mente
Il complesso delle facoltà psichiche, cioè delle facoltà intellettive, affettive, volitive, istintive, nell’integrazione dinamica che si attua nell’uomo.
È soltanto in epoca moderna che la m., intesa come attività intellettiva, coscienza e volontà, comincia a differenziarsi dall’anima e a rappresentare un problema per la riflessione filosofica; in partic. il compito che si presenta è quello di determinare la natura del rapporto della m. con il corpo. Se con Descartes si venne codificando quella soluzione dualistica che subito apparve controversa per le note difficoltà dell’interazione tra le due sostanze eterogenee e alla quale tentò di trovare soluzione l’occasionalismo (➔), già Spinoza, tuttavia, aveva proposto una soluzione monistica, considerando il dualismo m.-corpo nient’altro che una distinzione tra due attributi di una medesima sostanza, «Dio» o «natura». Monistica, ma in senso radicalmente materialistico, era stata anche la soluzione di Hobbes, benché si debba attendere il Settecento per la teorizzazione della determinazione degli stati psichici da parte di quelli fisici (La Mettrie, d’Holbach, Diderot), fino alla psicologia fisiologica di Cabanis. Il parallelismo psicofisico (Gustav Theodor Fechner, Wilhelm Wundt) e l’epifenomenismo (Th.H. Huxley, Clifford) sono i due estremi (l’uno vicino al dualismo, l’altro al materialismo) tra i quali si venne a collocare l’indagine psicologica e filosofica nell’Ottocento, secolo che vide anche la nascita dei primi studi sul cervello (F.J. Gall, P.-P. Broca).
Fu nel sec. 20°, comunque, e soprattutto in area anglosassone, che la ricerca filosofica sulla m. raggiunse i risultati più significativi, grazie al neopositivismo e, più in generale, agli sviluppi della filosofia analitica. La fase fisicalistica (➔ fisicalismo) del neopositivismo, soprattutto per opera di Carnap, tentò di portare a compimento, anche per i termini mentalistici e le asserzioni su eventi mentali, il programma di riduzione empirica caratteristico della sua epistemologia. Relativamente a tali asserzioni, si trattava, in conformità con il criterio empiristico di significato, di offrirne ‘traduzioni’ che non facessero riferimento a presunti stati mentali, ma soltanto al comportamento osservabile. Un comportamentismo in chiave linguistica ha caratterizzato anche il lavoro di Ryle, incline a considerare, in armonia con i presupposti della filosofia del linguaggio oxoniense, un’indebita ipostasi del linguaggio comune la nozione di una sostanza mentale. Sul piano dell’analisi linguistica, di grande influenza è stata soprattutto l’impostazione di Wittgenstein, per la quale il ‘significato’ dei termini mentalistici è ricondotto all’addestramento linguistico e ai criteri pubblici che ne governano l’applicazione in relazione al comportamento, piuttosto che a una classe di eventi mentali privati conoscibili per introspezione. Un’impostazione completamente diversa, dovuta anche alla difficoltà di fornire interpretazioni comportamentistiche di alcuni riconosciuti fenomeni tipicamente mentali (come la percezione, la coscienza e quelli rientranti nella sfera dell’intenzionalità di cui parlava Brentano, come la credenza, il desiderio, gli stati rappresentazionali) è invece alla base di quello che, almeno a partire dagli anni Cinquanta, è stato forse il tentativo più ambizioso di operare una radicale riduzione dei fenomeni mentali a quelli fisici, noto come ‘teoria dell’identità’, teoria che si fa generalmente risalire al filosofo neopositivista Feigl, e che deve il suo nome al fatto di sostenere una completa identità della m. e le sue funzioni con il cervello e l’attività neurocerebrale. Questa dottrina doveva incontrare molti sostenitori (per es., gli australiani Smart, Ullin T. Place, David Malet Armstrong), ma anche varie obiezioni, la più interessante delle quali è certamente quella che riguarda la possibilità di conseguire leggi scientifiche di correlazione tra eventi mentali ed eventi neurocerebrali. In alcuni influenti scritti degli anni Settanta, D.H. Davidson ha, per es., avanzato dubbi su questa possibilità, per via delle innumerevoli e variabili connessioni tra eventi mentali ed eventi neurocerebrali che le attribuzioni di stati mentali (credenze, desideri, ecc.) rendono legittimo ipotizzare; di qui l’ipotesi che ogni occorrenza mentale potrebbe essere realizzata in una molteplicità di stati neurofisiologici, rendendo così problematica l’individuazione di leggi psicofisiche. A conclusioni simili, sempre partendo dalla tesi della ‘realizzabilità multipla’ degli eventi mentali, sono giunti anche i sostenitori del cosiddetto funzionalismo (Putnam, Fodor, Dennett), per i quali non soltanto uno stesso stato mentale potrebbe realizzarsi in stati neurocerebrali diversi, ma addirittura in stati di composizione completamente differente da quelli neurofisiologici.
L’analogia preferita dai funzionalisti è quella tra la m. e il programma di un elaboratore digitale: gli stati mentali sarebbero come un software che può essere realizzato in hardware differenti. Di qui la caratterizzazione degli stati mentali nei termini delle funzioni e delle operazioni da essi svolte nel sistema psichico e la implausibilità di ogni tentativo di riduzione della m. alla neurofisiologia. Da considerazioni di questo tipo, che pure in gran parte si mantengono entro l’ambito di un moderato materialismo, hanno preso l’avvio innumerevoli ipotesi sulle analogie e l’identità tra funzioni mentali e computer, spesso confinanti e intrecciantisi con le ricerche di intelligenza artificiale (e riconducibili a quella vasta area che si è soliti denominare ‘scienza cognitiva’), anche se non mancano autorevoli obiezioni all’identificazione tra m. e computer (per es., da parte di Searle). In alternativa a tutte le precedenti concezioni è la teoria della m. di Popper e J.C. Eccles, i quali (nell’opera scritta in collab., The self and its brain, 1978; trad. it. L’io e il suo cervello) propongono una forma di dualismo (che chiamano «interazionismo») secondo cui agli stati mentali andrebbe riconosciuta un’esistenza autonoma. La coscienza, l’autocoscienza e i fenomeni ‘intenzionali’ sarebbero, per Popper ed Eccles, proprietà emergenti dalla continua interazione tra linguaggio, cervello e cultura.