Mephisto
(Ungheria/RFT 1981, colore, 154m); regia: István Szabó; produzione: Mafilm/Manfred Durniok; soggetto: dall'omonimo romanzo di Klaus Mann; sceneggiatura: István Szabó, Péter Dobai; fotografia: Lajos Koltai; montaggio: Zsuzsa Csákány; scenografia: József Romvári; costumi: Ágnes Gyarmathy; musica: Zdenkó Tamássy.
L'ambizioso teatrante tedesco Hendrik Höfgen, insofferente della mediocrità che si respira nella sua città, si trasferisce da Amburgo a Berlino. Qui, dopo la gavetta in cabaret di sinistra e in salotti esclusivi, realizza il sogno di una vita: interpretare il ruolo di Mefistofele nel Faust di Goethe. Intanto i nazisti prendono il potere. Muovendosi con cinismo e spregiudicatezza, Hendrik riesce ad adattarsi al nuovo clima politico ottenendo la protezione di un influente generale, anche se poi paga il successo sul piano privato, rompendo definitivamente con la moglie Barbara, in esilio a Parigi, e perdendo l'amante, la ballerina di colore Juliette, che viene espulsa dalla Germania nonostante sia cittadina tedesca. Nominato direttore dello Staatstheater, cerca invano di mantenere l'istituzione svincolata dalla politica ed è costretto a subire sempre più l'invadenza e la trivialità del generale. Diventato ormai un artista di regime, continua a interrogarsi sul proprio ruolo aggirandosi tra i fasci di luce dell'enorme arena appena costruita per celebrare i fasti del nazismo.
Tratto dall'omonimo romanzo di Klaus Mann (1936), ispirato alla figura di Gustaf Gründgens, attore e regista teatrale e cinematografico (è il capo della malavita in M), Mephisto è un'ennesima variazione sul tema del rapporto tra artista e potere. Il film mette in scena la resistibile ascesa di un istrione cinico e amorale ma non privo di ambiguità e resipiscenze, che sfrutta il fascino personale e quello del mestiere in funzione del successo, esibendo ipocritamente la propria estraneità alla Storia in quanto incaricato di una missione che la trascende. In tale contesto, la sua maschera d'elezione non può che essere l'insinuante Mefistofele ("un eroe nazionale tedesco"), cui fa da contraltare la problematicità di Amleto, che peraltro Höfgen cerca goffamente di annettere alla cultura germanica alterandone la connotazione ad usum delphini. Onorato e coccolato fino a quando svolge coerentemente la propria funzione di giullare, viene ridimensionato con brutalità ogni volta che tenta di condizionare meccanismi che incidono sulla vita vera: così, è insolentito e cacciato ("Vada via, attore!") quando intercede per un amico caduto in disgrazia presso il generale; lo stesso generale che, per segnare lo scarto, afferma in altro momento: "Quando sento la parola cultura porto la mano alla pistola". Il mattatore scade dunque a comprimario nel più ampio palcoscenico della realtà, che pure sembra specchiarsi nel teatro assumendone le movenze, come esplicita l'efficace sequenza in cui il pubblico si volta verso la loggia reale e, in silenzio, segue il dialogo fra Hendrik, l'alto ufficiale e la sua amante. Allargando il campo di osservazione, Mephisto guarda al regime totalitario come messa in scena della follia, spogliata di ogni stereotipo luciferino, scenografia vacua, mediocre e ridondante, quale, per altri versi, ci era stata consegnata da Bernardo Bertolucci nel Conformista. Per questi suoi caratteri è dunque leggibile, anche, come metafora, in qualche modo autobiografica, dell'intellettuale comunista, interpretazione largamente accreditata presso il pubblico e la critica ungheresi.
Con Mephisto, ambiziosa operazione coproduttiva che gli ha messo a disposizione un budget del tutto inusuale per l'industria danubiana, István Szabó ha realizzato quello che rimane a tutt'oggi il più grande successo internazionale della cinematografia del suo paese, Oscar 1982 per il miglior film straniero, premio per la sceneggiatura e premio FIPRESCI al 34° Festival di Cannes nonché campione di incassi a tutt'oggi inavvicinato. Affermatosi con una serie di bellissimi corti e con due lungometraggi, Álmodozások kora (L'età delle illusioni, 1964) e Apa (Il padre, 1966), giocati su tonalità lirico-intimistiche e caratterizzati da un'ammirevole coerenza stilistica, il regista si era successivamente un po' perso inseguendo la chimera dell'irripetibile linguaggio metaforico del connazionale Miklós Jancsó. Con questa opera di sontuosa confezione, alla quale hanno dato un contributo decisivo lo scrittore Péter Dobai e il direttore della fotografia Lajos Koltai e che, nel bene e nel male, appare costruita sulla presenza istrionica di Klaus Maria Brandauer (che il meritato momento di gloria condurrà a una carriera internazionale poi mai davvero decollata), Szabó dimostra di essere in grado di gestire con polso e disinvoltura situazioni produttive di grandi dimensioni, rendendo omogeneo un cast multinazionale, lavorando con cura anche sui comprimari e spendendosi con efficacia nella ricostruzione di un'epoca, con risultati di raffinatezza quasi filologica nella rivisitazione degli spazi teatrali e cabarettistici. In seguito, con l'eccezione del duro e toccante Édes Emma, drága Böbe (Dolce Emma, cara Bobe, 1991), il regista avrebbe continuato sulla falsariga del kolossal 'colto', da Redl ezredes (Il colonnello Redl, 1984) a Taking Sides (A torto o a ragione, 2001), con esiti molto meno convincenti.
Interpreti e personaggi: Klaus Maria Brandauer (Hendrik Höfgen), Krystyna Janda (Barbara Bruckner), Ildikó Bánsági (Nicoletta von Niebuhr), Karin Boyd (Juliette Martens), Rolf Hoppe (il generale), Christine Harbort (Lotte Lindenthal), György Cserhalmi (Hans Miklas), Martin Hellberg (il professore), Christian Graskoff (Cesar von Muck), Péter Andorai (Otto Ulrichs), Ildikó Kishonti (Dora Martin), Tamás Major (Oskar H. Kroge), David Robinson (Davidson, giornalista del "Times").
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