè, la nostra virtù di carità (secondo l'interpretazione più probabile); a mano a mano che ognuno dei beati si avvicina, di lui si vede un'ombra, appena delineata, in mezzo al folgór chiaro (v. 108) che da ciascuna promana: gli spiriti presenti in M. ancora non hanno dunque del tutto perduta la loro sembianza umana, ma di essa mostrano un'assai vaga immagine (più evanescente che non nella Luna), un barlume che resta a segno di quella certa debolezza che le ha condotte a non operare per l'amore di Dio, ma per conseguir fama sulla terra. Uno dei beati invita D. a domandare quanto sul loro conto egli desideri sapere, e D. chiede allora di dirgli chi egli sia, e perché abbia il grado di beatitudine corrispondente a M., cioè de la spera / che si vela a' mortai con altrui raggi (vv. 128-129) essendo al sole più di ogni altra vicina (aveva scritto anche in Cv II XIII 11 che la sfera di M. più va velata de li raggi del Sole che null'altra stella). Per la cresciuta letizia si nasconde a D. la figura santa (v. 137) e tutta nascosta essa narra, nel seguente canto VI, rispondendo alla prima domanda, di essere Giustiniano: descrive la propria conversione e le proprie opere, l'aver cioè per effetto dello Spirito Santo riordinato le leggi e l'avere al suo Belisario affidato armi vittoriose (ma anche il condottiero fu guidato da la destra del ciel [v. 26], D. fa dire all'imperatore, a riconoscimento postumo del limitato vanto che egli deve menare della propria attività e gloria). Ma la circostanza appunto di essere Giustiniano, cioè colui che ha curato la riconquista dell'Italia, diversamente da quanto fanno gl'imperatori contemporanei, colui che ha unificato l'Impero dandogli pace, e che ha creato un vasto e saldo ordine giuridico, costringe il beato ad apporre una postilla, volta a dimostrare la grandezza religiosa, poiché tutto fu preordinato da Dio, dell'esempio più famoso di attività gloriosa, l'Impero romano (più largamente l'istituto imperiale simboleggiato dall'aquila): questa religiosa grandezza appunto indica come si muovano contr'al sacrosanto segno (v. 32) i ghibellini, che di quel simbolo si appropriano per mascherare i loro meschini interessi, e i guelfi che lo combattono. Giustiniano ricorda dunque a grandi linee la storia di Roma, passando poi a evocare l'azione di Carlo Magno, che sotto le ali dell'aquila soccorse la Santa Chiesa ‛ morsa ' dai Longobardi (vv. 94-96).
A questo punto s'inserisce l'esplicita indicazione di quale genere di anime siano collocate da Dio in M., di cui è ricordata la caratteristica di essere picciola stella (v. 112; cfr. la più picciola stella del cielo, in Cv II XIII 11): vi sono i buoni spirti, che son stati attivi / perché onore e fama li succeda (vv. 113-114), e cioè una fama onorata (meno probabile l'altra spiegazione del Rosadi: " sono stati attivi per il che accade che onore e fama ne succeda loro "). Sono beati perché, come aveva scritto s. Tommaso, l'amore alla gloria terrena " non est peccatum mortale, sed veniale " (Sum. theol. II II 132 3) e d'altra parte per l'uomo " laudabile est quod curam habeat de bono nomine et quod provideat bona coram Deo et hominibus "; sono tuttavia in grado relativamente basso perché " importat... ambitio cupiditatem honoris " e " illi qui solum propter honorem vel bona faciunt, vel mala vitant, non sunt virtuosi " (Sum. theol. II II 121 1). Quando i desideri si drizzano alla gloria terrena, è logico che i raggi / del vero amore in sù poggin men vivi (vv. 116-117). Ma il fatto di misurare il premio ricevuto ai meriti conquistati vedendolo perfettamente adeguato è qui, come nella Luna, parte della letizia dei beati. Poi Giustiniano indica la luce di una persona umile e peregrina, ma di alto merito, come Romeo di Villanova, di cui / fu l'ovra grande e bella mal gradita (vv. 135, 128-129).
Anche nel caso di M., come in quello della Luna (la rappresentazione dei due cieli ha struttura per larga parte simile), vi è dunque un episodio di maggior rilievo che mostra come protagonista un personaggio parlante, il quale crea successivamente, con la presentazione di altro personaggio, un episodio più breve anche se, in questo caso, non meno significativo; e anche nel cielo di M. lo stacco dal racconto è sottolineato dall'inizio di un inno di ringraziamento (VII 1-3) nel quale, in conformità col carattere di M., s'intrecciano i motivi della gloria e della grazia, rammentando che anche alla grazia D. attribuisce (Elwert) carattere epico. Segue poi una parte dottrinale: D. si chiede come mai una giusta vendetta (v. 20), quella del peccato antico di Adamo che Cristo compì, poté esser giustamente vendicata con la distruzione di Gerusalemme. E Beatrice risponde che, se si guarda alla natura umana assunta da Cristo, la morte di lui fu giusta; se si considera Cristo come figlio di Dio e Dio egli stesso, nessuna cosa fu più ingiusta e meritevole di vendetta. Quanto al dubbio sul perché Dio volle per il riscatto degli uomini proprio questo modo, Beatrice spiega che egli aveva dato originariamente all'uomo ogni dignità (tra cui la vita perpetua), l'uomo la perse peccando; e convenne che Dio, come solo poteva farsi con l'incarnazione di Cristo - poiché l'uomo non poteva da sé così altamente innalzarsi come fortemente si era abbassato peccando - restituisse il genere umano alla sua primitiva dignità. Avendo poi D. chiesto come mai gli elementi e le loro misture, gli animali e le piante, pur creati da Dio, siano corruttibili, Beatrice risponde che furono create immediatamente solo la materia e le virtù informatrici, che danno vita mediata, mentre solo all'uomo la somma bontà infuse senza mezzo la vita che è dunque perpetua. Qui D. lascia il cielo di M. per quello di Venere, di ciò avvedendosi soltanto dall'accresciuta bellezza di Beatrice.
Sotto il profilo estetico, la parte che si riferisce all'ascesa al cielo di M. si contrappone, realizzata in chiave di luminosa giocosità, all'asprezza polemica che il discorso di Beatrice sui voti aveva raggiunto nella sua parte finale: spicca nella descrizione immaginifica dell'accorrere festoso dei beati - nel confronto con quanto trovavamo nel cielo della Luna - il particolare della singolare ed esaltata luminosità, da mettere in relazione sia con l'assai maggior merito che D. attribuisce a queste anime, rispetto a quelle precedenti, che si distinguevano fondamentalmente per un carattere negativo, e soltanto per questo, sia per le maggiori virtù naturali, sia per quella vita attiva in cui le estrinsecarono: vita attiva che rappresenta per D. un dovere, e fa, di queste, anime a lui fraterne, sì che il cielo di M. appare a D., che non a caso in esso esprime nel modo più pieno il suo sistema politico-religioso, particolarmente importante.
Per lo stesso motivo, epico e vibrante risulta il tono del discorso di Giustiniano, con insistenze particolarmente vigorose allorché si canta la rapidità e l'incisività dell'azione di Cesare, che D. ammirava. Ma in complesso il canto VI, quello centrale del cielo di M., appare unitario, contro una prima impressione, nelle tre parti di cui si compone, la storia di un'istituzione come quella dell'Impero fatta religiosa dai suoi altissimi fini, l'indicazione dei meschini interessi che a essa si oppongono o s'intrecciano, e infine la vicenda di uno spirito attivo, di un uomo non importante (come, politicamente, non al livello di quella dei grandi protagonisti, quali i capi o i re, poté D. sentire la propria opera), travolto dalla meschinità degli uomini mentre offriva il suo contributo civile, e malgrado ciò magnanimo e intransigente, meritevole di lode come i grandi eroi con cui viene implicitamente accomunato nel canto per aver serbato intatta la propria coscienza e dignità. In chiave di trionfo, coerente col tema dell'attività, l'inno che segue, antifona adeguata di ciò che si sta per narrare: che può sembrare sottile teologia, ma che è per D. altra storia, analoga a quella precedente, con quella connessa, e anche più solenne, dei rapporti dell'uomo con Dio.
Bibl. - A. Zardo, Il c. V del Paradiso, Firenze 1903; G. Giovannozzi, Il c. VII del Paradiso, ibid. 1903; G. Rosadi, Il c. VI del Paradiso, ibid. 1906; A. Amoroso, Il c. VI del Paradiso letto alla Pontificia Accademia Tiberina, Roma 1931; F. Montanari, Il c. V del Paradiso, in Lett. dant. 1413-1427; O. Bacci, Il c. VI del Paradiso, ibid. 1431-1454; W.T. Elwert, Il c. VII del Paradiso, ibid. 1457-1478; P. Brezzi, Il c. VI del Paradiso, in Lect. Scaligera III 175-212; C. Galimberti, Il c. VII del Paradiso, ibid. 219-247.