MONTEVERDE, Mercenario
MONTEVERDE, Mercenario. – Figlio di Fildesmido Monteverde, nacque probabilmente nella seconda metà del XIII secolo.
Discendeva dalla nobile famiglia fermana dei Brunforte nonché da Berardo detto Ferro e dal figlio di questi, Rinaldo, che per primo ebbe la denominazione da Monteverde, titolo derivato da un feudo posto tra Falerone e Montegiorgio (Ascoli Piceno).
Le prime informazioni che lo riguardano risalgono agli ultimi lustri del Duecento, quando Mercenario prese le armi per occupare la città di Fermo (1285) e giurò fedeltà alla Chiesa (1290). In seguito, però, con un mutamento di fronte si schierò con Federico di Montefeltro e appoggiò la coalizione ghibellina in opposizione al rettore pontificio della Marca. Divenuto podestà di Amandola (1315-1317) e coadiuvato dal fratello Baccalario, Mercenario fu il maggior responsabile della cavalcata ai danni delle terre di Gualtiero di Brunforte di Mogliano. Fiero avversario anche dei signori di Massa, tra il 1316 e il 1317 partecipò a un’azione contro Macerata e fu forse presente, nel 1318, a Recanati, all’eccidio dei messi inviati dal rettore provinciale e dai guelfi della città. Nelle loro incursioni che spesso sconfinavano dal territorio di Macerata, Mercenario e Baccalario cacciarono e imprigionarono gli avversari per ottenere riscatti rendendosi anche colpevoli di omicidi e saccheggi. I due fratelli spadroneggiarono tra Esino e Chienti, invadendo Serra S. Quirico, Rosola e Domo e assalendo Macerata e la Curia del rettore. Misero inoltre a ferro e fuoco i territori di Morrovalle, Montecausario, Montesanto, Civitanova, Montelupone, Montacassiano e diedero man forte ai ghibellini osimani nel devastare S. Giusto, Appignano, Ripatransone e Offida.
Nel 1320, avendo consolidato una posizione di potere, Mercenario si pose a capo della fazione ghibellina di Fermo, che costituiva, insieme a Osimo, Recanati e Fabriano, uno dei maggiori punti di aggregazione del ghibellinismo nella parte centrale della regione. Due anni dopo Mercenario difese Recanati dall’attacco delle truppe ecclesiastiche, decise a vendicare il precedente assassinio degli agenti pontifici (1318). In questa occasione fu battuto da Berardo Varano, che sconfisse poi nel 1323 a Osimo avendo a disposizione 500 cavalli e 3000 fanti.
La decisa reazione della Curia avignonese unitamente alla raffica di scomuniche e al coinvolgimento diretto dei Malatesta, teso a rianimare l’alleanza guelfa contro i Montefeltro, cominciarono però ad avere qualche effetto contro il fronte ghibellino. Nel 1324 lo stesso Mercenario subì una solenne condanna da parte del giudice provinciale dei malefici e fu vittima, insieme al fratello Baccalario e a numerosi altri nobili ghibellini marchigiani, delle confische di beni personali. Il 29 gennaio 1326, tuttavia, una promessa di aiuto pervenne tramite lettera dal ghibellino vescovo di Arezzo Guido Tarlati il quale promise ai due fratelli e a Giacomo delle Grotte l’appoggio militare da loro richiesto e li esortò ad agire con astuzia e intelligenza.
In quel frangente Mercenario capitanò i ghibellini di Osimo contro Fermo e, dopo averla occupata, vi compì terribili violenze. Dichiarato ribelle dalla Chiesa e colpito da anatema, si impegnò affinché Fermo, che il papa Giovanni XXII aveva privato del titolo di città (1321), riconoscesse l’autorità imperiale di Ludovico il Bavaro. L’imperatore, il 24 novembre 1328, gli inviò da Parma una lettera nella quale, dopo averlo blandito con l’epiteto di propugnaculum Imperii, si impegnava a sostenere il suo fedele seguace. Nella lettera Ludovico il Bavaro esortava inoltre Mercenario a persuadere i ghibellini, affinché non venissero a patti con i nemici e, contemporaneamente, gli raccomandava come vicario imperiale Giovanni di Chiaramonte, conte di Mohac, perché fosse ben accolto dalla sua città.
Il tono confidenziale usato nella missiva nei confronti di Mercenario testimoniava non solo il ruolo di primo piano riconosciuto dall’imperatore a Mercenario e alla città di Fermo, ma anche l’importanza attribuita alle forze ghibelline marchigiane, con le quali l’imperatore si tenne in contatto per tutta la prima metà del 1329.
Tale progetto fu però male accolto dai cittadini di Fermo che, in nome di un tradizionale autonomismo comunale, dopo essersi liberati dai rettori ecclesiastici, non volevano sottomettersi a quelli imperiali. Mercenario, intanto, indusse la città a schierarsi a fianco dell’antipapa Niccolò V, al secolo Pietro Rinalducci da Corvara, il quale consacrò come vescovo di Fermo Vitale da Urbino.
Di fronte all’evidente fallimento della politica italiana di Ludovico il Bavaro, la stanchezza e il dubbio cominciarono però a diffondersi tra i ribelli ghibellini, tanto che dal mese di giugno 1329 e per tutta l’estate, sotto la conduzione di Mercenario in qualità di capitano della lega, si rafforzarono le relazioni tra i fermani e il rettore provinciale. Tali trattative sfociarono nei capitoli preliminari del 25 settembre, concordati tra il rettore stesso con i suoi fiduciari Gentile e Giovanni da Varano da un lato, e Mercenario con i Comuni di Fermo, Fabriano, Osimo e Urbino, in rappresentanza delle località minori, dall’altro. Attraverso questi capitoli si stabilì il ripristino della situazione politica precedente alla ribellione dei fermani e dei fabrianesi. Venne inoltre promesso da parte dei comuni ribelli il pagamento di una cauzione di 10.000 fiorini come acconto dei 25.000 necessari per l’assoluzione; il ritorno all’obbedienza della Chiesa; la pace interna e la riammissione dei fuoriusciti. A tali accordi preliminari fecero seguito, tra il 17 e il 19 agosto 1333, quelli definitivi: in cambio dell’assoluzione i Comuni della lega (Fermo, Osimo, Urbino, Jesi, Fabriano, Serra de’ Conti, Serra S. Quirico, Barbara, Castelfidardo, Offagna, Rocca Contrada, S. Elpidio e il castello di Domo) e Mercenario, loro garante, si impegnarono di fronte al rettore provinciale a versare altri 15.000 fiorini a saldo dei 25.000 dovuti.
Non si ebbero ulteriori conseguenze per i responsabili della ribellione, che poterono conservare sia il potere locale che l’organizzazione di parte, sempre capitanata da Mercenario. Questi, insieme ad altri signori sia guelfi che ghibellini, non solo mantenne una forte influenza e un proprio dominio sulla città di Fermo (1331-1340), ma consolidò il ruolo di interlocutore privilegiato con il rettore provinciale anche a nome degli altri comuni della lega. Nel 1331 Mercenario divenne di fatto signore di Fermo con il titolo di conservator pacis et populi grazie anche all’atteggiamento conciliante della Curia avignonese, disposta a tollerare persino un’autorità personale, purché non palesemente ostile e sufficientemente forte da placare disordini interni. Nel suo governo, dispotico e violento, fu affiancato da podestà ghibellini, quali Speranza e Conte di Montefeltro, e a lui furono subordinati sia la forza armata che i tradizionali organismi comunali, come il consiglio generale dei Trecento del Popolo, i capitani delle arti e i capitani del popolo.
I buoni rapporti instaurati tra Mercenario e la curia iniziarono a incrinarsi, per poi sfociare in aperta rottura, a partire dal 1335, allorché il pontefice Benedetto XII inoltrò una lettera al signore di Fermo, in cui lo ammoniva di cessare le violenze nello Stato della Marca e, nell’ottobre 1336, ordinò al suo legato Bertrando Senheri di procedere contro di lui. Forse fu proprio l’invio del legato papale, a causare al principio del 1337 un’esplosione di violenza in tutta la regione a partire da Jesi, su impulso delle famiglie ghibelline. Una prova degli avvenuti disordini sono i vari pagamenti per le ambascerie effettuate in loco per conto della curia provinciale: una di queste (17 gennaio 1337) riguardava Mercenario e il comune di Fermo per il fatto di aver aderito alla rivolta promossa da Jesi.
Agli inizi del 1339, inoltre, lo stesso Mercenario venne coinvolto in una serie di processi contro comuni e signorie marchigiane condotti dall’energico rettore Giovanni di Riparia, su incarico di Bendetto XII: tra gli inquisiti, infatti, compare Mercenario per aver indebitamente occupato S. Giusto.
Significativa, al riguardo, fu la dettagliata inchiesta compilata nel 1341 dal rettore Giovanni di Riparia durante il suo viaggio nella regione. Tale indagine, che vedeva coinvolti esponenti del mondo laico ed ecclesiastico della Marca centro-meridionale, presentava un’omogeneità inequivocabile circa l’individuazione delle locali dominazioni signorili: in particolare, da essa risultava che Mercenario e i suoi affiliati (soprattutto Gentile da Mogliano e i Brunforte) avevano tenuto Fermo e i castelli limitrofi con una signoria di fatto almeno dal 1330 o, addirittura, dagli anni Venti. Dall’inchiesta, però, non emergeva un’unica interpretazione relativa alle cause di questo fenomeno: la maggior parte dei testimoni, probabilmente per piaggeria verso la Curia o per adesione alla parte guelfa, ravvisavano nella prepotenza e nell’arroganza dei ghibellini, identificati soprattutto in Mercenario insieme a Lippaccio di Osimo, Lomo Simonetti e Alberghetto Chiavelli, la causa di tutti i mali.
La vita di Mercenario, sposato con una certa Isabella (o Nizabella) e padre di tre figli, Mitarella, Nicola, Rinaldo, ebbe termine con la congiura di Fermo del 20 febbraio 1340 in cui egli, come riporta la Cronaca fermana, trovò la morte.
Le modalità dell’uccisione non sono confermate da fonti documentarie certe: la tradizione riferisce che, mentre stava cavalcando fuori porta S. Francesco con sette cavalieri, fu ucciso da alcuni congiurati usciti dal chiostro del convento di S. Pietro vecchio (poi S. Francesco di Paola); sepolto nudo presso il convento dei frati Minori, non ricevette il compianto di alcuno. Allora il popolo, armatosi, elesse il podestà e i priori per reggere il governo della città. Ciò che è certo è che all’indomani della morte di Mercenario, ritenuto il fulcro dello schieramento signorile della regione, il rettore provinciale Giovanni di Riparia introdusse la parte guelfa a Fermo e ottenne anche da Lomo di Jesi e da Lippaccio di Osimo le loro città. Solo un ventennio dopo si impadronì di Fermo Rinaldo Monteverde, figlio di Mercenario.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Fermo, Archivio Storico Comunale, pergamene nn. 179, 213, 739, 1159, 1214, 1281, 2123, 2129, 2130, 2131, 2133, 2157, 2158, 2164, 2353, 2355; Cronaca fermana di Antonio di Niccolò dall’anno 1176 sino all’anno 1447, in G. De Minicis, Cronache della città di Fermo, Firenze 1870, pp. 3-8, 107, n. 5; M. Tabarrini, Sommario cronologico di carte fermane anteriori al sec. XIV con molti documenti intercalati, ibid., pp. 564-571; J.M. Vidal, Benoit XII (1334-1342), lettres communes, I, Paris 1903, coll. 254-255; C. Argegni, Condottieri, capitani, tribuni, II, Milano 1937, p. 305; F. Bock, I processi di Giovanni XXII contro i ghibellini delle Marche, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il Medio Evo e Archivio muratoniano, 57 (1941), pp. 31 s., 69; A. De Santis, Ascoli nel Trecento, I, Ascoli Piceno 1984, pp. 257, 530; P. Ferranti, Memorie storiche della città di Amandola, Ripatransone 1985, I, p. 96; II, pp. 198 s., 207 s.; V. Licitra, M. di M. e le signorie marchigiane, in Miscellanea di studi marchigiani in onore di Febo Allevi, a cura di G. Paci, Agugliano 1987, pp. 181- 217; D. Pacini, Sulle origini dei signori da Mogliano e di altre famiglie signorili marchigiane, in Atti del XXII Convegno di Studi storici maceratesi, Macerata 1989, pp. 210-212; V. Villani, Signori e comuni nel Medioevo marchigiano. I conti di Buscareto, Ancona 1992, pp. 66, 71-73, 75, 79, 84, 98, 102, 103, 114-117, 127-129, 134, 136, 139.