Mente
Dal latino mens, che può essere accostato al verbo meminisse e al greco μιμνήσκω, "ricordare", il termine indica il complesso delle facoltà umane che più specificamente si riferiscono al pensiero, e in particolare quelle intellettive, percettive, mnemoniche, intuitive e volitive. Considerata a lungo, nel corso del pensiero occidentale, l'elemento discriminante dell'uomo rispetto agli animali, in quanto principio della vita psichica interiore, la mente è venuta differenziandosi concettualmente dall'anima solo in epoca moderna, quando la riflessione filosofica si è assunta il compito di determinare la natura del legame che unisce la mente stessa alla sostanza corporea. Da allora quello del rapporto tra il fisico e il mentale è diventato il problema centrale non soltanto della cosiddetta filosofia della mente, ma anche di quelle discipline, dalla neurofisiologia alla psicofisiologia, dalla psicobiologia alle scienze del comportamento e alle scienze cognitive, impegnate nella costruzione di modelli scientifici della mente e delle sue funzioni.
l. La teoria 'ingenua' della mente
Fino dalla più tenera età, ogni essere umano possiede una teoria 'ingenua' della mente, vale a dire un sistema di credenze, aspettative e intime disposizioni che riguardano altre credenze, aspettative e intime disposizioni, sia proprie sia altrui. La precoce e spontanea emergenza di tale teoria è stata oggetto di studi specifici, in soggetti sia normali sia patologici (Perner 1991; Wellman 1992). Uno dei suoi cardini è la convinzione che i comportamenti e le azioni delle persone derivino sistematicamente da cause interne di natura non fisica, qualche volta recondite. Queste cause vengono, del tutto naturalmente, pensate come costituite da stati e processi mentali, i quali sono ordinatamente connessi gli uni con gli altri e con i loro molteplici effetti manifesti, e da relazioni stabili, che possono essere riprodotte e sono, di norma, facilmente intuibili. È, infatti, tipico della nostra psicologia spontanea o 'del senso comune' (folk psychology: Stich 1983; Stich-Ravenscroft 1994) spiegare e prevedere i comportamenti e gli atteggiamenti delle persone con le quali interagiamo, attribuendo loro, magari senza nemmeno rendercene pienamente conto, sia stati mentali momentanei (desideri, credenze, scopi) sia disposizioni più stabili, riepilogate da termini come carattere, personalità, indole e simili. La considerazione centrale ‒ il filo conduttore di questa voce ‒ è che la nostra psicologia spontanea, la teoria ingenua della mente, da tutti posseduta e usata, per quanto imperfetta, funziona a meraviglia nella nostra esistenza ordinaria. Gli individui nei quali risulta essere compromessa, anche in modo lieve, la capacità di applicare la teoria ingenua, di trarne le debite conseguenze intuitive e di comportarsi in accordo con queste, risultano imprevedibili, e suscitano istantaneamente negli altri reazioni guardinghe, o addirittura aggressive. I casi patologici nei quali tale capacità viene colpita in modo selettivo, radicale e permanente impongono cautele speciali e la costruzione di situazioni e ambienti particolari, onde proteggere il soggetto colpito e chi se ne prende cura.
Azioni, atteggiamenti e comportamenti che ci risultano incomprensibili, cioè inspiegabili e imprevedibili alla luce della nostra psicologia spontanea, possono offrire spunti a narrazioni letterarie, trame teatrali o filmiche, teorizzazioni scientifiche (basti pensare ai celebri 'casi' analizzati nella letteratura psichiatrica e psicoanalitica). A partire dagli anni Cinquanta del 20° secolo, infatti, la storia della follia e le teorie della devianza hanno assunto una rilevanza culturale del tutto speciale, ben al di là dell'ambito delle discipline specializzate (psicoanalisi, psichiatria, psicopatologia, psicologia criminale ecc.). Ciò nonostante si sono lasciate quasi completamente in ombra le ragioni del successo della teoria ingenua. Solo con l'avvento delle scienze cognitive propriamente dette, e in particolare di quel filone che va sotto il nome di 'teoria della mente' o 'meta-cognizione', la filosofia e la psicologia accademica hanno smesso di concentrarsi sulle incoerenze interne della teoria ingenua della mente, al fine di screditarla, e hanno cominciato ad apprezzare la sua notevole efficacia.
Tale efficacia era stata già documentata, in modo implicito ma soddisfacente, nel corso di molti secoli, nelle raffinate analisi psicologiche elaborate dai grandi biografi, romanzieri e drammaturghi della classicità. Sebbene la teoria ingenua della mente sia un notevole esempio di 'storia di un successo' nell'ambito delle nostre capacità cognitive, vi sono alcune strategie in grado di generare in noi scetticismo sulla reale esistenza degli stati mentali. Una strategia tipica consiste nel sottolineare il carattere metaforico e ambiguo, e dunque indesiderabile, dei termini mentalisti (behaviorismo); un'altra, nell'evidenziare la pretesa inosservabilità dei processi e degli stati mentali mediante gli strumenti delle scienze empiriche, concludendo che il vocabolario mentalista dovrebbe essere integralmente sussunto sotto un vocabolario puramente neurologico (tesi dell'identità centrale); un'altra ancora nel porre l'accento sull'illogicità di alcune conseguenze semantiche alle quali si è inevitabilmente portati, qualora si prendano sul serio le tesi della psicologia spontanea (behaviorismo metodologico in filosofia analitica); un'altra, infine, nel sottolineare la radicale eterogeneità tra un'ontologia del mentale e l'ontologia oramai consolidata delle scienze esatte. Contro ogni opzione che si ricolleghi al dualismo cartesiano, si prende così posizione a favore del riduzionismo, unica opzione giudicata in grado di scongiurare il mantenimento di entità misteriose e spiritualiste nell'ontologia delle scienze moderne. Un'altra espressione di scetticismo antimentalista è data da quelle concezioni delle attività intelligenti come 'distribuite' su reti di nodi posti in parallelo, con connessioni autostabilizzantisi attraverso un apprendimento selettivo modellato su meccanismi di tipo evoluzionistico darwiniano (connessionismo, teorie delle reti neurali, algoritmi genetici). Queste branche dell'intelligenza artificiale hanno attratto l'interesse di alcuni filosofi della mente e sono spesso presentate come capaci di rendere del tutto superfluo l'intero vocabolario di stampo mentalista (Churchland-Sejnowski 1994). Piuttosto che esaminare in dettaglio tutte le varianti dello scetticismo antimentalista, converrà, invece, presentare alcuni nuovi e importanti punti di raccordo, corroborati da solidi dati sperimentali, tra la teoria ingenua della mente e teorie scientifiche più raffinate. Dopo aver corroborato su base scientifica almeno una buona parte delle tesi dichiaratamente mentaliste, potremo limitarci a esaminare soltanto i problemi di carattere ontologico e metodologico che restano aperti nonostante i nuovi dati e le loro spiegazioni in termini mentalisti.
Numerosi sono i dati strettamente sperimentali che suggeriscono di prendere in seria considerazione l'esistenza di stati, rappresentazioni e trasformazioni mentali. Ciò che accomuna questi dati, a dispetto della loro eterogeneità quanto a metodi, livello di indagine, grado di precisione e potere risolutivo delle apparecchiature, è che una spiegazione in termini mentalisti si presenta come la più naturale, la più generalizzabile e la più coerente. In altre parole, per tutti questi dati sperimentali una spiegazione che fa appello a stati e processi mentali, e solamente questa, si presenta come la più 'scientificamente' soddisfacente. a) Categorizzare prima di agire. Per il suo interesse storico, e a causa della sua esemplarità, è utile partire dall'esperimento di R.E. John (1972) sulla precategorizzazione del segnale acustico nel gatto. Si registrano simultaneamente i profili delle onde elettriche in vari punti della corteccia cerebrale del gatto, dopo averlo addestrato a premere una certa leva in presenza di un segnale acustico con una certa frequenza (1000 Hz) e a premerne un'altra in presenza di un segnale acustico di frequenza doppia (2000 Hz). In seguito a un periodo di assestamento, si osserva la formazione di due profili complessivi stabili, specifici e riproducibili di onde cerebrali, ciascuno associato a una, e solo una, delle due risposte. Questi due profili di attività cerebrale insorgono, si noti, prima che l'animale muova alcun muscolo. Infatti, si tratta di attività in aree cerebrali deputate all'analisi dei segnali, cioè aree percettive e associative, non preposte a comandi muscolari diretti. Si può infallibilmente prevedere quale leva il gatto premerà, osservando quale dei due profili specifici di onde cerebrali precede l'azione. Se si invia un segnale sonoro di frequenza intermedia (1500 Hz), il profilo diventa momentaneamente erratico, poi si stabilizza su uno o l'altro dei due profili. L'animale, dopo questa elaborazione percettiva e categoriale del nuovo segnale 'come se' fosse uno o l'altro dei segnali noti, premerà invariabilmente e prevedibilmente la leva associata al profilo di attività cerebrale che di volta in volta si forma, con frequenze all'incirca uguali. Anche se potrebbe apparire azzardato parlare di 'decisioni' e 'interpretazioni volontarie' da parte del gatto, risulterà perfettamente legittimo spiegare questo dato, uno dei primissimi del genere (Piattelli Palmarini 1977), ipotizzando - quanto meno - una precategorizzazione del segnale. Il suono di frequenza intermedia, per il quale non c'è stato alcun addestramento specifico, genera incertezza nella risposta, ma viene ben presto percepito come sufficientemente simile all'uno o all'altro dei due segnali, per i quali il gatto ha ricevuto, invece, un addestramento specifico. La categorizzazione, vale a dire la risposta basata sulla similarità, avviene prima dell'azione, prima del comportamento manifesto. Da questo a ipotizzare che si sviluppi spontaneamente nel gatto una sorta di rappresentazione mentale del segnale 'ignoto' (1500 Hz) 'come se' fosse uno dei due segnali noti (1000 Hz o 2000 Hz) e che sia questa rappresentazione mentale la causa della conseguente azione motoria, il passo inferenziale è breve. Anche nelle scienze esatte si ha l'abitudine di fare inferenze del genere. Trattandosi, però, di concetti dichiaratamente mentalisti, sarà bene procedere con prudenza, passando prima a specie dotate di una psicologia (presumibilmente) più complessa di quella di un felino, e infine all'uomo.
b) Le rotazioni mentali: evidenza neurologica. A.P. Georgopoulos e altri neurofisiologi (1989) hanno realizzato nei macachi una serie di esperimenti molto raffinati, registrando i segnali elettrici di risposta in singoli neuroni, dopo aver addestrato l'animale a eseguire certi precisi compiti, condizionati dalla presentazione di certi precisi stimoli. La complessità e la delicatezza di questi esperimenti costituiscono una sfida a ogni tentativo di sintesi sommaria, ma in questa sede ci interessa un aspetto particolare, cioè che cosa possono dirci a favore della 'realtà' degli stati mentali (Georgopoulos et al. 1989). Una serie di lampadine viene disposta a cerchio intorno a una levetta tipo joystick che la scimmia impara presto a impugnare e a far ruotare in ogni direzione. Il dispositivo è simile a un orologio senza lancette, nel quale la levetta è al centro e le lampadine sono poste nella posizione delle ore. Il compito assegnato all'animale è quello di muovere la levetta, di volta in volta, nella precisa direzione individuata dalla sola lampadina che si è appena accesa. Terminato il periodo di apprendimento, si possono individuare i gruppi di neuroni che sono specificamente e selettivamente (anche se non esclusivamente) associati alla 'decisione' della scimmia di muovere la levetta in una certa direzione. Nessun singolo neurone è associato esclusivamente a una e una sola direzione, ma vi sono direzioni preferenziali assai nette quando si considerano gruppi interi, cioè popolazioni, di neuroni. Si tratta, anche in questo caso, di neuroni di tipo percettivo e associativo, non di neuroni che comandano particolari muscoli. Identificando, quindi, specifiche popolazioni di neuroni, si riesce ad associare a ciascuna popolazione un vettore spaziale, cioè una precisa direzione nello spazio esterno con la quale quella popolazione è preferenzialmente associata. L'associazione specifica tra l'attività di un gruppo di neuroni e la risposta di muovere la levetta in una certa direzione dello spazio oggettivo non riguarda, quindi, un comando motorio in senso stretto, ma qualcosa di antecedente e più astratto. Si è, quindi, autorizzati a ipotizzare che l'attività di una certa popolazione di neuroni sia connessa, appunto, con la 'decisione' della scimmia di muovere la levetta, poniamo, 90° a destra (a ore 3), mentre una diversa popolazione di neuroni verrà individuata come strettamente associata alla decisione di muoverla, poniamo, 90° verso sinistra (a ore 9) e così via. Alla stessa scimmia, nella stessa situazione sperimentale, viene poi presentato un compito diverso: muovere la levetta non più direttamente verso la lampadina che si accende, ma in una direzione a 90° da questa, in senso antiorario. Se, per es., si accende la lampadina a ore 12, la scimmia dovrà puntare le levetta verso la posizione a ore 9.
Dopo un certo periodo di assestamento, la scimmia impara il nuovo compito. La scoperta notevole è che la popolazione di neuroni che adesso si attiva corrisponde esattamente a una 'rotazione' della decisione di un angolo di 90° in senso antiorario, rispetto alla popolazione che si attivava con il compito precedente. In termini più intuitivi, immaginando di seguire al rallentatore quello che avviene nel cervello della scimmia in tempo reale: inizialmente si attiva, come per il vecchio compito, la popolazione di neuroni relativa alla decisione di puntamento diretto, poi, una frazione di secondo dopo, la popolazione di neuroni corrispondente a una decisione di muovere 10° da questa in senso antiorario, poi quella corrispondente alla decisione di muovere altri 10° e così via, fino alla rotazione completa (in questo caso 90° in senso antiorario) imposta dal nuovo bersaglio. Questo processo è stato correttamente chiamato 'rotazione mentale'. Ambedue i termini sono sperimentalmente ben fondati. Si ha una rotazione, in quanto esiste una corrispondenza geometrica continua ben precisa tra la direzione del vecchio bersaglio nello spazio esterno, quella del nuovo bersaglio, sempre nello spazio esterno, e le popolazioni di neuroni che vengono via via attivate. Tale rotazione è di natura mentale, in quanto: precede immediatamente l'azione; non riguarda neuroni che comandano direttamente i muscoli; è dettata da una corrispondenza tra immagini (o rappresentazioni) interne del vecchio stimolo e del nuovo; stabilisce una mappa coerente dello spazio geometrico esterno in uno spazio astratto interno. Un'altra scoperta per niente ovvia è che esiste un principio di 'economia mentale', cioè la rotazione mentale segue un principio di minimo cammino (una rotazione, appunto, esattamente di 90°). Più in generale, la visualizzazione, mediante la tomografia a emissione di positroni e la risonanza magnetica funzionale, dell'attività metabolica di specifiche aree cerebrali ha consentito di associare strettamente l'attività di ristrette regioni cerebrali con precisi compiti di interesse cognitivo. Tali indagini hanno messo in evidenza che aree cerebrali diverse sono attivate da stimoli cognitivamente diversi, anche quando tali stimoli sono fisicamente indistinguibili, mentre le stesse aree si attivano quando gli stimoli sono fisicamente differenti, ma cognitivamente equivalenti. Questi dati neurologici, presi sia singolarmente sia nel loro complesso, autorizzano a ipotizzare l'esistenza di rappresentazioni mentali e di trasformazioni mentali. Senza inoltrarci ulteriormente nel settore della neurofisiologia, ci basterà sottolineare che, in tali esperimenti, risulterebbe difficile e tortuoso spiegare quanto si osserva al livello delle attività cerebrali, se ci privassimo della possibilità di ipotizzare processi cognitivi di natura mentale e di far intervenire un loro ruolo causale sui comportamenti manifesti. A un livello più globale, quello della psicologia sperimentale, delle scienze cognitive, della linguistica scientifica e della neuropsicologia cognitiva, i dati che autorizzano a ipotizzare entità mentali e un loro ruolo causale su comportamenti e azioni sono ancora più numerosi e diversificati, anche se meno diretti e, per gli scettici, meno probanti.
c) Le rotazioni mentali: evidenza psicologica. Restiamo ancora nell'ambito delle rotazioni mentali. In esperimenti diventati classici, venivano mostrate a dei soggetti alcune forme spaziali rigide su uno schermo di calcolatore, in una certa posizione iniziale o di riferimento. Si chiedeva poi a questi soggetti di decidere rapidamente se altri oggetti rigidi mostrati successivamente, uno alla volta, sullo schermo erano sempre lo stesso oggetto mostrato prima, oppure no (Cooper-Shepard 1973). Le situazioni tipiche erano quelle nelle quali l'oggetto successivamente mostrato era lo stesso, previamente e invisibilmente ruotato dal calcolatore di un certo angolo, lungo un certo asse; oppure l'oggetto successivamente mostrato era assai simile a quello di riferimento, ma geometricamente incongruo con questo, cioè un oggetto nuovo fisicamente impossibile da ottenere dal primo per sola rotazione (la mano destra e sinistra mostrate in diverse posizioni danno un'idea intuitiva del rapporto spaziale e figurale tra i due oggetti). Il risultato è che il tempo impiegato a decidere se il nuovo oggetto mostrato sullo schermo sia sempre lo stesso, oppure no, è direttamente proporzionale all'angolo di rotazione subito dall'oggetto in questione. La spiegazione più naturale e soddisfacente è che, per decidere, si devono portare le rappresentazioni dei due oggetti a combaciare, ruotandoli nella nostra mente. Più ampio è l'angolo di questa rotazione mentale, maggiore è il tempo che impieghiamo a decidere. Variando l'asse di rotazione, il tempo si allunga mano a mano che l'asse si allontana dalla perpendicolare allo schermo. La velocità di rotazione varia da soggetto a soggetto, ma è notevolmente costante per uno stesso soggetto. Si può mostrare, mediante calcoli precisi, che tutte queste rotazioni mentali obbediscono a un principio di stretta economia mentale, seguendo sempre il minimo cammino, cioè il minimo angolo (Shepard-Cooper 1982).
Un'ulteriore conferma della realtà delle rotazioni mentali si è ottenuta registrando dei potenziali cerebrali evocati mediante metodi in tutto simili a quelli di una normale elettroencefalografia. Precisi confronti tra i potenziali di attivazione e di soppressione evocati durante il compito di riconoscere oggetti variamente ruotati hanno corroborato i dati di Shepard e Cooper (Michel-Kaufman-Williamson 1994). La convergenza dei risultati ottenuti a questi diversi livelli di indagine sperimentale rafforza l'ipotesi di una 'realtà' della mente e dei suoi contenuti. L'esame di questo succinto campionario delle molteplici prove sperimentali, convergenti a diversi livelli, dovrebbe bastare a contrastare lo scetticismo antimentalista, almeno nelle sue forme più superficiali.
a) L'immaginazione mentale e il suo ruolo nella manipolazione delle conoscenze. Un genere di esperimenti assai rappresentativo è stato ideato ed eseguito in numerose varianti da S.M. Kosslyn (1980). Lo scopo è quello di verificare l'efficacia dell'immaginazione mentale (mental imagery) nel generare nuove conoscenze e nel consentire l'accesso a nuove rappresentazioni di conoscenze già presenti. Si mostra a un soggetto una mappa stilizzata di un'isola, sulla quale si possono osservare una spiaggia, un villaggio, dei palmizi, un pozzo ecc. Si chiede al soggetto stesso di impararla bene e di memorizzarla. Poi la si ripone, togliendola dalla vista. Fatto questo, in alcuni casi si invita il soggetto a immaginarsi quell'isola lunga, poniamo, 2 km, in altri lunga, poniamo, 200 m. Infine, si chiede al soggetto di immaginare di trovarsi in un certo luogo di quell'isola (vicino al pozzo, sulla spiaggia ecc.) e si fanno domande relative ad altri luoghi dell'isola: 'Quante capanne ha il villaggio?', 'Quante sono le palme sulla collinetta?' ecc. Si può mostrare che il tempo di risposta è tanto più lungo quanto più distanti risultano essere, nella mappa originale, l'immaginario punto di osservazione e il luogo cui si riferiscono le domande. Particolarmente interessante è che i tempi di risposta aumentano uniformemente con il crescere delle dimensioni immaginate per l'isola. Colui al quale si è chiesto di immaginarla lunga 2 km sarà più lento a rispondere di colui al quale si è chiesto di immaginarla lunga 200 m. Infatti, introspettivamente, i soggetti successivamente dichiarano di aver potuto rispondere alle domande fantasticando di 'esplorare' mentalmente la 'loro' isola come se la stessero attualmente percorrendo.
Si chiede a un soggetto di immaginarsi un coniglio grande quanto un elefante. A un diverso soggetto si chiede, invece, di immaginarsi un coniglio piccolo quanto una formica. Si pongono poi a questi soggetti domande precise sull'interno degli orecchi, il colore delle narici, la forma delle zampe e così via. La rapidità e l'accuratezza delle risposte variano significativamente e sistematicamente con la taglia dell'animale immaginato. I dettagli risultano facili da 'vedere' per il coniglio immaginato grande, difficili per il coniglio immaginato piccolo. Una volta di più, questi dati e molti altri dello stesso tenore sarebbero inspiegabili se non accettassimo di attribuire una genuina 'realtà' alle immagini mentali e a ben precise trasformazioni mentali eseguite sulle stesse.
La forma più raffinata di analisi di processi cognitivi basata su rappresentazioni mentali è stata sviluppata in seguito a studi sulla deduzione spontanea, cioè domandando a un soggetto di svolgere semplici compiti di ragionamento senza istruzioni specifiche e senza l'ausilio di carta e matita, né di alcun altro strumento materiale. Chiedendo a un gran numero di soggetti di risolvere individualmente problemi di ragionamento su sillogismi, si mostra che esistono deduzioni valide di proibitiva difficoltà psicologica e, invece, deduzioni logicamente non valide, le quali ci appaiono, però, molto attraenti e plausibili. Sulla base di ipotesi psicologiche dettagliate (i cosiddetti modelli mentali), P.N. Johnson-Laird, R.M. Byrne, P. Legrenzi, B. Bara e altri hanno potuto avanzare spiegazioni e predizioni assai soddisfacenti di questi fenomeni (Johnson-Laird 1983; Johnson-Laird-Byrne 1991). Criticando l'idea che esista una logica mentale fissa e indipendente dai contenuti, e mettendo, invece, in evidenza l'importanza di specifiche operazioni di computo mentale, legate alla capacità momentanea di una memoria di lavoro (working memory), questi autori hanno collegato strettamente le nostre capacità deduttive spontanee al potere di tenere simultaneamente presenti in un registro mentale un certo numero di modelli astratti, esplorando con la mente, ordinatamente, corrispondenze e sfasature tra questi. La letterale realtà dei modelli mentali non è unanimemente accettata entro l'ambito cognitivista stretto, ma si tratta pur sempre di un dibattito tra studiosi che concordano comunque nell'ammettere, più in generale, la realtà di contenuti e operazioni mentali. Risulterebbe impossibile, infatti, spiegare qualsiasi tipo di dato sperimentale sul ragionamento e sulla deduzione, senza fare appello, in qualche modo, a delle genuine rappresentazioni mentali.
b) Categorie mentali e categorie fisiche: le ragioni di un'incongruenza. Una volta accettata la realtà della mente e dei suoi contenuti, resta ancora da esplorare il complesso rapporto tra questi enti astratti e la realtà del mondo fisico. Tale antico dilemma viene chiamato il problema del rapporto mente-corpo e ha un'illustre tradizione filosofica, nel corso della quale sono state avanzate posizioni e tesi assai diverse tra di loro (Putnam 1975, 1988; Dennett 1987; Chomsky 1995). Cercheremo qui di affrontarlo sotto un profilo quanto più possibile vicino ai dati sperimentali.
Una considerazione centralissima è che, come abbiamo visto, segnali (o 'stimoli') fisicamente equivalenti risultano spesso psicologicamente assai diversi, mentre segnali psicologicamente equivalenti possono corrispondere a entità fisiche tra loro eterogenee. Abbiamo accennato sopra al fatto che queste equivalenze e queste diversità sono ben registrate anche dai segnali cerebrali corrispondenti. Vi sono casi particolarmente chiari di incongruenze tra categorie psicologicamente nette e salienti e le corrispondenti categorie di oggetti materiali. Una fotografia di un volto umano e la stessa fotografia ruotata di 180° costituiscono, sotto il profilo strettamente fisico, lo stesso oggetto. Eppure ci è praticamente impossibile discriminare tra volti noti e volti ignoti osservando fotografie capovolte. Siamo perfino incapaci di notare, in foto capovolte, alterazioni grossolane, che rendono i volti mostruosi quando visti nella presentazione normale. Esistono soggetti, detti prosopoagnosici, colpiti da una lesione in un'area specifica dell'emisfero destro, che sono incapaci di riconoscere i volti umani. Essi hanno una visione perfetta sotto ogni altro aspetto, ma non riescono a mettere a fuoco un volto umano, né dal vivo, né in fotografia, né in dipinti, disegni, caricature, sculture. È particolarmente interessante il fatto che, quando viene loro chiesto di riconoscere volti noti in una serie di foto presentate capovolte, si trovano in difficoltà, ma non più di un soggetto normale. Possiamo riconoscere già in questo caso anche un chiaro indizio di quella che si chiama 'modularità della mente' (Fodor 1983; Modularity in knowledge… 1987), vale a dire dell'esistenza di funzioni cognitive molto specializzate, suscettibili di essere selettivamente colpite da una lesione cerebrale circoscritta, lasciando tutto il resto intatto. Come sottolineato da J.A. Fodor, la tesi della modularità della mente rende inaccettabile al cognitivista la tradizionale suddivisione degli stimoli secondo i cinque sensi. Infatti, il soggetto prosopoagnosico vede benissimo, in generale, ma non riesce a mettere a fuoco i volti. Analogamente, pazienti affetti da certe forme di dislessia, o di agrafia, hanno difficoltà solo con la scrittura, o addirittura solo con le lettere raggruppate in parole, ma non hanno alcun generico disturbo della vista in quanto tale. Una vasta casistica di esperimenti sulla percezione delle sillabe, delle parole e del profilo prosodico delle frasi, effettuati anche su neonati e bambini ben al di sotto di un anno di età, mostrano che nell'universo dei suoni e dei rumori i suoni linguistici occupano un ruolo assolutamente singolare. Avrebbe poco senso, per il fonologo, vedere assimilati questi processi, altamente specializzati e largamente automatici, a quanto altro resta coperto sotto la vaga dizione di 'senso dell'udito'.
Questa constatazione ha portato a un'altra considerazione molto importante: il raggruppamento di oggetti per similitudine specifica (la categorizzazione mentale degli stimoli sensoriali) molte volte non corrisponde in modo chiaro e netto ad alcun criterio strettamente fisico (taglia, colore, grana del materiale, frequenza dei suoni ecc.). Risulta significativo, per es., abbinare il caso dei volti capovolti con quello dei suoni linguistici registrati su un nastro che poi si fa scorrere all'inverso. Anche in questa situazione di 'capovolgimento', una volta di più indistinguibile da quella normale sotto un profilo strettamente fisico, tutti i raffinati processi di analisi e segmentazione spontanea del parlato che sono per noi naturali, fino dai primissimi giorni di vita, vengono completamente messi fuori gioco.
Un nastro registrato che scorre all'inverso non è più per noi uno stimolo linguistico, ma solo rumore privo di qualsiasi struttura interna. Di contro, tutti i processi spontanei di analisi del parlato e la piena comprensione del significato vengono mantenuti anche accelerando progressivamente fino a venti volte la velocità di un nastro che scorre in direzione normale, filtrando opportunamente i suoni in modo da mantenere inalterata la loro tonalità naturale.
Il contrasto si estende anche ad altri casi interessanti, per es. nel settore che riguarda la nostra percezione e classificazione di un movimento come 'naturale'. Se facciamo camminare, correre o danzare una persona nel buio completo, applicando piccole lampadine debolmente luminose in pochi punti strategici del corpo (anche, spalle, gomiti, ginocchia), chiunque riconosce subito, dal moto coordinato dei puntini luminosi su uno sfondo nero, che sta osservando una persona la quale, appunto, cammina, corre, danza. La percezione distinta di un movimento come naturale è già presente nel bambino molto piccolo. Se, però, 'catturiamo' questi movimenti dei puntini luminosi in un calcolatore e capovolgiamo la scena sullo schermo, oppure permutiamo, per es., i puntini delle spalle con quelli delle anche, l'osservatore sarà del tutto incapace di dire che cosa sta vedendo. Percepirà solo dei puntini luminosi che si muovono sullo schermo, senza poterli raggruppare mentalmente in alcuna figura dotata di significato. La distinzione percettiva, normalmente assai netta, tra movimento naturale di un corpo umano e movimento meccanico di un corpo rigido si perde totalmente, quando si osserva la stessa scena, con gli stessi puntini mobili ma capovolta, o leggermente manipolata.
Vale la pena sottolineare che in tutti i casi appena citati non c'è modo di caratterizzare queste, pur cruciali, differenze con parametri obiettivi, cioè puramente geometrici o dinamici. A livello fisico, la differenza potrebbe benissimo risultare del tutto insignificante per un ipotetico marziano (come risulta al calcolatore), pur essendo capitale per noi, esseri umani, grazie all'apparato percettivo e rappresentazionale di cui siamo dotati per patrimonio biologico. Si tratta di differenze che non potremmo nemmeno descrivere, se ci precludessimo l'uso di qualsiasi concetto di natura mentale. Sarebbe impossibile tradurre in termini puramente geometrici e fisici la proprietà di un movimento di essere, o non essere, naturale. Esistono infatti alcuni parametri cinematici e geometrici complessi che sono (in buona approssimazione) caratteristici del movimento naturale, e solo di questo, ma la classe di tutti i movimenti che possiedono queste caratteristiche, e solo di quelli, non è una classe cinematicamente e geometricamente rilevante e non avrebbe mai attratto l'attenzione di un fisico puro, o di un matematico puro. La classe dei movimenti naturali balza, invece, subito alla nostra attenzione. Essa appare ben reale per noi, e ben distinta dalla classe di tutti gli altri movimenti effettivamente osservabili, o solo possibili.
Esistono moltissime classi cognitivamente salienti che sono caratterizzate da proprietà di natura irriducibilmente psicologica. Si tratta di 'oggetti' astratti, nettamente individuabili secondo criteri cognitivi, e per noi esseri umani molto salienti, ma che corrispondono a oggetti materiali eterogenei e privi di qualsiasi caratterizzazione netta e interessante, sotto un profilo puramente fisico. Un altro esempio significativo, oltre a quelli appena visti, sarebbe la proprietà di un certo suono di essere una parola possibile dell'italiano. 'Spingro', 'truto', 'rasto', 'plindo' e moltissimi altri suoni possiedono questa proprietà, mentre 'rqog', 'trpit', 'qpqpu', lo scricchiolio di una porta, il rumore di una noce frantumata, e infiniti altri rumori non la possiedono. L'intuizione di qualunque parlante dell'italiano è netta, evidente e sicura (lo stesso vale, ovviamente, fatte le debite differenze, per il parlante di qualsiasi altra lingua). Queste due classi sono per noi ben distinte e una delle due possiede una struttura fonologicamente e morfofoneticamente ben caratterizzabile, che non corrisponde, però, ad alcuna struttura acusticamente definibile in maniera univoca (Halle 1990). La stessa parola (effettiva o possibile) non è la medesima entità fisica quando è pronunciata da una bambina di 4 anni, oppure da un adulto di sesso maschile di 50 anni, o ancora, quando è sussurrata, gridata, registrata su un compact disc, scritta su un foglio. La nozione 'stessa parola' è mentalmente e linguisticamente molto netta e saliente; tuttavia, la sua corrispondenza a entità fisiche abbraccia, a ben considerarla, classi di oggetti tra di loro molto eterogenei.
Queste essenziali e semplici considerazioni, che non hanno, lo si noterà, alcuna connotazione spiritualista o antiscientifica, sono alla base di una distinzione importante nella filosofia della mente, quella tra fisicalismo categoriale (type physicalism) e fisicalismo contingente (token physicalism; Fodor 1975). Il fisicalista contingente ammette senza problemi che qualsiasi differenza reale tra enti caratterizzati secondo un qualche criterio mentalista, quale che sia, corrisponde a una qualche differenza fisica. È ben vero, infatti, che esiste qualche differenza acustica tra 'spingro' e 'rasto', da un lato, e 'rqog' e 'trpit' dall'altro. Dopotutto, noi avvertiamo, rispettivamente, le prime come parole possibili e le seconde come parole impossibili dell'italiano sulla base del loro suono (o di una grafia che ben sappiamo come far corrispondere mentalmente a un suono). È la struttura delle possibili sillabe di una lingua che traccia nettamente la differenza tra parole possibili e parole impossibili per quella lingua. Il punto capitale è che questa netta distinzione fonologica non corrisponde a differenze puramente acustiche, quindi strettamente fisiche, che siano anch'esse nette, interessanti e caratterizzabili in modo compatto ed elegante secondo criteri esclusivamente fisici.
In generale, il fisicalismo contingente, a differenza del fisicalismo categoriale, nega che le differenze nette e semplici tra categorie mentalmente definite individuino sempre anche delle classi fisicamente nette e interessanti. Questa constatazione è da molti oggi considerata come il punto di partenza di un'ontologia del mentale che sia scientificamente accettabile. Essa pone severi limiti a ogni progetto di riduzione completa del mentale al fisico.
c) Varianti del fisicalismo: il perché del fallimento del behaviorismo. Le classi o categorie che sono ben individuate da proprietà nette e salienti di natura psicologica, linguistica, percettiva, e in generale cognitiva, si chiamano, nella terminologia invalsa di derivazione anglosassone, 'intensionali'. Esse si contrappongono alle classi o categorie dette 'estensionali', definite sulla base di proprietà fisiche. L'esempio classico di contrapposizione tra definizione intensionale e definizione estensionale è quella tra 'stella del mattino' e 'stella della sera', da un lato, e 'il pianeta Venere', cioè la singola entità astronomica che corrisponde ad ambedue queste diverse descrizioni, dall'altro. Le proprietà che individuano e staccano dal resto del mondo una classe intensionale si chiamano anch'esse proprietà (o predicati) intensionali. Tali proprietà sono basate sul significato delle espressioni usate per descriverle, e sono per questo dipendenti dai modi di presentazione (Fodor 1998). Le proprietà di tipo estensionale sono, invece, pensate come indipendenti dai modi di descrizione e di presentazione, in quanto sono usate per selezionare nel mondo la stessa classe di entità materiali, in qualsiasi modo esse vengano descritte.
Alla luce di quanto visto sopra, è evidente la difficoltà che si incontra in generale nel ridurre esattamente, esaurientemente e in modo compatto classi e proprietà intensionalmente definite a classi e proprietà estensionalmente definite. Chiediamoci, per es., quali proprietà o predicati estensionali sarebbero capaci di individuare esattamente: tutti e solo i verbi inglesi che reggono un'intera proposizione (come to tell, conclude, assert, suppose, argue ecc.); tutti e solo i volti noti a una certa persona. Tra le classi intensionalmente definite e le corrispondenti classi estensionalmente definite esiste, di norma, un'asimmetria essenziale e ineliminabile.
Queste considerazioni ci portano a un vincolo fondamentale nella costruzione di un'ontologia scientifica della mente: classi che sono nette e salienti sotto una descrizione intensionale, non corrispondono, in generale, a classi altrettanto nette e salienti sotto una descrizione estensionale. Purtuttavia, le classi che giocano un ruolo causale determinante nel connettere sistematicamente e in modo predittivo stati mentali con altri stati mentali, e questi con i comportamenti manifesti, sono quelle intensionalmente definite.
Il fallimento del programma behaviorista può essere ricondotto all'impossibilità, di fatto e di principio, di sostituire sempre e comunque classi estensionalmente definite a quelle intensionalmente definite. A.N. Chomsky, in una sua celebre critica a B.F. Skinner, sottolineava che sarebbe assurdo pensare di poter ridurre a uno stimolo estensionalmente definito l'espressione 'Seconda guerra mondiale'. J. Fodor, nello stesso spirito, ricorre alla tragedia di Edipo, mostrando che sarebbe impossibile capire cosa succede a Edipo e per quale ragione se non potessimo definire come intensionalmente ben distinte le entità 'Giocasta', 'la madre di Edipo' e 'la persona oggetto del desiderio di Edipo', avendo ben presente che tutte e tre corrispondono a una stessa entità estensionalmente definita (una stessa persona). Più di ogni altro autore, Fodor ha fatto valere che oggetti, situazioni e relazioni possono avere poteri causali sulle nostre azioni e sui nostri pensieri se, e solo se, vengono da noi rappresentati in un certo modo, quindi se, e solo se, sono intensionalmente definiti. Con buona pace dei behavioristi, è impossibile fondare la semantica delle lingue naturali stabilendo connessioni causali dirette tra entità estensionalmente definite e risposte manifeste, anch'esse estensionalmente definite. L'idea centrale della semantica behaviorista era quella di connettere direttamente, causalmente, obiettivamente (magari solo statisticamente) la presenza di un oggetto, o di una situazione, con un certo suono manifesto. La critica dei mentalisti, in particolare di Chomsky e Fodor, a questa idea è, in sintesi, che la presenza fisica qui e adesso di un esemplare della specie gatto può essere causalmente connessa con il suono manifesto della parola 'gatto' se, e solo se, io noto quell'oggetto, lo riconosco come un gatto, conosco la parola che corrisponde a quell'animale, e decido di pronunciarla. Le connessioni causali tra simbolo mentale e referente estensionale devono sempre passare attraverso un sistema di rappresentazioni, associazioni, decisioni, inferenze, intenzioni, che è dotato di una sua organizzazione, di vincoli specifici e di principi di funzionamento in gran parte dettati dalla nostra natura umana contingente, vale a dire dal programma genetico della specie (Fodor 1990, 1994a, 1994b).
d) La psicosemantica e la teoria rappresentazionale della mente. Una volta riconosciuto che le proprietà intensionali giocano un ruolo causale determinante nel mondo della cognizione e che esse sono indissolubilmente legate a definizioni, a modi di presentazione e a connotati 'aspettuali', cioè a come le cose appaiono a un determinato osservatore, si viene a stabilire un legame stretto tra causalità mentale e significati.
La semantica e le sue relazioni sistematiche con la sintassi diventano un cardine delle scienze cognitive. In una psicosemantica 'atomistica', come quella elaborata da Fodor (1987), i simboli mentali sono quello che sono grazie a un certo preciso format e al ruolo sintattico specifico che questo format conferisce loro. Relazioni di natura computazionale collegano un simbolo all'altro e ciascuno singolarmente deve essere connesso da relazioni causali specifiche, ma indirette, con il mondo esterno. In una concezione della semantica di tipo, invece, olistico il significato di ciascun simbolo mentale è determinato dai suoi molteplici ruoli concettuali. Nella semantica del ruolo concettuale (conceptual role semantics) i contenuti mentali, o concetti, sono quello che sono unicamente in virtù del ruolo che ciascuno di essi gioca in una complessa rete globale di inferenze, di presupposti e di relazioni sistematiche con tutti gli altri (Cummins 1989).
Nell'una come nell'altra concezione si deve, comunque, ipotizzare uno spazio interno astratto, popolato di contenuti anch'essi astratti e di connessioni sistematiche, sia statiche sia dinamiche, di natura computazionale. Lungo queste linee si è costruita la cosiddetta TRM (teoria rappresentazionale della mente). Nelle sue diverse varianti, essa rende giustizia alla teoria ingenua della mente e la fonda, ma la oltrepassa nettamente, proponendo tesi a volte nettamente in contrasto con quelle della nostra psicologia ingenua (Putnam 1975, 1988; Pylyshyn 1984; Perner 1991).
e) La mente modulare. Forse la nozione più innovativa e più controintuitiva delle moderne teorie scientifiche di stampo mentalista è quella della 'modularità della mente', cui abbiamo già accennato sopra. Facendo tesoro dei molti e ben documentati automatismi specifici che governano la nostra comprensione del linguaggio e della ricchissima casistica di deficit cognitivi molto circoscritti, osservati a seguito di particolari lesioni cerebrali, si è fatta strada l'ipotesi che la nostra mente sia suddivisa in entità specializzate e relativamente autonome le une rispetto alle altre. La caratteristica principale di una teoria modulare della mente è di ammettere la possibilità di studiare singolarmente i vari moduli, prescindendo largamente dal funzionamento degli altri. Inoltre, non si ha alcuna difficoltà ad ammettere che i principi sui quali si basa il funzionamento di un modulo non assomiglino affatto a quelli sui quali si basa il funzionamento di un altro modulo. Anzi, si può far notare che, fino a ora, più si è approfondita la nostra conoscenza di moduli distinti, meno simili sono risultati essere i principi del loro funzionamento. Attualmente, per es., i principi che governano la visione (Ullman 1979; Marr 1982), quelli che governano l'uso della sintassi, quelli che governano la pianificazione del movimento e quelli che governano il ragionamento intuitivo non si assomigliano affatto. Resta in alcuni autori viva la speranza che avvenga in futuro una convergenza, un'unificazione, a un qualche livello più astratto e più profondo, ma si tratta solo di una speranza, forse nemmeno tanto fondata. In linea di principio e grazie a una documentata casistica di deficit cognitivi molto circoscritti, si deve ammettere che può essere compromesso selettivamente il funzionamento di un singolo modulo mentale, lasciando inalterato il funzionamento di tutti gli altri. È difficile supporre però che la modularità occupi tutto lo spazio delle capacità mentali. Quando si studiano processi come il ragionamento, la presa di decisione, la costruzione delle teorie scientifiche, la dimostrazione di teoremi, risulta difficile credere che non vi siano anche componenti non modulari. La tesi della modularità non implica che la mente sia solo modulare. Ciò nonostante, essa non è stata da tutti accettata e specie i connessionisti e i continuatori dell'opera di J. Piaget insistono che si debba cercare di andare 'oltre' una tale concezione (Karmiloff-Smith 1992, 1994; Piattelli Palmarini 1994).
Constatato che nessuna forma di riduzionismo completo del mentale al fisico può avere successo, abbandonato, quindi, il fisicalismo categoriale, gli scienziati cognitivi e i filosofi della mente più vicini alle scienze cognitive si erano assestati negli anni Sessanta del 20° secolo su un fisicalismo 'debole', quello contingente, dando origine al cosiddetto funzionalismo, cioè a una teoria della mente che riconosce come primario l'interesse delle classi, delle proprietà e dei rapporti causali intensionalmente definiti. Astraendo dalle proprietà materiali contingenti dei sistemi osservati (uomo, animale, macchina, sistemi auto-organizzantisi ecc.), il funzionalista cerca di costruire dei modelli che mettano in evidenza le funzioni cognitive in quanto tali e la loro organizzazione interna (Putnam 1975). Si privilegiano, quindi, le connessioni sistematiche tra entità astratte, organizzate in vista di un certo scopo (sia questo la sopravvivenza, o la massimizzazione del numero di credenze vere). Per es., si esplorano le connessioni formali tra una credenza e una percezione, tra una credenza e un'altra credenza, tra una percezione e un'azione che ne consegue, tra un presupposto e le inferenze non dimostrative che se ne possono trarre e così via. Poco interessa, in un modello funzionalista, se questi schemi astratti vengono materialmente realizzati nel cervello di un essere umano, in quello di un gatto o di una tartaruga, in un calcolatore seriale o in parallelo. Quello che conta è la cosiddetta architettura dello schema cognitivo, la sua coerenza, il suo potere esplicativo e predittivo. Tra lo schema funzionale e le sue possibili concretizzazioni in dispositivi naturali o artificiali possono intervenire più livelli specifici, tra loro relativamente autonomi (Marr 1982). Alcuni funzionalisti, tra cui D.C. Dennett (1978, 1987, 1995), hanno messo in guardia contro un'eccessiva fiducia nella realtà letterale delle proprietà funzionalmente individuate. Per es., potrebbe essere vero che un programma di calcolatore per giocare a scacchi 'tende a portare la regina nei riquadri centrali il più presto possibile'. In nessuna parte del programma, però, troveremmo l'equivalente di una regola per portare fuori la regina il più presto possibile. Pur essendo vero che questa strategia emerge dal funzionamento del programma, non troveremmo mai niente nel programma che dia istruzioni esplicite in questo senso. Una cosa, quindi, è descrivere in modo compatto e illuminante un sistema facendo appello a certe proprietà funzionali, tutt'altro supporre che queste proprietà siano letteralmente presenti nel sistema. Una variante del funzionalismo è, quindi, compatibile con una posizione strumentalista sull'esistenza della mente, cioè con la riserva epistemologica che è predittivamente e concettualmente utile studiare i sistemi intelligenti, uomo compreso, 'come se' esistesse la mente, senza che questo implichi il porla come realmente esistente.
Il funzionalismo, a partire dai primi anni Ottanta del 20° secolo, ha mostrato altri e più gravi limiti intrinseci (Block 1978). Perfino il suo primo e principale propugnatore, H. Putnam, se ne è progressivamente distaccato (Putnam 1988). Non può essere del tutto corretto, anche in linea di principio, che la natura materiale dei sistemi intelligenti non abbia alcun potere causale con genuine conseguenze intensionali. Non ci aspettiamo certo che un termometro possieda una rappresentazione mentale della temperatura, né che il comportamento di una formica rivolto a un fine, letteralmente segua una regola della logica. La natura materiale degli enti impone spesso ovvi limiti alla modellizzazione teorica. J.R. Searle (1992) ha reso particolarmente vivido il paradosso del funzionalismo con il suo argomento della 'stanza cinese'. Ci propone il caso di un operatore che, chiuso in una stanza e assistito da un calcolatore, ignora completamente il cinese. Attraverso uno sportellino A che comunica con la stanza, dei veri cinesi introducono domande di qualsiasi tipo, scritte in ideogrammi, e prelevano da un altro sportellino B risposte pertinenti, scritte in ottimo cinese. In apparenza (cioè 'funzionalmente') il dispositivo si comporta in tutto e per tutto come un dispositivo intelligente che capisce il cinese. In realtà l'operatore si limita a ricevere dallo sportellino A quelli che per lui sono fogli con sopra degli scarabocchi, e a mettere nello sportellino B altri fogli, con sopra altri scarabocchi, stampati dal calcolatore. Nel calcolatore sono immagazzinati milioni di possibili abbinamenti pertinenti tra ideogrammi-domanda e ideogrammi-risposta, ma né il calcolatore, né l'operatore capiscono il cinese. Né si può sensatamente dire che la loro combinazione capisca il cinese. Solo il programmatore originario del calcolatore lo capiva, ma ora non è presente nella stanza. L'esempio di Searle è una variante del celebre 'test di Turing' e mostra che la sola descrizione funzionale talvolta può non bastare a caratterizzare adeguatamente quanto avviene in un sistema che ha un comportamento intelligente. Anche se si ha una perfetta equivalenza 'funzionale', i poteri causali posseduti da un cinese, il quale risponde pertinentemente perché capisce la lingua, sono concettualmente, teoricamente, molto diversi dai poteri causali del sistema operatore-calcolatore, che è racchiuso all'interno della 'stanza cinese'.
Alcuni autori ritengono quindi che il puro funzionalismo non possa costituire una teoria adeguata del rapporto mente-corpo. Searle ha elaborato una concezione vicina a un essenzialismo causalista, secondo la quale è parte dei poteri causali intrinseci di un cervello umano normalmente funzionante il produrre una mente umana. Solo quel sistema materiale può produrre una mente come la nostra. Resta da capire come e perché, ma la soluzione al problema ontologico è data da questa relazione causale specifica e intrinseca. In una vena non troppo dissimile, Putnam estende e amplifica la considerazione centrale del funzionalismo (descrizioni fisiche eterogenee di sistemi materiali possono essere tutte equivalenti sotto il profilo funzionale) sostenendo che anche svariate descrizioni funzionali possono essere tutte equivalenti sotto un profilo più astratto (molte architetture funzionali distinte, per es., possono esemplificare una deduzione, o un'inferenza non dimostrativa). Aggiunge che occorre anche concretamente mostrare un sistema materiale specifico, un 'esemplare canonico' (per es. il cervello del signor Rossi con tutta la storia delle relazioni di Rossi con il mondo e i suoi simili), capace di realizzare questa struttura astratta, per poter dare corpo alla nostra affermazione che tutti i sistemi 'sufficientemente simili' a questo esemplare possiedono una mente. Il rapporto mente-corpo, quale ci appare negli ultimi scritti di Putnam, viene, quindi, a fondarsi su una relazione di equivalenza uno-molti tra caratterizzazioni astratte di attività genuinamente intelligenti e possibili architetture funzionali, con in aggiunta una relazione esplicita, ostensiva, e non formalizzabile, di 'sufficiente similarità' con un certo 'esemplare canonico' degli enti materiali che le esemplificano.
Alcuni autori, come F. Dretske (1988) e lo stesso Fodor (1998), hanno cercato di sviluppare una teoria neofunzionalista arricchita da concetti informazionali. Le relazioni causali tra il mondo esterno e le rappresentazioni interne vengono costruite su contenuti di natura informazionale, in un senso non troppo dissimile da quello della classica teoria dell'informazione. Si stabilisce allora una gerarchia di equivalenze a diversi livelli: quello strettamente fisico, quello informazionale, più astratto, e quello dei veri e propri contenuti mentali, che risulta ancora più astratto. Chomsky ha fatto notare che la riduzione di un campo di indagine all'altro diventa possibile solo quando ambedue i campi hanno sviluppato un apparato teorico sufficientemente ricco e potente per poter sostenere tale riduzione. Prima dell'avvento della fisica quantistica, e in particolare della teoria quantistica del legame chimico, non era possibile ridurre la chimica alla fisica. Nell'ambito della fisica classica, concetti come quelli di valenza e di legame covalente non potevano trovare un'adeguata spiegazione al livello fisico. La stessa tavola periodica degli elementi era stata compilata come una sintesi descrittivamente utile di regolarità contingenti. Soltanto la teoria quantistica del legame chimico e le leggi del decadimento radioattivo hanno potuto compiutamente 'spiegare' le regolarità del sistema periodico, e far prevedere l'esistenza di elementi mancanti, sia naturali sia artificiali. Analogamente, la riduzione del mentale al cerebrale potrà forse rivelarsi possibile e fruttuosa solo quando tanto la neurobiologia quanto le scienze cognitive avranno subito progressi tali da sviluppare concetti e teorie radicalmente nuovi e rivoluzionari (Chomsky 1995).
La riduzione del mentale al cerebrale resta impossibile al momento attuale, ma questo non deve in alcun modo scoraggiare gli psicologi, i linguisti, gli scienziati cognitivi dal proseguire e perfezionare la loro indagine naturalistica, i cui concetti sono, e per ora devono restare, di natura intensionale. Del resto, fa notare Chomsky, perfino nelle stesse scienze neurobiologiche di punta, i concetti emergenti sono di natura molto astratta e le ipotesi si stanno già proficuamente distaccando da quelle più tradizionalmente descrittive. Come abbiamo visto sopra, si è proficuamente passati dai vecchi modelli meccanicistici, nei quali un neurone, o un gruppo di neuroni, comandava specificamente un muscolo, oppure un gruppo di muscoli, a modelli che prevedono computazioni neuronali di notevole astrattezza, con invarianti caratterizzabili, a volte, soltanto mediante funzioni matematiche assai complesse.
Non solo evolvono e si perfezionano i modelli della mente, ma evolve continuamente, con il progresso delle scienze, anche il concetto di corpo che compare nell'espressione 'problema mente-corpo'. L'ontologia della fisica si è via via assestata, ammettendo l'esistenza di entità e relazioni di grande astrattezza. Se siamo pronti ad accettare queste continue trasformazioni dell'ontologia delle scienze sperimentali (come sembra ragionevole continuare a fare), allora dobbiamo esser pronti anche ad accettare quelle dell'ontologia delle scienze della psiche. In tal caso, la tesi che un giorno ci sarà identificazione tra mente e cervello, a un livello adeguato di astrazione e di idealizzazione di entrambi, diventa vera, ma banale. Significa solo affermare che potranno esserci ulteriori rivoluzioni scientifiche, e che dobbiamo essere pronti a recepirle criticamente.
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