mentalismo
Termine adoperato per indicare le concezioni che identificano il contenuto della conoscenza con stati mentali; in questo senso nel sec. 20° è stata considerata una forma di m. la gnoseologia di Locke, Berkeley e Hume, che riduce i dati della conoscenza a percezioni della mente. Forme di m. sono state anche considerate la filosofia di J.S. Mill e l’atomismo logico di Moore e di Russell. L’etichetta di m. è stata abitualmente usata in senso critico per riferirsi alle teorie psicologiche che fanno ricorso a entità, processi e stati mentali inosservabili (come intenzioni, desideri, credenze, ecc.) per spiegare il comportamento umano, e al m., in quanto dottrina psicologica non empiricamente controllabile, sono stati contrapposti, come teorie più soddisfacenti, il comportamentismo e l’organicismo pragmatistico. Dewey, tra gli altri, ha intrapreso una critica sistematica del m. in Logic, the theory of inquiry (1939; trad. it. Logica, teoria dell’indagine), offrendo come alternativa una concezione che vede l’attività della mente come prosecuzione naturale del comportamento organico. Il m. è stato fortemente criticato anche da Wittgenstein e dalla sua scuola e, più recentemente, da Quine, che, considerando non scientifico l’appello alle nozioni mentali nella teoria del significato oltre che in psicologia, in una serie di influenti opere e saggi ha avanzato argomenti a favore del comportamentismo skinneriano. Più recentemente, tuttavia, alle difficoltà che hanno messo in crisi il comportamentismo ha fatto seguito una ripresa del m. nel cognitivismo, dove i processi mentali sono considerati come un legittimo oggetto di studio della psicologia.