Mercato e società
sommario: 1. La costruzione sociale del mercato. 2. Il mercato come sistema informativo e regolatore sociale. 3. Il fattore tecnologia. Dal mercato-luogo al cyber-mercato. 4. Mercato e mercati. Globalizzazione e localizzazione. 5. Stato, sovranità e mercato. 6. Mercato del lavoro e stratificazione sociale. a) Sviluppo e declino di settori professionali. b) Variazioni del livello di sicurezza-insicurezza. c) Livelli dei salari nel Nord e nel Sud del mondo. d) Legame tra lavoro, tecnologia e qualificazione. e) Condizioni di lavoro. 7. Globalizzazione dei gruppi di riferimento e migrazioni. □ Bibliografia.
1. La costruzione sociale del mercato
La considerazione dei rapporti tra mercato e società trova tuttora un efficace punto d'avvio nella definizione weberiana di mercato: ‟L'associazione di una pluralità di soggetti che si attua mediante lo scambio sul mercato è l'archetipo di ogni agire sociale razionale. [...] Dal punto di vista sociologico il mercato rappresenta un insieme e una successione di associazioni razionali, ciascuna delle quali è specificamente effimera in quanto si dissolve con la consegna dei beni che sono oggetto dello scambio [...]. Ma il mercanteggiare preparatorio è sempre un agire di comunità, in quanto i due aspiranti allo scambio orientano le loro offerte indistintamente in vista dell'agire di molti altri concorrenti reali o immaginari, e non soltanto di quello della controparte" (v. Weber, 1922; tr. it., p. 619).
In una simile definizione le componenti che fanno apparire il mercato saldamente ‛incorporato' nella società sono varie e richiedono quindi che siano chiariti i processi extra-economici in forza dei quali esso si sviluppa in seno a questa. Nessuna delle componenti in questione, infatti, ha alcunché di naturale. In primo luogo i soggetti che si associano, ovvero entrano temporaneamente in una relazione di scambio, potrebbero ottenere i beni che desiderano per altre vie, diverse da quelle del mercato: autoproduzione, rapina, baratto, dono, furto, distribuzione da parte della comunità, assegnazione da parte di un potere centrale, ecc. Di fatto son proprio queste altre vie a esser state preferite allo scambio, per un lungo tratto di storia, dalla maggioranza delle popolazioni del mondo. In secondo luogo occorre che i soggetti associandi siano motivati durevolmente a rinnovare lo scambio, ovvero trovino in esso un incentivo costante, senza il quale non si realizza alcuna ‟successione di associazioni". Una terza componente è il criterio della razionalità, in forza del quale un soggetto individua nello scambio, anziché in altri mezzi, lo strumento più idoneo per acquisire la maggior quantità possibile di beni rispetto ai valori o agli scopi che lo muovono. Una ulteriore difficoltà è che la razionalità non è una sola: ove il soggetto intenda agire razionalmente solo e soltanto rispetto a un valore, piuttosto che a uno scopo strumentale, il suo orientamento al mercato sarà più debole rispetto a quello che avrebbe nel secondo caso. Ancora, bisogna che circolino liberamente in misura adeguata le informazioni circa il possibile agire presente e futuro sia dei soggetti che l'individuo vorrebbe incontrare per lo scambio (i potenziali acquirenti), sia di quelli che concorrono tra loro dalla stessa parte dello scambio per offrire un dato bene (i potenziali venditori). Infine è necessario che tanto i soggetti orientati allo scambio quanto i beni destinati a tal fine possano muoversi senza vincoli precostituiti di natura sociale o politica.
Affinché si sviluppi un mercato, dunque, i soggetti, esseri umani concreti, debbono essere orientati a concepire lo scambio con chiunque disponga dei beni che essi richiedono come il modo più pratico, ma anche come quello più etico, di procurarsi i beni stessi; debbono essere posti in condizione di incontrare facilmente i soggetti con cui effettuare lo scambio; debbono trovare lo scambio utile, sia pure in minima misura, cioè debbono sentirsi in uno stato migliore con il bene acquisito che non con il bene ceduto; debbono disporre di informazioni sia su ciò che fanno coloro da cui intendono ottenere un certo bene, sia su ciò che fanno o probabilmente faranno coloro che propongono in scambio un bene analogo al loro; non da ultimo, debbono essere in condizione di far circolare liberamente i beni oggetto dello scambio e le informazioni a essi inerenti.
Al fine di realizzare stabilmente questo insieme di condizioni è necessario un lungo e complesso processo di ‛istituzionalizzazione'. Nel lessico sociologico un'istituzione è un complesso di valori, di norme e di atteggiamenti, e più specificamente di disposizioni psichiche dei bisogni, che definisce e regola in modo durevole e indipendente dalla transitoria identità dei singoli i rapporti sociali e i comportamenti reciproci di determinati gruppi di soggetti, la cui attività è volta a conseguire dei fini socialmente rilevanti (v. Gallino, 19932, p. 387). Riferito al caso in esame, il processo così definito comporta che: a) a livello del sistema culturale il mercato sia oggetto di una valutazione morale positiva, sostenuta da una adeguata elaborazione teorica della sua superiorità su altre forme di agire sociale; b) a livello dell'organizzazione sociale si sviluppino rapporti strutturati, ovvero stabili e agevolmente riproducibili in diversi contesti, che facilitino la circolazione e l'incontro di persone, beni e informazioni; c) a livello del sistema psichico i soggetti coinvolti trovino gratificante l'agire razionale rispetto allo scopo piuttosto che altri modi di agire. Tutti e tre i processi, inoltre, debbono risultare in misura adeguata coerenti tra loro.
In forme cangianti a seconda delle epoche e dei paesi, le formazioni economico-sociali che attribuiscono il massimo valore al mercato - vale a dire quella capitalistica imprenditoriale e quella capitalistica oligopolistica - hanno elaborato meccanismi appropriati per intervenire ai tre livelli suddetti dell'organizzazione sociale e plasmarli in modo tale da promuovere la massima espansione del mercato. I soggetti concreti che, con un grado variabile di autocoscienza, provvedono a tale elaborazione sono classi, élites, ceti, strati sociali collocati in differenti posizioni in tutti i sottosistemi fondamentali dell'organizzazione sociale. Entro il sistema politico, la classe dei politici di professione provvede a eliminare le leggi che intralciano lo sviluppo del mercato, a introdurne altre che lo agevolano, a stabilire rapporti internazionali che vadano nello stesso senso. Nel sistema economico, imprenditori, possessori di capitali, dirigenti inventano modelli organizzativi - di impresa industriale e commerciale, di centri di ricerca, di istituti di credito, di assicurazione - atti a produrre e distribuire beni tramite i canali del mercato. Intellettuali, insegnanti ed economisti provvedono entro il sistema socio-culturale a concepire teorie economiche che individuino nel mercato il meccanismo massimamente efficiente per assicurare l'equilibrio tra la produzione e il consumo di risorse, a trasmetterle alle nuove generazioni (in forma scientifica per le classi superiori e in forma via via più divulgativa per le classi inferiori), e a porre in risalto l'innocenza morale del mercato, o almeno il fatto che il suo regolare funzionamento non lede alcuna norma etica - in particolare nessuna norma delle principali religioni. Questi processi culturali formano nel loro complesso l'ideologia del mercato, là dove per ideologia si intende un insieme di idee che hanno fondamenti empirici e anzi scientifici, ma che vengono talora affermate senza tener conto delle condizioni di contorno che delimitano il loro ambito di validità (v. Boudon, 1986).
Il processo di costruzione sociale del mercato ha avuto un lungo e irripetibile decorso storico primario tra il Cinquecento e l'epoca della rivoluzione industriale (1780-1830), in un'area vastissima del globo: un'area molto più ampia di quello che sarebbe poi divenuto l'Occidente industrializzato, giacché includeva, oltre all'Europa e al Nordamerica, larghe zone della Russia zarista, dell'Asia sud-orientale, dell'America Latina. Un processo analogo si è poi andato ripetendo in modo accelerato - e con innumeri variazioni sul tema di fondo della istituzionalizzazione del mercato - ogni qualvolta, in questo o quel paese, formazioni economico-sociali capitalistiche si sono affermate come formazioni dominanti, o lo sono ridiventate dopo un'eclissi più o meno lunga, come è avvenuto nei paesi dell'Europa orientale dopo le ‛rivoluzioni di velluto' susseguitesi a partire dal 1989.
In effetti, né in passato né al presente la costruzione sociale del mercato è mai stata condotta esclusivamente con guanti di velluto, né si è mai concretizzata senza forme anche pesanti di dirigismo economico e politico. All'interno di questo medesimo processo sono infatti distinguibili varie modalità di realizzazione, talora sovrapposte. Paesi divenuti verso la metà del Novecento portabandiera del libero mercato su scala mondiale, come gli Stati Uniti, hanno per generazioni praticato una severa politica di divieti d'importazione e alte tariffe doganali, chiudendo in pratica le proprie frontiere alle merci di altri paesi, al fine precipuo di sviluppare anzitutto il proprio mercato interno. La modernizzazione del Giappone e il suo ingresso sui mercati del mondo, iniziatasi negli ultimi decenni del XIX secolo, è stata guidata dagli zaibatsu, enormi cartelli di imprese capitalistiche che godevano di poteri assoluti sui contadini, sugli operai, sui piccoli imprenditori e sullo stesso governo. Al presente, la costruzione sociale del mercato a livello planetario è orientata, e per certi aspetti imposta, a tutti i livelli (economico, politico, culturale) dalle direttive del gruppo dei sette paesi più industrializzati del mondo (G7), dalle norme del Fondo Monetario Internazionale, dalle azioni della Banca Mondiale e dalle politiche dell'Organizzazione Mondiale per il Commercio.
2. Il mercato come sistema informativo e regolatore sociale
Allo scopo di far giungere a una popolazione i beni di cui essa manifesta il bisogno per la sua sopravvivenza e riproduzione, è necessario collegare una molteplicità di fonti disperse, da cui i beni sono prodotti, a una molteplicità di sbocchi parimenti dispersi, nei quali i beni stessi sono avviati all'uso finale. L'attuazione di tale collegamento comporta la soluzione di un duplice problema: di informazione e di regolazione sociale. I produttori potenziali debbono essere informati circa il tipo e la quantità di beni che sono effettivamente domandati dalla popolazione, i tempi in cui la domanda si distribuisce, il prezzo che i consumatori potenziali sono disposti a sborsare. Questi ultimi, a loro volta, debbono essere informati in ordine al luogo in cui i beni sono disponibili, al momento in cui realmente lo sono, e al loro costo.
Tuttavia, l'acquisizione di tali informazioni da parte sia dei produttori che dei consumatori potenziali non sarebbe di per sé sufficiente per fare incontrare le fonti e gli sbocchi. Bisogna che i due gruppi di soggetti agiscano in modo congruente. Le loro rispettive azioni debbono venir regolate in modo tale che la loro associazione, per usare ancora il termine weberiano, si realizzi in modo appropriato e agevolmente ripetibile. Se qualcuno ordina un bene a un produttore, è necessario che i due si sentano reciprocamente obbligati, il primo ad acquistare il bene quando sarà disponibile, il secondo a consegnarlo nei tempi, al prezzo e con le caratteristiche convenute. Se un settore produttivo presenta un'eccedenza di manodopera, mentre in un altro settore essa è scarsa, bisogna che i lavoratori si spostino rapidamente dal primo al secondo. Ove una fabbrica venga a sapere che si prevede un forte aumento della domanda del bene che essa produce, i suoi dirigenti debbono darsi tempestivamente da fare allo scopo di elaborare piani economici atti a far fronte all'aumento della domanda, acquisendo le risorse necessarie e organizzando la produzione. Nel caso che un identico prodotto sia offerto da più marche a prezzi differenti, i consumatori dovrebbero dar la preferenza alla marca che lo offre al prezzo più basso, così come dovrebbero preferire il prodotto migliore tra quelli offerti a ugual prezzo. E tutte queste azioni dovrebbero verificarsi in piena libertà, senza imposizioni dirette o indirette da parte di agenti di controllo di alcun genere.
È lecito pertanto sostenere che il mercato vada considerato sotto diversi aspetti, nonostante le patologie sociali ed economiche in cui può incorrere, come il meccanismo più efficace ed efficiente che sia mai stato concepito per risolvere sia il problema informativo, sia quello della regolazione sociale. Quando siano liberamente fissati, i prezzi delle risorse - materie prime, semilavorati, prodotti finiti, forza lavoro, capitali, tecnologia - indicano con precisione a tutti i soggetti economici quale di esse è scarsa e quale è abbondante. Le aziende sono così poste in grado di calcolare esattamente sia i tipi e le quantità di beni da produrre, sia il prezzo che dovranno chiedere ai consumatori, tenuto conto del prezzo che hanno pagato o pagheranno per le risorse impiegate nel processo produttivo.
Da parte loro, i consumatori sono messi in condizione di confrontare qualità e prezzo dei prodotti di differenti marche, e pertanto premieranno, comprando il suo prodotto, l'azienda X che lo offre al prezzo P, in luogo del prodotto simile dell'azienda Y che lo propone al prezzo P + 1. Beninteso, nella realtà le cose sono alquanto più complicate, perché vi sono di mezzo il ruolo della pubblicità, le abitudini di consumo, la distanza dai punti di distribuzione e altri fattori che portano a volte il consumatore ad acquistare il prodotto Y anche se è più caro o di qualità inferiore. Ma tutto ciò non inficia il principio generale della funzione dei prezzi liberamente fissati come i migliori indicatori di ciò che, data una certa disponibilità economica e un certo orizzonte di aspettative, a un determinato soggetto conviene o non conviene comprare.
Quanto alla regolazione sociale, se - per toccare un caso macroscopico - nel settore produttivo H un lavoratore guadagna X con orari lunghi e variabili, mentre si sa che il settore K paga X + 1, con orari minori e stabili, i lavoratori tenderanno a lasciare il settore H per affluire verso quello K, senza bisogno di costrizioni dall'alto. Nei paesi dell'Europa occidentale non sono stati i governi, bensì il mercato del lavoro, a far spostare decine di milioni di contadini dall'agricoltura all'industria, nel corso dei rispettivi cicli locali di modernizzazione e di costruzione sociale del mercato. Ma è un errore - hanno sempre sostenuto i teorici liberali del mercato (che non sempre sono liberisti) - limitarsi a scorgere nel mercato un efficace distributore di risorse scarse tra scopi alternativi. Il mercato è anche una istituzione intrinsecamente connessa alle libertà democratiche.
Nel Novecento il maggior teorico del mercato come ordinamento sociale che rende possibile la libertà individuale e il pieno dispiegarsi dei suoi valori è stato il liberale austriaco, economista e filosofo della politica, Friedrich August von Hayek. Il grande merito del mercato risiede a suo parere nel non obbligare una società a darsi un ordine riconosciuto di fini. All'interno di esso ciascuno collabora ‟alla realizzazione degli scopi degli altri, senza condividerli o senza neppure esserne a conoscenza, solamente per poter raggiungere i propri fini" (v. von Hayek, 1982; tr. it., p. 317). Se i membri di una società pretendessero di conoscere i fini di tutti coloro con cui potrebbero intrattenere relazioni di scambio, oppure se dovessero discutere sul valore dei fini altrui alla luce dei valori propri, o ancora se decidessero di collaborare con il prossimo soltanto se condividono o ritengono auspicabili i suoi fini, le soluzioni possibili sarebbero soltanto due: o discussioni interminabili che finirebbero per paralizzare l'organizzazione sociale, oppure uno Stato autoritario che impone a tutti i membri della società, proponendosi come il miglior interprete dei loro veri interessi, un ordine prestabilito di fini. Un effetto secondario di tale imposizione dall'alto sarebbe la produzione di beni controllata dal centro; ma l'effetto primario sarebbe proprio la soppressione della libertà. Storicamente ciò è quanto è avvenuto nel corso del Novecento nei paesi dell'Europa orientale a regime politico totalitario e correlativa economia pianificata: senza che nemmeno riuscissero, non va dimenticato, a produrre i beni necessari per le loro popolazioni.
3. Il fattore tecnologia. Dal mercato-luogo al cyber-mercato
Concepire il mercato come un sistema informativo aiuta a capire per quali ragioni la tecnologia - in particolare, la tecnologia dell'informatica e delle telecomunicazioni - ne abbia rivoluzionato la natura e i meccanismi, sin dagli anni ottanta del Novecento, e con progressione irrefrenabile a partire dagli anni novanta. In origine, il mercato-istituzione coincideva (e tuttora coincide, dove sopravvivono forme di vita tradizionali) con un mercato-luogo concreto, uno spazio chiaramente circoscritto di dimensioni limitate: una piazza, un portico, una fila di botteghe, un bazar. In esso i potenziali venditori - fossero produttori loro stessi, oppure intermediari del produttore, pur se i due distinti ruoli a volte coincidevano nella medesima persona - esponevano la merce e annunciavano il prezzo; i potenziali acquirenti esaminavano personalmente le merci, ne contrattavano il prezzo, si portavano via gli acquisti.
Da sempre la tecnologia ha operato nel senso di allargare lo spazio fisico del mercato, separando e allontanando tra loro - in misura sempre crescente - i produttori, gli intermediari, gli acquirenti e le merci, a mano a mano che moltiplicava ed estendeva i flussi informativi e materiali tra loro intercorrenti. Già nel Seicento, grazie agli sviluppi delle tecniche di navigazione, mercanti veneziani, inglesi, olandesi, portoghesi, sapevano dove trovare e come acquistare stoffe, lane, spezie, preziosi sulle coste dell'Africa, dell'India, del Sudamerica per poi rivenderle in tutta Europa. L'avvento della ferrovia, due secoli dopo, favorì lo sviluppo capillare dei mercati interni; tanto le merci deperibili, che prima si potevano ottenere solamente nei porti, quanto le informazioni relative alla loro disponibilità, potevano ora raggiungere i luoghi più reconditi dei vari continenti.
La realizzazione, nel corso dell'Ottocento, di un sistema postale universale - il maggior sistema informativo a-centrato mai concepito - e, più tardi, la diffusione del telegrafo e del telefono misero a disposizione del mercato canali di comunicazione migliaia di volte più efficienti di quelli tradizionali al fine di stabilire le premesse (il ‟mercanteggiare preparatorio" di cui parla Weber) per l'incontro finale (ovvero la ‟associazione razionale") tra produttori e acquirenti. Al tempo stesso cresceva, ancora grazie alla tecnologia, il ruolo degli intermediari - i mercanti moderni - in uno spazio che vedeva tutti gli attori sul mercato sempre più lontani e dispersi. È la tecnologia, insieme con il sistema di intermediazioni su di essa imperniato, ciò che permette di trovare lo stesso prodotto di marca inglese - il quale però è stato fabbricato in Thailandia ed è distribuito da una ditta italiana - in un negozietto della Bretagna o in un supermercato di Helsinki. Di fatto, col supporto della tecnologia, il mercato-mondo è una realtà - come ci ricordano gli studi di Fernand Braudel e di Immanuel Wallerstein - in sviluppo da almeno quattro secoli.
Le tecnologie dell'informazione e della comunicazione diffusesi negli ultimi decenni del XX secolo, che per brevità sono spesso designate come tecnologie ‛infocom', hanno tuttavia introdotto nel mercato-mondo trasformazioni qualitative senza precedenti. In più d'un senso esse hanno ‛annullato' lo spazio, in quanto hanno drasticamente ridotto i costi della distanza tra gli operatori (un ampio rapporto dell' ‟Economist" sulle telecomunicazioni apparso nell'autunno del 1995 annunciava addirittura la ‟morte della distanza"). Centinaia di migliaia di reti di trasmissione-dati interconnesse dinamicamente tra loro mediante appositi ‛computers servitori' (l'acronimo di Internet, la madre di tutte le reti, è appunto una contrazione di Interconnected network) ricoprono ormai tutto il pianeta. Il fatto che la loro densità sia cento volte superiore nell'emisfero Nord rispetto a quello Sud riflette fedelmente l'ampiezza dei rispettivi mercati. Per loro mezzo, la trasmissione di informazioni anche lunghe e complesse, relative a qualsiasi tipo di bene - sia esso un prodotto oppure un servizio -, avviene in una frazione di secondo, indipendentemente dalla distanza tra mittente e destinatario. Parimenti istantaneo è il flusso in direzione inversa dei fondi, diventati moneta elettronica, con cui il bene viene pagato dall'acquirente. Nella maggior parte dei casi, all'uno e all'altro, venditore o acquirente, lo scambio sarà costato più o meno un quarto di dollaro, ossia quanto il primo scatto di una telefonata urbana. Ma lo sviluppo del mercato elettronico, o cyber-mercato, annullando le distanze, produce anche molti altri effetti.
1) Se l'oggetto dello scambio è un prodotto o un servizio suscettibile di venire utilizzato o comunque convertito in forma digitale, ovvero numerica, sarà l'oggetto stesso a venire trasmesso da un punto all'altro del mondo, non solo le informazioni e i capitali a esso attinenti. Il numero e la tipologia dei prodotti e dei servizi convertibili (e quindi trasmissibili in forma numerica) cresce ogni giorno. È così possibile che un intero servizio pubblicitario composto da filmati, fotografie, grafici, cartoni, musica, voce e testi sia prodotto in parte a Praga, in parte a Milano e in parte a Stoccolma, dove viene montato e trasmesso a un committente di Londra che se ne servirà per una campagna promozionale negli Stati Uniti, al quale scopo egli ne spedisce entro un'ora decine di copie alle reti televisive locali. Né il committente, né i produttori si sono mai incontrati di persona e non hanno alcun interesse a farlo. Per prodotti come il software e servizi come la manutenzione informatica, l'elaborazione di dati contabili di grandi enti pubblici e privati, la gestione di sistemi di prenotazione di aerei e alberghi, il trattamento dei dati originati dall'impiego di carte di credito in centinaia di paesi diversi, la dissoluzione dello spazio è già avvenuta.
2) Anche se l'oggetto dello scambio è un bene materiale che non è direttamente utilizzabile in forma numerica - ad esempio, il complicato ingranaggio elicoidale d'una pompa in una centrale termoelettrica - in molti casi la strada elettronica è di gran lunga la più conveniente. Nell'esempio proposto, il dirigente della centrale acquista il programma che contiene in forma digitale il disegno del pezzo, se lo fa trasmettere per via elettronica e poi se lo fabbrica in casa, piuttosto che inviare un fax a un magazzino lontano cinquemila chilometri dove il fornitore deve verificare se possiede il pezzo, imballarlo, spedirlo via terra o via aria alla città più vicina alla centrale, dove occorre mandare qualcuno a prenderlo, ecc. In realtà il dirigente non acquista un ingranaggio; acquista i bit che, inseriti in una macchina a controllo numerico, riproducono con assoluta fedeltà una nuova copia dell'ingranaggio. La differenza è che tanto la richiesta del disegno digitalizzato quanto l'arrivo di questo richiedono pochi minuti, e il guasto viene eliminato entro poche ore - il tempo per la macchina a controllo numerico di fabbricare il nuovo pezzo.
3) Anche il denaro diventa null'altro che una serie di bit nella memoria di un computer, trasferibile da un punto all'altro del globo alla velocità della luce: ciò imprime una forte spinta allo sviluppo di un mercato elettronico dei capitali, del tutto svincolato dallo scambio di prodotti o servizi reali. Le tecnologie infocom rendono possibile acquistare un milione di dollari a Chicago e rivenderlo a Francoforte, il tutto in pochi secondi, realizzando un profitto magari piccolo, pari a una frazione di punto percentuale. Ma ripetendo operazioni simili più volte al giorno con altre monete e su altre piazze, il cyber-mercato dei capitali permette a migliaia di abili operatori di conseguire quasi ogni giorno profitti di alcuni punti percentuali, che nell'insieme ammontano ad alcune decine di punti al mese. Ciò contribuisce a spiegare perché già a metà degli anni novanta il movimento giornaliero dei capitali si aggirasse complessivamente, nel mondo, intorno a più di 1.000 miliardi di dollari (corrispondenti, nel 1997, a oltre un milione e settecentomila miliardi di lire); secondo le stime correnti, solo una quota compresa tra un decimo e un centesimo di tale cifra si riferiva a scambi dell'economia reale, ossia al pagamento di prodotti e servizi.
4) L'estrema facilità di registrare, trasmettere, elaborare informazioni mediante le tecnologie infocom ha rovesciato in molti settori di attività i rapporti tra produzione e acquisto. Un tempo il produttore del bene X, dovendo pianificare la produzione per i mesi successivi, esaminava i resoconti delle vendite dei modelli A, B e C, si informava sulle giacenze di magazzino, consultava i suoi agenti nazionali e stranieri. Da ultimo traeva le conseguenze e decideva, diciamo, di aumentare la produzione di A, diminuire la produzione di B e interrompere la produzione di C - sperando di non trovarsi con una montagna di invenduto, oppure con una di ordini che non avrebbe potuto soddisfare. Oggi l'ordine di un cliente viene registrato immediatamente su computer, e trasmesso al più tardi a fine giornata, in forma digitale, ai reparti di produzione, ovunque nel mondo siano collocati. Il computer centrale di tali reparti cumula gli ordini, li verifica, e trasmette esso stesso alle linee di produzione l'ordine di fabbricare l'esatta combinazione di unità di A, B e C corrispondente agli ordini ricevuti. È possibile che già il giorno successivo la combinazione di A, B e C da fabbricare debba essere molto diversa, in relazione ai nuovi ordini inviati dagli agenti. Di fatto, nel cyber-mercato, non è più il produttore che fabbrica una certa quantità di merce in attesa del cliente, contando sulla affidabilità dei propri calcoli previsionali: è il cliente a ordinare al produttore che cosa deve precisamente fabbricare. Da parte sua quest'ultimo si sforza in ogni modo di evitare di fabbricare anche una sola unità di prodotto che non gli sia stato ordinato. Le conseguenze di questo rovesciamento dei rapporti tra produzione e acquisto sull'organizzazione sociale in genere, e sul mercato del lavoro in particolare, sono rilevantissime.
5) Il cyber-mercato è un sistema informativo che opera ad altissima velocità e densità di messaggi, e a elevata frequenza di registrazioni durevoli. Un istante dopo essere state diffuse da Rio o da Londra, le medesime informazioni circa le quotazioni del caffè o del franco svizzero compaiono simultaneamente sullo schermo dei computers di Sidney, di Miami e di Monaco di Baviera. Parimenti rapida deve essere la reazione degli operatori che sulla base di tali informazioni intendono trarre un profitto, o evitare perdite. Di fatto gli operatori che nelle istituzioni finanziarie si occupano di transazioni computerizzate sono spesso obbligati a decidere in quale altra piazza trasferire alcuni milioni di dollari, avendo a disposizione non più di qualche minuto - un lavoro in tempo reale estremamente stressante.
La densità dei messaggi procura altri problemi all'utente. Se si interroga il sito appropriato di Internet per sapere quali siano le aziende che fabbricano un prodotto analogo, al fine di comparare prezzo e prestazioni delle diverse marche, può accadere che l'elenco delle medesime ne comprenda quattro o cinquemila. Effettuare a vista il confronto desiderato tra le marche è quindi reso impossibile dal sovraccarico di informazioni. Effettuarlo con mezzi elettronici, scaricando sul proprio computer l'elenco in parola per selezionare gli elementi interessanti mediante un programma apposito è una via più rapida, che tuttavia richiede competenze, risorse umane, adeguati mezzi hardware e software. Sul cyber-mercato, le difficoltà di trovare rapidamente l'informazione voluta continueranno sicuramente ad aumentare, a mano a mano che si diffonderanno le attuali e future tecniche di compressione dei dati e i canali di trasmissione dati a banda larga, via etere o via cavo, grazie ai quali è possibile trasmettere in ‛un secondo' un archivio di migliaia di pagine da un punto all'altro del globo. Si stanno tuttavia sviluppando nuovi tipi di programmi ricompresi sotto il nome generico di webcasting, i quali - su richiesta dell'utente - selezionano preventivamente le varie classi di informazioni e fanno arrivare sullo schermo del computer o del televisore quelle più gradite.
Una terza caratteristica del cyber-mercato, di grande rilevanza sociale e politica oltre che economica, è il fatto che in pratica tutte le transazioni che avvengono in esso lasciano una traccia specifica nella memoria di qualche elaboratore, molto spesso all'insaputa sia del mittente che del destinatario. Tali tracce hanno di per sé una precisa utilità per determinati tipi di operatore, sia esso un fornitore di manufatti o servizi, il fisco, oppure un'azienda della concorrenza. Se poi una certa classe di informazioni viene collegata a un'altra (il cosiddetto ‛incrocio di archivi'), com'è possibile fare con mezzi tecnologici divenuti al presente affatto ordinari, l'utilità di entrambe cresce a dismisura. Tra le tracce elettroniche più ricercate vi sono quelle lasciate dalle carte di credito. Infatti, elaborando tali tracce, si riescono a ricostruire efficacemente molte componenti della vita di un individuo: il suo reddito; un profilo analitico delle sue abitudini di consumo; i suoi movimenti nazionali e internazionali; perfino le sue letture, se con la carta di credito ha pagato libri o abbonamenti a riviste e giornali. Simili informazioni sono suscettibili di venir utilizzate a fini economici più o meno corretti, come far oggetto di interventi pubblicitari mirati gli individui o le famiglie aventi un certo profilo di consumo. Ma sono altresì atte a venire utilizzate come strumenti di intrusione nella privacy, e addirittura come mezzi di controllo politico qualora cadano nelle mani della polizia di uno Stato non democratico. Al fine di difendere i cittadini da tali intrusioni sono state costituite in vari paesi (in Italia nel 1997) apposite autorità.
Le suddette caratteristiche del cyber-mercato - velocità, densità informativa, onnipresenza di tracce registrate con mezzi elettronici - hanno sollecitato la creazione di nuovi mercati specifici e figure professionali: software intelligente, quale il già ricordato webcasting in campo economico, che cerca l'informazione desiderata scartando tutto il resto; documentalisti con speciali competenze per le ricerche in rete; operatori specializzati nelle transazioni commerciali o finanziarie al computer; banche-dati d'ogni genere contenenti i risultati della elaborazione selettiva di miliardi di tracce elettroniche. In forte sviluppo è anche il mercato dei sistemi di crittografia (ovvero di codificazione dei dati) intesi a evitare le intrusioni di terzi in canali, reti, memorie, banche-dati sia di privati, sia, soprattutto, di imprese e di enti della pubblica amministrazione.
Né va ignorato il mercato della criminalità informatica, la quale mira precisamente, al fine di trarre illeciti guadagni dal loro commercio, a impossessarsi abusivamente delle informazioni che i sistemi di crittografia vorrebbero proteggere.
4. Mercato e mercati. Globalizzazione e localizzazione
Il mercato, che da un punto di vista analitico è una istituzione che attraversa tutti i sottosistemi sociali e tutti gli individui che ne fanno parte, in concreto si presenta come uno spazio sociale di rapporti di scambio che varia essenzialmente lungo quattro dimensioni: a) la quantità di individui che vi sono coinvolti; b) l'ampiezza del territorio da questi occupato; c) la quantità di merci scambiata; d) la tipologia delle merci. Tale spazio è dunque atto a essere rappresentato da quattro vettori ortogonali: più ciascun vettore è lungo, maggiore è lo spazio complessivo occupato dal mercato.
Nondimeno l'interno di tale spazio non ha una struttura omogenea. Si tratta, al contrario, di una struttura affatto eterogenea, fatta di pieni e di vuoti, chiamati propriamente ‛nicchie', ciascuna delle quali corrisponde a un particolare mercato. Una nicchia è piena quando qualcuno produce il tipo e la quantità di merci che una proporzionale quantità di individui è disposta ad acquistare. Si dice invece che essa è vuota se ci sono individui disposti ad acquistare un certo bene - che, si noti, potrebbe non esistere ancora - ma non si vede chi lo produca. Il mercato come istituzione sociale è unico; ma entro di esso si formano di continuo, scompaiono e si ricostituiscono innumerevoli mercati.
La sociologia del mercato mira a porre in luce i fattori e le condizioni sociali e culturali che fanno sì che un dato oggetto o processo entri a un certo momento nello spazio del mercato, ossia diventi in senso proprio una merce, oppure ne esca; e, insieme con essi, le conseguenze sociali che da ciò derivano. Durante il Medioevo la dottrina cristiana, definendo come peccato l'interesse sul prestito, impedì a lungo che il denaro fosse trattato come una merce; furono i banchieri toscani e poi del Nordeuropa a far entrare definitivamente il denaro nello spazio del mercato. Per secoli la terra non fu una merce, se non in particolari luoghi e condizioni; lo diventò in modo generalizzato solamente con il crollo dell'ancien régime, ovvero con la caduta della classe sociale che vedeva nel libero mercato dei terreni un pericolo per la propria posizione sociale. Il lavoro comincia a essere trasformato in una merce durante la rivoluzione industriale in Inghilterra, verso la fine del Settecento, e continua a esserlo dovunque nel mondo si affermi il modello tecnico e organizzativo dell'impresa moderna (v. Polanyi, 1944).
L'ingresso nel mercato del denaro, della terra e del lavoro sono stati tra il XVI e il XIX secolo fenomeni sociali sconvolgenti, quelli che con maggiore radicalità hanno caratterizzato la transizione tra età della tradizione ed età moderna. Classi sociali che comprendevano due terzi della popolazione (v. cap. 6) sono state ridotte dal mercato a percentuali esigue, come la classe contadina; altre si sono formate ex novo e si sono imposte sulla scena storica, come la classe operaia. Le città, quali centri in cui chiunque ha la possibilità, o crede d'averla, di trovare un mercato per qualsiasi cosa, si sono ingigantite in tutti i paesi, sino a raggiungere, nei paesi emergenti, le dimensioni di vere e proprie megalopoli di 20 milioni e più di abitanti (San Paolo, Città di Messico). La struttura demografica, affettiva e politica della famiglia è stata trasformata alle radici dal mercato dei terreni e delle abitazioni non meno che dal mercato del lavoro.
Per tutto il corso del secolo, ma con una forte accelerazione nella sua seconda metà, lo spazio materiale e immateriale del mercato non ha fatto che espandersi, lungo tutte le sue dimensioni. In esso sono entrati via via, oltre a migliaia di nuovi prodotti manifatturieri e di servizi economici, le opere d'arte e l'educazione, i divertimenti e le informazioni (sussunti dalla Scuola di Francoforte nella nota dizione di ‛industria culturale': v., in proposito, Horkheimer e Adorno, 1947); la salute e la vecchiaia, la previdenza sociale e i servizi collettivi, fino a giungere, in epoca recente, al genoma brevettato di piante e di animali e, almeno in alcuni paesi, agli organi umani destinati ai trapianti.
Col termine di ‛globalizzazione' ci si riferisce al fatto che negli ultimi decenni del Novecento lo spazio del mercato sembra aver raggiunto i confini demografici e territoriali del mondo (onde il sinonimo, preferito dagli studiosi francesi, di ‛mondializzazione'). Sull'opportunità di ricorrere a codesto termine inedito per designare la circostanza non peregrina che il globo è diventato globale si discute da tempo; ciò nondimeno, il neologismo appare giustificato. È vero, come si è già ricordato, che il mercato-mondo è in sviluppo da almeno quattro secoli; tuttavia, sino quasi alla metà del Novecento, in quattro continenti su cinque (più esattamente in tre continenti e mezzo: l'Africa, l'Oceania, l'Asia e il Sudamerica) il mercato-mondo abbracciava poco più delle zone costiere. Per l'esistenza di amplissime popolazioni esso continuava ad avere un rilievo insignificante. Invece verso la fine del secolo non resta alcun angolo di alcun continente, alcun gruppo umano o popolazione, le cui condizioni di vita non subiscano direttamente o indirettamente, per il meglio o per il peggio, l'influenza del mercato mondiale (v. Engelhard, 1996).
Si deve d'altra parte osservare che l'enfasi correttamente posta su tale concetto dalle scienze sociali e dai media ha lasciato spesso in ombra sia il concomitante procedere di fenomeni marcatissimi di ‛localizzazione', sia l'ambivalenza dei due termini. In realtà globalizzazione e localizzazione vanno viste come facce opposte e complementari d'uno stesso fenomeno - a condizione di precisarne il significato reciproco. Occorre pertanto distinguere tra i due ambiti semantici.
1) Si assume che ‛globalizzazione' significhi che ciascun attore economico, sia esso collettivo o individuale - cioè impresa o lavoratore -, è in competizione con qualunque altro attore che offra sul mercato-mondo una merce o una forza lavoro dello stesso tipo. Con ciò si vuol dire che se l'impresa X o il lavoratore Y stanno a Tolosa o a Dublino, mentre un'impresa o un lavoratore di stanza a Giacarta offrono al mondo, a un prezzo minore, lo stesso bene o l'analoga forza lavoro, X e Y non riusciranno a vendere le loro merci o il loro lavoro nemmeno nei dintorni di Tolosa e di Dublino. In questo caso il termine simmetrico ‛localizzazione' significa che per competere globalmente è necessario riuscire a soddisfare la domanda di nicchie locali di mercato sempre più numerose, differenziate e specializzate.
In questa luce i tempi in cui un'azienda industriale produceva un milione di pezzi tutti uguali che vendeva come tali in tutto il mondo sono finiti. Se vuole arrivare a vendere un milione di pezzi, che potrebbero essere il minimo per sopravvivere, quell'azienda deve produrre tante varietà di quel prodotto quante ne occorrono per soddisfare la domanda di N piccoli mercati differenti in M regioni del pianeta (N essendo di norma maggiore di M, poiché ogni regione può includere più mercati). Le attuali tecnologie flessibili di produzione, unite a modelli organizzativi come la ‛produzione snella', rendono ciò possibile. Un altro mezzo per conseguire lo stesso risultato è la localizzazione di unità produttive di dimensioni ridotte in siti il più vicino possibile ai diversi mercati.
In ogni caso la differenziazione e la specializzazione dei mercati accrescono l'intensità della competizione tra imprese. Un solo caso: si stima che la IBM, il gigante dell'informatica, avesse 2.500 concorrenti negli anni sessanta; verso la metà degli anni novanta essi erano saliti, sui suoi diversi mercati, a circa 50.000.
2) Si assume che globalizzazione abbia il significato di ‛universalismo del mercato', vale a dire diffusione - in ognuno dei campi in cui si può suddividere l'organizzazione sociale - della cultura, dei comportamenti e delle disposizioni del bisogno coerenti con la massima espansione del mercato lungo tutte le sue dimensioni. In questa accezione, ‛localizzazione' si riferisce allora al recupero o alla difesa delle tradizioni locali, ossia a un movimento di opposizione - che può essere al tempo stesso sociale, culturale e politico - nei confronti dell'espansione mondializzante del mercato. Secondo questa prospettiva il mercato rappresenta un'istituzione, una modalità di relazione, che in questa prospettiva si ritiene, o semplicemente ‛si sente', possa emarginare le culture nazionali e regionali o addirittura minacciarne l'esistenza. Anche di questi ‛fili' è intrecciata la stoffa di molti fondamentalismi, nazionalismi regionali, conflitti etnici che caratterizzano gli ultimi decenni del Novecento.
Gli effetti dell'espansione priva di regole del mercato e dei mercati sono da vedersi principalmente nel fatto che gli individui, le imprese e financo i tratti culturali che entrano nella logica del mercato si trovano a dover competere duramente gli uni con gli altri allo scopo di sopravvivere, siano o no attrezzati per farlo. Chi non è attrezzato soccombe e - precisano i teorici del mercato totalmente deregolamentato - è bene che sia così. La comprensione di questo fenomeno, la valutazione dei suoi costi sociali attuali e potenziali, nonché l'articolazione di strategie internazionali volte a ridurli, richiedono una definizione rigorosa del concetto di ‛competitività'.
Qualche cifra sarà utile per introdurre tale definizione. Secondo uno studio dell'Istituto dell'Economia tedesco (ente sostenuto dall'Associazione industriali di quel paese), nel 1994 il costo del lavoro (oneri sociali inclusi) nell'industria manifatturiera della Germania occidentale ammontava a 44 marchi l'ora. Nel medesimo anno esso era di 36 marchi in Giappone, 3,5 marchi in Polonia, e 1 marco in Indonesia. Se si ragiona con un concetto superficiale di competitività, da tali cifre non si può non dedurre che per rimanere competitiva - fermi restando altri fattori di costo - l'industria manifatturiera tedesca aveva dinanzi a sé esclusivamente quattro strade (non essendo comunque esclusa la possibilità di combinarle tra loro): a) ridurre drasticamente il costo orario del lavoro; b) aumentare la produttività di 1,2 volte rispetto all'industria manifatturiera giapponese, 12,6 volte rispetto a quella polacca, e 44 volte rispetto a quella indonesiana; c) fabbricare prodotti con un contenuto tecnologico talmente alto da compensare, sui tanti mercati locali, le differenze di prezzo dovute al costo del lavoro; d) trasferire i propri stabilimenti nei paesi dove il costo del lavoro era notevolmente più basso, a cominciare dai vicini paesi dell'Europa orientale, dal Galles, dall'Irlanda, fino agli Stati meridionali degli Stati Uniti.
La prima strada era impraticabile, per ragioni politiche e per l'opposizione sindacale. La seconda era improponibile: nessuna industria al mondo può pensare di recuperare simili differenziali di produttività. La terza stava diventando impervia, giacché anche le industrie dei paesi emergenti sono ormai in grado di fabbricare prodotti a elevato contenuto tecnologico. L'ovvia conseguenza è stata che nel corso del 1995 l'industria manifatturiera tedesca, al fine di restare competitiva, ha cominciato a percorrere decisamente la quarta strada, investendo all'estero - perfino negli Stati Uniti - decine di miliardi di marchi.
La concezione della competitività soggiacente a una simile equazione trascura, a ben guardare, alcuni non irrilevanti elementi di comparazione, quali: i lavoratori tedeschi stanno in fabbrica 1.600 ore l'anno, quelli giapponesi circa 2.000 e quelli indonesiani fino a 3.000; il sistema di protezione sociale (assistenza, previdenza, ammortizzatori sociali, ecc.) è molto sviluppato in Germania, mediamente sviluppato in Giappone e in Polonia, inesistente in Indonesia; il lavoro minorile e infantile non esiste in Germania e in Giappone, è poco diffuso in Polonia, ma è diffusissimo in Indonesia; le leggi a tutela dell'ambiente sono severissime in Germania, severe in Giappone, inesistenti o inapplicate in Polonia e in Indonesia; e così via.
Solamente se si introducono tali elementi nella comparazione tra economie e settori produttivi il concetto di competitività risulta, oltre che scientificamente fondato, efficace nel guidare sia le politiche di impresa, sia le politiche sociali. A ciò si aggiunga la stipulazione di accordi internazionali, quali la ‛clausola sociale' proposta anni fa dal Bureau International du Travail, e in qualche misura recepita anche da un articolo del Trattato di Maastricht, intesa a ridurre il divario esistente tra il Nord e il Sud del mondo quanto a condizioni di lavoro e legislazione sociale e ambientale. Accordi o clausole di questo tipo non sono di per sé lesivi dell'una o dell'altra dimensione del mercato. Può anzi dirsi che in quanto tendono a elevare i salari del Sud al di sopra del livello di povertà e a portare le condizioni di lavoro a un livello appena decente, essi contribuiscono a espandere nel Sud i mercati dei prodotti del Nord; infatti essi tendono precipuamente a porre un limite alla autonormatività del mercato, che lasciata a se stessa rischia di far crescere in numerose regioni del mondo varie forme di ri-localizzazione, o localismo, a esso fortemente ostili. Anche su questo punto il liberale Max Weber aveva visto lontano: ‟Dove il mercato è abbandonato alla sua autonormatività esso conosce soltanto una dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità originarie siano portatrici" (v. Weber, 1922; tr. it., p. 620). Le comunità originarie che si scoprono ferite sono capaci di reazioni - come mostra la drammatica storia di fine secolo - da cui il mercato dovrebbe forse guardarsi.
5. Stato, sovranità e mercato
Lo Stato è un attore del massimo rilievo nella creazione del mercato, come può esserlo nella sua limitazione o distruzione. Come sappiamo, il mercato presuppone la libertà di parola, di movimento e di associazione. In quanto promuove o reprime queste libertà fondamentali, lo Stato facilita od ostacola lo sviluppo del mercato. È vero anche l'inverso: se uno Stato si impegna per ragioni ideologiche a limitare o distruggere il mercato, come hanno fatto gli Stati del socialismo reale tra gli anni venti e gli anni ottanta del Novecento, è di necessità portato a reprimere anche le suddette libertà.
Peraltro lo Stato dispone anche di vie più specifiche per influire su dimensioni, dinamica, configurazione del mercato: a) riducendo oppure elevando in modo selettivo le tariffe doganali di differenti merci, lo Stato espone l'economia nazionale, o settori più o meno ampi di essa, alla competizione con economie straniere, oppure la protegge dalla medesima. ‛Liberismo' e ‛protezionismo' sono i termini con cui vengono solitamente designati, sin dal secolo scorso, queste opposte politiche (le quali, va ricordato, sono talvolta praticate dal medesimo Stato). Tra i casi più conosciuti a questo riguardo v'è quello del Giappone, la cui straordinaria crescita economica nel cinquantennio seguito alla sconfitta del 1945 è dovuta equamente all'abilità con cui ha saputo sfruttare il liberismo dei paesi occidentali e alla fermezza con cui ha protetto i propri mercati interni dalle loro merci. Si noterà ad esempio che negli anni novanta risultavano venduti annualmente negli Stati Uniti circa tre milioni di veicoli giapponesi, in parte importati, in parte fabbricati direttamente su suolo americano nei transplants (letteralmente officine ‛trapiantate'); per contro, il numero delle auto americane di cui nello stesso periodo era consentita l'importazione annua in Giappone era di circa 20.000; b) stipulando appositi trattati con altri paesi, uno Stato concorre a creare mercati transnazionali molto più grandi di quello nazionale. L'immenso mercato dell'Unione Europea, che già nel 1995 aveva 15 paesi membri con 350 milioni di abitanti, è forse il caso più noto di mercato transnazionale costruito metodicamente nell'arco di alcuni decenni per mezzo di clausole contrattuali interstatuali, progressivamente estese sino a rendere lo spazio economico esterno dei contraenti quasi altrettanto aperto di quello interno; c) decidendo di assumere in proprio, mediante aziende pubbliche o a partecipazione statale, la produzione di beni privati o collettivi suscettibili di venire altrimenti prodotti da aziende private, e accollandosi, per finalità sociali o per calcolo politico, l'onere di eventuali perdite di gestione di dette aziende, lo Stato è in grado di sottrarre ai meccanismi del mercato settori più o meno ampi di attività economica. Si noti che tali scelte di politica economica non vanno necessariamente insieme. La produzione di un dato bene risulta sottratta al mercato solamente quando lo Stato le adotta entrambe. In molti paesi vi sono infatti, con prevalenza del settore industriale, aziende pubbliche o a partecipazione statale che operano pienamente in condizioni di mercato. D'altra parte, ove lo Stato decida di produrre in proprio la maggior parte dei beni privati e pubblici, il mercato finisce per scomparire.
Lo Stato non si impegna a costruire il mercato solamente per scopi economici. È possibile che il mercato stesso venga promosso e adoperato per raggiungere finalità politiche. La costruzione del mercato europeo sopra richiamata è stata perseguita, oltre che per gli intrinseci vantaggi economici che i paesi fondatori della Unione Europea si attendevano, anche - e secondo taluni dei suoi teorici in misura preminente - allo scopo di eliminare per sempre il rischio di conflitti intereuropei; di evitare l'isolamento politico del paese più potente sul piano economico (la Germania); e infine di formare strutture decisionali che ponessero l'Europa, nel caso di crisi politiche o militari ai suoi confini, in condizione di agire come un soggetto unitario.
Per quanto al presente rimanga vero quanto testé asserito circa il potere dello Stato nel costruire e configurare il mercato e i mercati, occorre ciò nondimeno sottolineare che un insieme di processi affermatisi negli anni ottanta e novanta del Novecento ha profondamente trasformato i rapporti tra Stato e mercato. La globalizzazione dell'economia; la deregolamentazione quasi totale dei movimenti di capitali; lo spropositato predominio degli scambi esclusivamente finanziari (nei quali si scambiano monete contro monete, oppure monete contro titoli, obbligazioni, azioni, futures, ecc.) sugli scambi dell'economia reale (denaro contro prodotti o servizi); l'avvento delle nuove tecnologie dell'informazione e della telecomunicazione, e non da ultimo il radicale ridisegno (o re-engineering) delle imprese, hanno reso fluidi, obiettivamente non identificabili, e perciò di fatto incontrollabili, i confini delle rispettive economie nazionali (v. Martin e Schumann, 1996).
Per effetto di tali processi che in varia misura si intrecciano e si potenziano a vicenda, la sovranità degli Stati in tema di economia, che fin dalle origini è sempre stata collegata intrinsecamente alla realtà di una frontiera - un confine fisico aperto quanto si vuole ma tangibile quanto basta da consentire di valutare e regolare i flussi in entrata e in uscita d'ogni tipo di risorsa (prodotti, materie prime, persone, conoscenze tecniche, capitali, ecc.) -, ha subito in diversi campi una drastica diminuzione. Al momento attuale nessuno Stato è più in grado di controllare gli scambi di moneta elettronica che ammontano quotidianamente a tre o quattro volte le riserve di tutte le banche centrali dei sette paesi più industrializzati del mondo (i G7): si tratta infatti di circa 1.000 miliardi di dollari di transazioni al giorno contro un totale di 250-300 miliardi di dollari di riserve nel 1995.
Inoltre, nessuno Stato ha più il potere di intervenire con reale efficacia nel promuovere od ostacolare molti tipi di importazione o di esportazione, tra i quali sono numerosi quelli ad alto valore aggiunto; in effetti, in presenza del cyber-mercato le nozioni stesse di importazione e di esportazione hanno perduto in gran parte il loro significato. Ammettiamo pure che nel paese A lo Stato conservi la capacità formale di vietare l'importazione del prodotto X dal paese B. Tuttavia, se il mercato di A lo richiede, il produttore di quel bene costruirà - probabilmente con l'aiuto stesso dello Stato che ha ogni interesse a favorire l'occupazione - uno stabilimento capace di produrre nel paese A il bene X, oppure il bene Y che ha un mercato analogo a X. In tal modo i relativi profitti diretti e indiretti, come quelli derivanti dalle economie di scala, andranno ugualmente alla società capogruppo sita nel paese B, che per mezzo delle tecnologie infocom è in grado di controllare quasi momento per momento l'attività dello stabilimento trapiantato in A.
Questo è quanto avviene su larga scala nel settore della produzione automobilistica. Negli Stati Uniti, una quota rilevante di autoveicoli di marche americane viene prodotta da stabilimenti che sono sotto il controllo di società giapponesi. E stabilimenti giapponesi producono in Gran Bretagna milioni di auto che entrano nel mercato europeo, dove l'importazione diretta di automobili dal Giappone è severamente limitata, come se fossero auto fabbricate da marche europee. Si può ancora aggiungere - per toccare un altro caso rilevante per la sovranità (economica e non) dello Stato - che qualsiasi Stato è attualmente impotente nel seguire, a fini di imposizione fiscale, il ciclo di vita di un prodotto o di un servizio che è concepito nel paese A; tale prodotto o servizio viene infatti elaborato da un gruppo internazionale di progettazione disperso in altri cinque o sei paesi, viene quindi costruito, componente per componente, in dieci paesi differenti dai primi, assemblato in paesi ancora diversi, ed è infine lanciato sul mercato mondiale.
I rapporti tra sistema economico e sistema politico, di cui lo Stato è la massima espressione, sono intricati. Quel che avviene in un sistema non si riflette meccanicamente sull'altro. Ciò nonostante non pare azzardato affermare che se uno Stato ha perso in larga misura il potere di governare l'economia, anche la sua sovranità politica risulterà fortemente sminuita. V'è quindi da attendersi che il mercato e i mercati oggi configurati come reti senza confini - anzi, come ‛reti di reti', a geometria perennemente variabile - prima o poi solleciteranno per reazione e necessità di reciproci adattamenti, nel corso del XXI secolo, lo sviluppo di una nuova configurazione dello Stato.
6. Mercato del lavoro e stratificazione sociale
Da quando, nel corso della rivoluzione industriale, si è affermato il principio che la forza lavoro è una merce come le altre, il mercato, sia nella sua forma generica, sia nella forma specifica di mercato del lavoro, ha condizionato in tutti i paesi il profilo e la struttura della stratificazione sociale. Più precisamente, ha influito sulla tipologia, la composizione, il numero degli strati e delle classi sociali, nonché sulle relazioni tra di esse e sullo spazio d'azione di ciascuna.
I rapporti tra mercato del lavoro, strati e classi sociali passano attraverso una serie di canali, quali lo sviluppo (e alternativamente il declino) di settori professionali, le variazioni del livello di sicurezza-insicurezza del lavoro, i livelli dei salari nel Nord e nel Sud del mondo, il legame tra lavoro, tecnologia e organizzazione dell'impresa, condizioni di lavoro. La globalizzazione dell'economia nello scorcio del XX secolo ha reso marcatamente più turbolenti tutti questi canali, e li ha sostanzialmente allargati, ove si consideri che meno del 10% della manodopera del pianeta, si stima, resta ormai fuori dal flusso economico dominante.
a) Sviluppo e declino di settori professionali
Il declino complessivo della classe contadina e la crescita della classe operaia nel Nord del mondo sono casi storici specialmente evidenti, poiché si è trattato di intere classi sociali di grandi dimensioni foggiate quasi dal nulla ed entrate prepotentemente nel mercato del lavoro, o, all'inverso, quasi sparite da esso. Su scala minore, esistono innumerevoli altri esempi. L'eccezionale sviluppo del mercato dell'informatica ‛personale' negli anni ottanta e novanta ha generato in molti paesi, inclusi alcuni emergenti come l'India o la Cina, una nuova, ampia classe di tecnici, composta da milioni di individui, con numerosi strati di specialisti al suo interno. Durante lo stesso periodo il mercato dell'intrattenimento ha infoltito, verso l'alto della stratificazione sociale, lo strato degli esperti di progettazione e realizzazione di videogiochi, e, verso il basso, lo strato degli addetti ai parchi tipo Disneyland, alla duplicazione e noleggio di cassette TV, ai bar con spettacolo, alle discoteche. Secondo uno studio americano, il solo mercato dei bar e dei ristoranti ha creato dal 1990 al 1995, negli Stati Uniti, oltre 700.000 posti di lavoro (v. Aley, 1995, p. 39).
Il mercato dell'industria culturale - e quello delle comunicazioni di massa, che con esso è ormai inestricabilmente congiunto - per una parte ha creato ex novo e per l'altra ha considerevolmente allargato lo strato costituito, entro il sottosistema della riproduzione socio-culturale, da showmen, giornalisti televisivi, esperti di comunicazione aziendale, pubblicitari, autori di pulp fiction (narrativa di consumo).
Al fondo della piramide sociale, si stanno intanto allargando, specie in Europa e nel Nordamerica, gli strati di coloro che, spesso in età ancor giovane, sono di fatto definitivamente esclusi dall'attività produttiva - la forma contemporanea dell'antico fenomeno della marginalità sociale. Se ne possono distinguere almeno tre. Il primo strato, di origine più antica, è formato da individui che, avendo una qualificazione professionale medio-bassa (operai comuni, manovali, braccianti, ecc.), non trovano più occupazione, siano stati o no occupati per qualche tempo, a causa della crescente automazione della maggior parte delle produzioni o della concorrenza di lavoratori immigrati. Un secondo strato, più recente, è formato da individui provvisti di una qualificazione professionale medio-alta e alta, i quali hanno perso il lavoro e hanno probabilità minime di ritrovarne uno simile, per varie ragioni, quali ad esempio il fatto che il progresso tecnologico ha reso obsoleta la loro professione, o perché il settore produttivo con cui si identificavano sotto il profilo sociale e professionale è entrato irrimediabilmente in crisi. Un terzo strato è formato quasi per intero da giovani che dopo aver acquisito mediante la formazione medio-superiore o universitaria una qualifica molto alta, scoprono che essa non è più richiesta dal mercato del lavoro e dopo anni di tentativi frustranti smettono di cercare un impiego.
b) Variazioni del livello di sicurezza-insicurezza
La globalizzazione dei mercati ha spinto in tutto il mondo le imprese a perseguire con rinnovata determinazione due obiettivi, che per certi aspetti sono insiti fin dalle origini nella natura stessa dell'impresa capitalistica: utilizzare la minor quantità possibile di forza lavoro per unità di prodotto, ovvero accrescere senza posa la produttività del lavoro; e acquistare in ogni dato momento - il che vuol dire in molti casi ogni giorno - esclusivamente la quantità di forza lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine. Le più recenti tecnologie dell'automazione, dell'informazione e delle telecomunicazioni, accoppiate con modelli organizzativi fondati sui concetti di ristrutturazione aziendale, produzione snella, esternalizzazione (outsourcing) e qualità totale (concetti applicati tanto alla manifattura quanto alla produzione di servizi e al lavoro d'ufficio), sono stati strumenti di grande efficacia per conseguire gli obiettivi di flessibilità congiunta della produzione e dell'occupazione. A ciò si aggiunge la propensione delle aziende a utilizzare dovunque sia possibile, anche all'interno delle proprie unità produttive, forme di lavoro autonomo, dai professionisti agli artigiani. Pertanto, il livello di occupazione in un'azienda tende a essere sempre più strettamente correlato, e in tempi ravvicinatissimi, all'andamento della domanda. Se questa cala, nel giro di pochi giorni, e talvolta nel giro di ventiquattr'ore, la produzione la segue all'ingiù, e una quota corrispondente di lavoratori di tutti gli strati professionali - operai, impiegati, quadri, tecnici, perfino dirigenti medi - viene messa in libertà.
Le preoccupazioni degli Stati per la competitività dei rispettivi sistemi-paese hanno contribuito a realizzare la flessibilità dei livelli di occupazione nelle imprese mediante molteplici interventi legislativi. Essi sono volti, da un lato, a estendere il lavoro interinale o temporaneo, il lavoro a tempo parziale, i contratti a tempo determinato, i contratti di formazione o di apprendistato che ‛aprono la porta' ma non danno diritto all'assunzione: lavori che, nell'insieme, offrono all'individuo scarsa sicurezza di occupazione per il futuro. Dall'altro lato, detti interventi mirano a consentire alle aziende di ridurre la manodopera considerata in esubero congiunturale o strutturale mediante vari tipi di ammortizzatori sociali, usati alcuni in misura decrescente (come sussidi di disoccupazione, cassa integrazione guadagni) perché in contrasto con i principî del liberismo, e altri in misura crescente, come la messa in mobilità (nel qual caso al lavoratore viene offerto un lavoro in un altro settore produttivo e/o in un'altra regione) o il prepensionamento.
Di conseguenza, a partire dagli anni settanta si è verificata in tutti i paesi industriali avanzati - ai quali è ormai consuetudine riferirsi come al Nord del mondo - una drastica riduzione dei posti di lavoro stabili, a tempo pieno e durata indeterminata. In altre parole, è stata ridotta la quota dei lavori socialmente definiti sicuri sul totale degli occupati. La loro percentuale varia da paese a paese e da un settore dell'economia all'altro, ma in nessuno dei principali paesi, eccettuato forse il Giappone (il dubitativo è d'obbligo a causa della difficoltà di calcolare in modo da renderli confrontabili con altri il tasso e la tipologia delle occupazioni in detto paese), essa supera attualmente il 55%. Rilevamenti compiuti in istituti bancari statunitensi - che costituiscono il centro della razionalizzazione organizzativa e dell'automazione d'ufficio - attestano che, fatto uguale a 100 il totale degli operatori presenti in un dato giorno lavorativo nelle loro sedi, quelli con un lavoro fisso a tempo pieno (in prevalenza impiegati degli uffici interni, tecnici informatici, esperti finanziari, dirigenti) non sono più di 20-22. Gli altri 78-80 sono lavoratori interinali, impiegati a tempo parziale o con contratto a scadenza, consulenti, tirocinanti, ecc. In Gran Bretagna si calcola che i posti di lavoro sicuri, dopo gli interventi di deregolamentazione del mercato del lavoro attuati dai governi di Margaret Thatcher, ammontino - inclusi, si noti, i lavoratori autonomi a tempo pieno - a circa il 40% degli occupati (v. Hutton, 1995). In Italia, dove l'analoga deregolamentazione è proceduta più cautamente, si stima che la percentuale dei lavori sicuri sul totale delle forze di lavoro non vada comunque al di là del 50%. Poco più alto il valore stimato per la Francia: 55%.
L'aumento della quota di lavori che prospettano a chi li compie, e alle loro famiglie, un orizzonte di scarsa sicurezza per il futuro sarà probabilmente una caratteristica distintiva del mercato del lavoro mondiale per i prossimi decenni. È possibile che si tratti di una fase obbligata per l'economia divenuta planetaria prima che essa raggiunga, in quali modi non è ancor dato prevedere, nuovi punti di equilibrio. Tuttavia, chi pensa di rendere permanente, quale elemento naturale della nuova economia al tempo stesso globalizzante e localizzante, un tasso elevato di lavori in vario modo classificabili come insicuri (perché temporanei, precari, non competitivi) dovrebbe riflettere sul fatto che il senso di insicurezza per il proprio destino individuale e famigliare, unito al tasso di angoscia collettiva che ne deriva, è stato il motore di alcuni dei più poderosi movimenti sociali della storia, di sinistra come di destra.
c) Livelli dei salari nel Nord e nel Sud del mondo
Si è notato sopra (v. cap. 4) che la globalizzazione - combinata con una competitività che in pratica è priva di clausole atte a delimitarne correttamente gli ambiti - pone al presente le imprese del Nord nella ingrata condizione di dover comparare i costi del lavoro che sopportano in casa con quelli che sopporterebbero se trasferissero le loro produzioni al Sud. Questo imperativo aziendale si sta imponendo anche ai lavoratori di tutti gli strati sociali. In effetti, se il mondo opera come un solo grande mercato, ogni lavoratore competerà con chiunque al mondo sappia fare il suo stesso lavoro. Questo vale per l'interno di un paese come per l'esterno di esso. Alcuni casi già registrati di competizione salariale tra lavoratori del Nord e del Sud sono così schematizzabili (facendo nei vari casi sempre pari a 100, per semplificare, valori assoluti diversi, cioè il costo del lavoro, il salario, il prezzo d'una merce): 1) il lavoratore del Nord costa 100 all'impresa; lo stesso tipo di lavoratore nel Sud costa 10; perciò le imprese del Nord trasferiscono il lavoro al Sud; 2) il lavoratore del Nord finora guadagnava 100; il lavoratore del Sud, che guadagnava 10 nell'impresa locale che l'occupava, migra al Nord attirato dagli elevati salari e allo scopo di trovare al più presto un lavoro si offre a 50; il lavoratore del Nord o accetta di lavorare per 60-70, o non trova più lavoro di quel tipo (anche se è l'unico che sa fare); 3) l'impresa del Sud paga 10 i suoi lavoratori e quindi, nonostante la minore produttività, riesce a offrire al Nord, a 50, il medesimo bene che prodotto localmente costa, a onta della maggior produttività delle imprese locali, almeno 100, dato che in esse il costo del lavoro è molto più elevato. Per contraccolpo i prodotti locali vanno fuori mercato, e i lavoratori che li fabbricavano finiscono prematuramente in uno degli strati di esclusi sopra menzionati; 4) vi sono una serie di varianti del caso precedente: accade, ad esempio, che i lavoratori locali, pur di non essere esclusi dall'attività produttiva, accettino salari più bassi, fino al 30% e oltre. La diminuzione del salario avviene in molteplici forme: abbassamento secco della paga oraria, riduzione dell'orario settimanale e diminuzione proporzionale del salario, taglio delle pause durante la giornata lavorativa, riduzione delle festività e delle ferie a parità di paga annua, ecc. I contratti del 1994 e del 1995 tra la Volkswagen e il sindacato dei metalmeccanici tedeschi (IG Metall), sia per il numero dei lavoratori coinvolti sia per la posta in gioco - 30.000 posti di lavoro -, hanno inaugurato in Europa questa strada verso la riduzione dei salari reali, già praticata da tempo negli Stati Uniti per fronteggiare le sfide della globalizzazione.
Verso la fine degli anni novanta, è dato pertanto registrare una forte pressione volta a far scendere i salari reali del Nord, mentre si registra una tendenza all'aumento nel Sud, quanto meno nei ‛piccoli draghi' come la Corea del Sud, Taiwan, Singapore. In tali paesi, in effetti, i salari medi sono saliti in un paio di decenni da 1-2 marchi l'ora a 6-7. Ciò nonostante, la distanza permane ancora grande, rispetto ai 14 marchi l'ora degli Italiani, ai 21 dei Giapponesi, e ai 24 dei Tedeschi occidentali. E appare tanto più grande ove si consideri che nel Sud vi sono centinaia di milioni di lavoratori, dall'India all'Indonesia, alle Filippine, alla Cina, che guadagnano meno di un marco l'ora. Non è dunque difficile prevedere che i processi sopra schematizzati di competizione salariale sul mercato mondiale del lavoro proseguiranno ancora per molto nel XXI secolo.
d) Legame tra lavoro, tecnologia e qualificazione
Si supponga di suddividere tutti i lavoratori, tanto del Nord quanto del Sud, in tre soli macrostrati, semplificando così drasticamente la piramide della stratificazione sociale. Il primo strato racchiude, in alto, i lavoratori aventi qualifiche professionali elevate (AQ); il secondo, quello mediano, è formato dai lavoratori con qualificazione bassa o inesistente (BQ); quindi nel terzo strato, quello più basso, troveremo tutti gli esclusi dal processo produttivo (EP). Utilizzando tale piramide semplificata, si possono osservare nell'economia globalizzata di fine secolo i seguenti movimenti ascendenti e discendenti: nel Sud si registra un considerevole flusso ascendente di individui da EP a BQ; per contro, nel Nord si registra un flusso ugualmente considerevole in senso discendente, da BQ a EP, e altri due flussi discendenti, di entità minore ma tutt'altro che trascurabile, da AQ a BQ, nonché da AQ direttamente a EP.
I motori primi di questo processo incrociato di mobilità sociale sono lo sviluppo dell'industria manifatturiera del Sud e la contrazione di ampi settori dell'industria ad alta tecnologia al Nord. Numerosi paesi del Sud - non soltanto i ‛piccoli draghi' menzionati prima, ma anche l'India, l'Indonesia, la Cina - hanno fatto registrare notevoli progressi nella produzione di beni di consumo di buona qualità in cui è possibile impiegare, grazie alle nuove tecnologie, lavoratori scarsamente qualificati. Con il favore dell'abbattimento di parecchi vincoli al commercio internazionale, tali beni sono offerti in Europa e nel Nordamerica a prezzi competitivi. Risultato: vanno in crisi i produttori locali, e i loro dipendenti meno qualificati perdono il lavoro senza riuscire a trovarne uno sostitutivo (v. Wood, 1994).
Al tempo stesso, nel Nord, settori high-tech le cui commesse dipendevano in gran parte dalle forze armate - come la costruzione di aerei, la fabbricazione di componenti per satelliti e veicoli spaziali, di missili, di strumentazione, la produzione di grandi calcolatori - hanno ridotto in misura considerevole la loro attività. Dal 1990, nei soli Stati Uniti, l'insieme di tali settori ha perso quasi mezzo milione di posti di lavoro in poco più di cinque anni (v. Aley, 1995, p. 40). Coloro che li occupavano hanno dovuto in genere accettare un lavoro meno qualificato, con retribuzioni inferiori del 30-40%, e quasi sempre precario. Questo secondo processo sembra gettare invero qualche ombra sulla possibilità di recuperare i posti di lavoro, andati perduti al Nord a causa della concorrenza dell'industria manifatturiera del Sud, mediante massicci investimenti nel campo della formazione. D'altra parte è impensabile che una manodopera che possegga in media una bassa qualificazione, ma che richieda in ogni caso - poiché ciò attiene a un contesto sociale altrimenti strutturato - salari molto più alti che non quella del Sud, possa competere efficacemente con le masse di questa che stanno entrando a ritmo accelerato nell'industria manifatturiera dei paesi emergenti. In conclusione, elevati investimenti nel campo della formazione saranno necessari al Nord anche solo per non peggiorare ulteriormente i propri tassi di disoccupazione.
e) Condizioni di lavoro
Un rapporto della Banca Mondiale - che si segnala per la sua attualità - descrive così la presenza di due fenomeni mondiali distinti; essi sono ‟la riduzione degli interventi statali sui mercati e l'accresciuta integrazione del commercio, dei flussi di capitale e dello scambio d'informazioni e di tecnologie"; quindi il rapporto prosegue: ‟In un simile clima di profondi mutamenti le decisioni riguardanti i lavoratori dipendenti e le condizioni di lavoro sono dettate da pressioni competitive mondiali" (v. World Bank, 1995, p. 5). Avendo già illustrato in precedenza alcuni elementi delle condizioni di lavoro, quali i salari e il grado di sicurezza, ci limiteremo qui ad altri elementi, quali l'età di ingresso nelle forze di lavoro, il quadro istituzionale (il fatto cioè che un lavoro rientri o meno nell'economia formale), gli orari; gli ambienti di lavoro e le libertà sindacali.
Questi diversi elementi appaiono strettamente correlati fra loro. In ogni paese, e in ogni settore produttivo, lo stato di uno di essi permette di prevedere con buona approssimazione lo stato di tutti gli altri. In base ai dati dell'ONU e del Bureau International du Travail si può affermare che: 1) da 100 a 200 milioni di bambini di quattro continenti in età compresa tra i 6 e i 12 anni svolgono lavori pesanti (in miniere, cave, vetrerie, fabbriche di tappeti, costruzione di strade), in condizioni ambientali pessime, con orari superiori alle 12 ore al giorno e salari infimi (un dollaro al giorno o poco più), ovviamente al di fuori di ogni quadro giuridico e in assenza di qualsiasi forma di tutela sindacale; 2) un numero analogo di adolescenti, per la gran maggioranza donne, lavora in condizioni simili, con salari di poco superiori, ma in settori differenti (abbigliamento, cancelleria, elettronica di consumo); 3) si stima che il lavoro non strutturato, ovvero svolto al di fuori di ogni regola istituzionale - il ‛cuore' dell'economia informale, detta anche invisibile, sotterranea, parallela - comprenda i due terzi di tutti coloro che hanno un qualche tipo di occupazione nell'Africa subsahariana; la metà degli occupati in Asia; tra un terzo e la metà nell'America Latina; un quinto in Europa e nel Nordamerica; 4) in complesso, nel Sud del mondo il 40% del totale delle forze di lavoro è disoccupata, sottoccupata od occupata in lavori assolutamente precari, da cui trae un reddito infimo.
Concludere che simili dati siano o meno il risultato di ‛pressioni competitive mondiali', secondo il passo succitato della Banca Mondiale, dipende dai settori cui ci si riferisce, come pure da ciò che si intende per ‛pressioni competitive'. Di certo l'industria tedesca, americana o francese non trae utili dal lavoro dei bambini che soffiano vetro in Thailandia o annodano tappeti nel Belucistan, né da quello delle ragazze che fabbricano stilografiche a Canton. Lo stesso lavoro è però utile all'espansione dei consumi individuali in Europa, in Giappone, negli Stati Uniti, in Canada, nonché allo sviluppo della struttura commerciale che li alimenta e della pubblicità che li stimola. Questi mercati coinvolgono complessivamente milioni di persone, e rappresentano quindi vastissimi interessi orientati a premere affinché il costo del lavoro nei paesi d'origine dei relativi prodotti sia mantenuto il più basso possibile. Le condizioni di lavoro sopra riassunte sono determinate e mantenute anche da tali pressioni.
7. Globalizzazione dei gruppi di riferimento e migrazioni
Nell'età della globalizzazione, ‟se le opportunità globali non si muovono verso la gente, allora sarà inevitabilmente la gente a muoversi verso le opportunità globali" (v. UNDP, 1992; tr. it., p. 65). I mezzi di comunicazione di massa, insieme con la facilitazione delle comunicazioni interpersonali dovuta allo sviluppo tecnico e alla diminuzione dei costi delle telecomunicazioni, hanno diffuso tra miliardi di persone una quantità smisurata di informazioni multimediali sulle condizioni di lavoro e di vita esistenti nella maggior parte dei paesi del mondo. Ciò vale specularmente per le popolazioni di entrambi gli emisferi. Il fatto storico è che nella seconda parte del XX secolo le popolazioni del Sud sono venute a conoscere, come mai era avvenuto prima, che al Nord si vive molto meglio, e tendono ad agire di conseguenza; mentre le popolazioni del Nord, pur avendo ogni giorno sotto gli occhi come si vive nella maggior parte dei paesi del Sud, non sembrano ancora averne tratto motivo per azioni adeguate.
Il mondo-mercato è diventato anche un gigantesco insieme di gruppi di riferimento. In proposito è stata elaborata una teoria, secondo la quale se un individuo o un gruppo si rende conto che un altro individuo o gruppo avente caratteristiche simili appare trattato in modo diverso, sia sul piano economico che su quello politico e culturale, prima o poi pretenderà di essere trattato allo stesso modo. Il contadino, il manovale, la domestica, l'operaio che vivono in Tunisia, in India, in Nigeria, nelle Filippine, e i giovanissimi che vanno in cerca di lavori analoghi, sanno benissimo che mentre loro guadagnano 70 centesimi di dollaro l'ora, i loro simili in Europa guadagnano quindici o venti volte tanto, e si chiedono perché loro non debbano guadagnare altrettanto.
Né sono i soli. Anche l'ingegnere, il medico, l'esperto di informatica, il meccanico specializzato, il docente universitario, l'infermiere diplomato degli stessi paesi, sanno con altrettanta precisione che i loro equivalenti professionali in Europa guadagnano quindici o venti volte tanto, in condizioni di lavoro assai migliori: perciò si pongono il medesimo interrogativo.
La globalizzazione dei gruppi di riferimento ha attivato imponenti flussi migratori in direzione Sud-Nord, i cui effetti sono contrastanti. Gli immigrati accettano di svolgere lavori che gli Europei, i Nordamericani e i Giapponesi rifiutano: manovalanza nell'edilizia e nelle fonderie, raccolta di verdura e frutta, servizi domestici, lavori di pulizia nell'industria, trasporto di ceste agli ortomercati, lavaggio di auto, oppure di stoviglie nei ristoranti. In tal modo essi contribuiscono al funzionamento dell'economia dei paesi di arrivo, senza danneggiare l'economia dei paesi di fuga, dato l'altissimo tasso di disoccupazione e sottoccupazione che è dato rilevare in questi ultimi, e anzi giovandovi con le loro rimesse. Di giovamento ai paesi del Nord è pure l'immigrazione di personale qualificato dal Sud, che diversi paesi - tra cui l'Australia, il Canada, il Giappone, gli Stati Uniti - incoraggiano con leggi selettive sull'immigrazione. In vari settori tale personale svolge ormai un ruolo fondamentale. Negli Stati Uniti, ad esempio, se si dovessero licenziare tutti i professori di origine straniera, che nelle facoltà tecnico-scientifiche costituiscono sino alla metà del corpo docente, si bloccherebbe gran parte del sistema universitario.
Il tipo e la direzione delle migrazioni indotte dalla globalizzazione dei gruppi di riferimento provocano però anche effetti negativi sui paesi di entrambi gli emisferi. Sappiamo già che nei paesi d'arrivo le locali forze di lavoro non qualificate stanno diventando di per sé sovrabbondanti, sia perché rese superflue dall'automazione, sia per la concorrenza dell'industria manifatturiera dei paesi del Sud. Ne deriva che in tutta Europa esse sono colpite da tassi di disoccupazione sempre più elevati. La manodopera immigrata entra perciò in competizione diretta con esse sia per i posti di lavoro, sia per i salari. Simile competizione sta causando pericolose tensioni sociali. Quanto ai paesi del Sud, le loro prospettive di sviluppo - in specie dei paesi più poveri - sono gravemente danneggiate dall'emigrazione delle loro risorse umane più istruite e competenti. Si pensi che la sola Africa, che ne ha un disperato bisogno, aveva perso al 1987 (ultimo dato disponibile) un terzo del suo personale qualificato, trasferitosi in Europa.
I flussi migratori Sud-Nord trovano un potente incentivo, oltre che nelle diseguaglianze socio-economiche, negli squilibri demografici. I paesi ricchi del Nord hanno una popolazione totale di circa un miliardo di persone, e il loro tasso di crescita demografica è prossimo allo zero. Nei paesi poveri del Sud vivono quasi cinque miliardi di persone, e il loro tasso di crescita medio si aggira ancora intorno al 2-3% annuo. Con alcune conseguenze: per ogni bambino che nasce al Nord, al Sud ne nascono otto; nel Sud, ogni anno si aggiungono alle forze di lavoro 38 milioni di persone; sempre nel Sud, al fine di ridurre in misura apprezzabile il tasso di disoccupazione e sottoccupazione di fronte al suddetto incremento demografico, bisognerebbe creare entro i primi anni del 2000 un miliardo di nuovi posti di lavoro (v. UNDP, 1992; tr. it., pp. 64 ss.).
I paesi più sviluppati avrebbero quindi un interesse oggettivo, al di là di ogni considerazione sull'equità delle diseguaglianze internazionali, ad accrescere le iniziative volte a promuovere lo sviluppo dei mercati del Sud, in specie nei paesi più poveri. Maggiori investimenti; minori interessi sui debiti (considerando che, a causa dell'esiguità dei primi e dell'alto tasso dei secondi, a partire dagli anni ottanta i trasferimenti finanziari netti si sono invertiti: al presente è il Sud che trasferisce al Nord, in media, oltre 21 miliardi di dollari l'anno); riduzione delle barriere doganali; massicci aiuti per la costruzione di infrastrutture e per programmi di formazione avrebbero effetti positivi anche per il Nord. Essi sono compendiabili in maggiori sbocchi per le sue merci, una riduzione della pressione demografica, minori tensioni internazionali e una minor aggressività da parte dei fondamentalismi. Mentre una quota più ampia delle popolazioni del Sud farebbe esperienza dei molti effetti positivi che è capace di far ricadere sulla qualità della vita individuale e collettiva una società fondata sull'economia globale di mercato, dopo averne sperimentato per decenni soprattutto gli effetti negativi.
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