MENANDRO (Μένανδρος, Menander)
Commediografo greco, il più grande rappresentante della cosiddetta commedia nuova. Nacque in Atene il 343-342 a. C. da genitori aristocratici; suo padre si chiamava Diopeite del demo di Cefisia e sua madre Egesistrate (suo zio era Alesside, il famoso commediografo della commedia di mezzo). M., strabico (στραβὸς τὰς ὄψεισ), come avverte Suida, che cita probabilmente da Linceo di Samo contemporaneo di Menandro e autore di due volumi sulla sua vita e opera, ma acuto di mente (ὀξὺς δὲ τὸν νοῦν), fu certamente educato in ambiente colto e mondano. Amico di Epicuro e scolaro dello zio Alesside e di Teofrasto, egli dovette fin dalla giovinezza sentirsi chiamato al teatro. Fedro (V, 1) ce lo descrive di costumi piuttosto molli e delicati: unguento delibutus, vestitu fluens, veniebat gressu delicato et languido; ma Ausonio ce ne fa un ritratto tutto diverso, definendolo di vita severa, ma gaio e gioviale nei suoi drammi, e però probabilmente la verità è nel mezzo. M. è troppo fine osservatore della vita perché noi possiamo crederlo lontano da ogni mollezza o tutto preso dai piaceri mondani, e nella vita egli dev'essersi tuffato sempre compos sui, e sempre pronto a giudicarla sorretto da uno spirito critico vivace e sereno. Egli aveva 5 anni quando, a Cheronea, Filippo di Macedonia spense l'indipendenza greca, e 21 quando morì Alessandro. In quegli anni, terribili e ricchi di avvenimenti politici indimenticabili, morivano Iperide e Demostene, e una guarnigione macedone si stabiliva a Munichia per sorvegliare Atene. Nel 317 Cassandro mise al governo d'Atene Demetrio di Falero (come ἐπιμελητὴς τὴς πόλεωσ), e così M. trovò in lui, ch'era stato suo compagno di scuola, un valido appoggio fino al 307 quando l'espulsione del Falereo pare danneggiasse non poco anche gl'interessi del nostro commediografo. A un regime oligarchico ma liberale in fatto di cultura e di arte, successe quindi la falsa democrazia di Demetrio Poliorcete, e poi la dittatura di Lacare durata fin quasi alla morte di Menandro, avvenuta infatti nel 292. Aveva rappresentato la sua prima commedia, l'Heautontimoroumenos, nel 324, all'età di 18 o 19 anni, e vinto la prima volta con l'Ira nel 316, otto anni dopo, il suo battesimo teatrale. Ottenne in tutto otto vittorie, tre alle Lenee e cinque alle Dionisie: e però non è strano che Marziale dica di lui rara coronato plausere theatra Menandro, poiché egli scrisse ben 105 commedie. L'insuccesso presso gli Ateniesi è forse dovuto al fatto che egli era impopolare per ragioni politiche perché amico di Demetrio di Falero; ma che tuttavia molto lo stimassero i contemporanei lo prova l'invito di Tolomeo Filadelfo che lo avrebbe voluto in Alessandria. Morì ancora giovane, a 51 anni; e la tradizione racconta che affogasse bagnandosi nelle acque del Falero. La sua tomba, Pausania la vide accanto al cenotafio d'Euripide, sulla strada dal Pireo ad Atene, e vide anche, nel teatro maggiore della città, la sua statua tra quelle di Euripide e di Sofocle.
La critica letteraria s'interessò ben presto delle sue opere. Si è già detto che il suo contemporaneo Linceo di Samo trovò opportuno scrivere intorno a lui due volumi, e aggiungeremo qui che Aristofane di Bisanzio lo apostrofa con molto garbo nei versi famosi in cui esprime il dubbio che non il commediografo abbia imitato la vita, ma la vita Menandro. Commenti e altre opere del genere intorno alle sue commedie furono molti, e tutta l'antichità lo celebrò sempre come il più grande commediografo e l'interprete più efficace e vivace della realtà. Un critico romano (come pare, Cicerone) per esprimere la sua ammirazione per il teatro di Terenzio, chiama Terenzio dimidiatus Menander; Ovidio ritiene M. il vero e degno rappresentante della commedia; Quintiliano lo giudica affine a Euripide. Nell'arte poetica di Orazio è M. che rappresenta la commedia, e Plutarco scrive un "Confronto tra M. e Aristofane" in cui esalta il più giovane dei due. Menandro compone le sue commedie dopo che il teatro greco ha subito un profondo rinnovamento per opera d'Euripide e per influenza di fattori politici di grande importanza. Dalle scene non era più possibile aggredire nessun uomo politico anche perché gli Ateniesi avevano perduto quel morboso interesse per questioni simili, mentre ne avevano acquistato un altro, non meno ardente, per le manifestazioni della vita. L'Atene borghese era diventata psicologicamente ricca e complessa, e nelle scuole di filosofia si studiavano i caratteri umani con interesse e buon gusto. Altri fattori, che quelli puramente politici, governavano il nuovo mondo borghese: gli economici soprattutto, cui specialmente si rivolgeva l'attenzione di chi sulla scena doveva rappresentare fatti della vita. Già la commedia di mezzo, con Antifane, Eubulo e specialmente Alesside, aveva portato sulla scena argomenti della vita comune, amori o meglio amorazzi, etere, giovani innamorati, giovandosi perfino dei miti in vivaci parodie. Gli amori di Zeus, ad esempio, si prestavano benissimo come argomento d'una commedia che è ancora un compromesso tra la vecchia maniera e la nuova. Rappresentare gli dei e gli eroi come borghesi di questo mondo, significava già accettare qualche cosa da Euripide. Menandro, dunque, trova che il dramma comico è sentito come completamente diverso dalla commedia d'Aristofane, e che non più il fatto interessa ma il carattere del personaggio, che corrisponda al reale e lo riproduca.
Due suoi contemporanei e rivali, Difilo e Filemone, rappresentano, forse meglio di ogni altra considerazione, le condizioni del teatro greco al tempo del nostro commediografo. Nel Rudens plautino, che è un dramma imitato da un originale difileo, Difilo si palesa come un poeta il quale conosce il mondo dall'esterno e non dall'interno ed è appunto per questo diverso da M. I suoi personaggi non sono caratteri, sono figure: ma la plasticità loro è più forte della menandrea, sì che restano impressi piuttosto per il gesto col quale accompagnano le loro parole che per la drammaticità dell'azione. La natura loro è più istintiva che riflessa, e mentre sono incolori i personaggi borghesi, sono invece ben coloriti e vivaci quelli minori, gli schiavi. Filemone invece, se osserviamo il Trinummus plautino, è più incline alla ricerca del carattere, poiché appunto nel Trinummus troviamo un personaggio ricco di sentimento e vivacemente espresso nelle incoerenze dell'azione, che rivelano come nel Moschione della Samia un passo innanzi e quasi decisivo verso la commedia psicologica. I poeti della commedia nuova, e M. specialmente, cercano di cogliere dalla realtà il pathos del dramma, che non è commedia nel senso volgare della parola ma dramma della vita e però tragico e comico insieme: si attua così quello che Platone fa dire a Socrate alla fine del Simposio, quando egli è rimasto solo a discorrere con Agatone e con Aristofane: che il vero drammaturgo deve sapere comporre tragedie e commedie poiché la vita è tragedia e commedia.
Un'analisi del dramma menandreo meglio conosciuto ci convincerà delle novità apportate da M. Negli Epitrepontes compaiono come personaggi un cuoco, un servo (Onesimo), Smicrine padre e suocero avaro e arcigno, Pamfile sua figlia moglie del giovane Carisio, Cherestrato e Simia amici di Carisio, un'etera Abrotono, una nutrice Sofrone, un carbonaio Daos, e Sirisco un servo di Cherestrato. La commedia si apre con una scena tra il cuoco e Onesimo, nella quale si espongono brillantemente gli antefatti: il giovane Carisio ha abbandonato la moglie Pamfile perché le è nato un figlio che non può essere suo, avendola egli sposata da pochi giorni. È perciò ritornato alla sua vita di scapolo, e ora, insieme con l'etera Abrotono, si diverte in casa dell'amico Cherestrato. Il suocero Smicrine, preoccupato dal timore che, senza una separazione legale, il genero consumi anche la dote della moglie, cerca di convincere Pamfile al divorzio, ma, mentre si reca a casa del genero, Sirisco e Daos lo pregano di dirimere la questione sorta fra loro sui ninnoli d'un bambolo trovato giorni innanzi da Daos e da questi affidato poi a Sirisco che ne assume l'adozione: i ninnoli Daos li vorrebbe per sé, e Sirisco, invece, tutore geloso dei diritti del bambolo, li reclama suoi. Smicrine decide, secondo giustizia, che i ninnoli sono del bambolo e devono essere affidati a Sirisco. Rimane così sulla scena Sirisco insieme con la sua donna, quand'ecco che Onesimo, uscendo dalla casa di Carisio, scorge fra i ninnoli, che l'altro conta e osserva, l'anello del suo padrone, e tanto fa e dice che l'ottiene per un giorno da Sirisco nella speranza di poter venire a capo del mistero. Furbo qual'è, egli ha capito che quell'anello tradisce come padre del bimbo, abbandonato e raccolto dal buon carbonaio, il suo padrone Carisio e però si allea con l'etera Abrotono, la quale gli dice di riconoscere anche lei l'anello e di ricordarsi che, un anno prima, quell'anello era nelle mani d'una donna giovane la sera di una festa, di una giovane che fu stuprata quella stessa sera. L'etera promette, per aiutare le ricerche, di fingersi lei madre del bambolo e di mettere così Carisio nella disperazione più cupa. Essa lo fa per gelosia e per disinteresse: chiamata da Carisio, che spera di dimenticare con lei l'affetto per la moglie, è stata anch'essa allontanata dal giovane che non riesce a dimenticare la sua brava donnina. In tale ambiente, commosso e turbato, non scende però la tragedia, ma la felicità, poiché, dopo che Carisio, messo alla tortura dall'improvvisa e inattesa rivelazione di Abrotono che gli mostra l'anello e il bambolo, è caduto nel più terribile rimorso riconoscendosi colpevole della stessa colpa che non ha voluto perdonare a sua moglie, ecco, invece, che tutto si appiana. E la stessa Pamfile, la madre del bambolo, sicché Carisio non ha fatto altro che sposar di fatto sua moglie un anno prima, e Pamfile non ha altra colpa che quella di essersi lasciata amare da suo marito un anno prima. Altro che dote e divorzio! Smicrine ha perfino un nipote, e Abrotono acquista la sua libertà divenendo probabilmente moglie di Cherestrato. I personaggi di questo dramma sono tutti psicologicamente ricchi: Pamfile, Abrotono, Carisio, Smicrine non sono più maschere ma veri caratteri e non soltanto caratteri-tipo ma caratteri vivaci. Ognuno di essi subisce un piccolo dramma: Pamfile è la donna colpevole che i fatti poi dimostrano innocente, Carisio passa da una terribile situazione qual'è quella del marito tradito all'altra, non meno tormentosa, di trovarsi colpevole della stessa colpa di cui ha accusato sua moglie. Perfino Smicrine, vecchio arcigno e severo, dal dolore e dalla rabbia, in cui l'ha gettato l'improvviso dissidio sorto tra Pamfile e Carisio, passa poi, sia pure attraverso le facezie di Onesimo, alla gioia di sapere che tutto è composto e che egli è anche nonno di quel famoso bambolo, sull'appartenenza dei cui ninnoli era stato chiamato a decidere. M. non ha dimenticato, nella composizione della commedia, nessun particolare che potesse essere coerentemente sfruttato ai fini della drammaticità dell'azione. Accanto a personaggi come i tre suddetti, è molto spesso Onesimo, che, in dialoghi pieni di brio, rende più visibile le contraddizioni e le incertezze della natura di quelli e la disarmonia del carattere loro. Onesimo nel colloquio con Abrotono, in una vera parodia del "riconoscimento" come elemento tecnico della commedia nuova, scopre a poco a poco i veri sentimenti di questa buona etera, che raggiunge talvolta la nobiltà di Taide nell'Eunuchus terenziano, dramma imitato, come è noto, da una commedia di M. Anche Abrotono, un'etera, un personaggio cioè che nella commedia precedente era poco più che una maschera, negli Epitrepontes presenta invece la disarmonia e l'inquietudine propria di Carisio e di Pamfile, impetuosa e dubitosa anche lei, e facile a lasciarsi trasportare dalla passione per poi cadere nel pentimento.
Il principio costruttivo dei caratteri in M. è questo: nessuna esasperazione di sentimenti, nessuna esagerazione tragica o comica degli avvenimenti, ma una disarmonia che è risultato di osservazione diretta e non è affatto aiutata da reminiscenze letterarie. M. è molto vicino a Euripide, ma tuttavia è più moderno di Euripide, e le creature sue sono normali e comuni. Così nell'Heros dove c'è il dramma d'uno schiavo, nella Perikeiromene ove rivivono le gelosie d'un soldato e il dispetto amoroso d'una cara fanciulla borghese, e così anche nella Samia, che, sebbene più antica delle altre commedie, ci presenta già quello studio particolare del carattere che in un dramma come gli Epitrepontes è diventato perfetto e conchiuso. L'esposizione e il riconoscimento in M. non sono più espedienti tecnici volgari, con il carattere d'una burla e d'una beffa: sono diventati, sebbene ancora convenzionali, intima ragione del dramma al quale donano un colorito romantico e romanzesco.
La commedia di M., e, in genere, la commedia nuova, non ha né la πάροδος né l'ἀγών né la παράβασις, che sono, invece, i tre principali elementi della commedia d'Aristofane e dell'antica. Essa è divisa in cinque atti, e ciascun atto è separato dall'altro da un intermezzo musicale, contrassegnato negli antichi libri su papiro dalla parola χοροῦ. Dopo il primo atto degli Epitrepontes l'intermezzo era cantato probabilmente da un coro di giovani avvinazzati (μειρακυλλίων ὄχλος... ὑποβεβρεγμένων, 34), e questo doveva esserci nell'Heautontimoroumenos originale. La commedia di M. ha struttura simile a quella della tragedia euripidea, in cui il coro ha una funzione quasi del tutto lirico-musicale.
Il metro preferito è il trimetro giambico che ammette, oltre il giambo, anche lo spondeo, il tribraco, il dattilo e l'anapesto, e, contrariamente al trimetro della tragedia, si concede la licenza di due di tre e anche di quattro piedi trisillabici nello stesso verso (ad es. tre anapesti in Samia, 323, e quattro piedi trisillabici in Epitrep., 630). Il dattilo è ammesso al quinto piede e l'anapesto indifferentemente in uno dei primi cinque piedi: il papiro Cairense ammetterebbe all'inizio del verso 631 degli Epitrepontes un dattilo seguito da anapesto, ma esso è stato corretto [αλλαπερ in αλλη]. La cesura più frequente è la pentemimera, ma non pochi trimetri sono privi di cesura; il trimetro può finire anche con parole come ὅτι, ὅπως, ἐπεί,ἵνα, καί, e l'articolo determinativo. Spesso, ìnsieme col trimetro, è adoperato il tetrametro trocaico che dà all'azione un movimento più eccitato perché verso semilirico. Esso è costituit0 da otto piedi di trocaici catalettici, con possibilità di soluzioni. Spondei e anapesti sono ammessi al secondo al quarto e al sesto piede, il tribraco è specialmente adoperato nel primo e nel quinto piede; il dattilo è raro ma occorre nel quinto piede di Perikeiromene, 150. Altri versi M. adopera nelle sue commedie, come testimoniano frammenti noti prima delle scoperte papiracee. Ad esempio il dimetro anapestico composto di quattro anapesti in serie chiuse da un paremiaco, e forse anche l'esametro omerico.
La scena della commedia di M., e della nuova commedia in generale, è quasi sempre una strada sulla quale guardano le facciate di due case. I personaggi vestono abiti che servono a distinguere la loro origine e il loro stato sociale. I gentiluomini vestono di rosso, le gentildonne di blu chiaro o giallo, di nero o di grigio i parassiti. I campagnoli portano una tunica di pelle, bastone, bisaccia, e tutti indistintamente calzano il soccus (ἑμβάς). Anche le maschere, anzi soprattutto le maschere, presentano notevole varietà: ad esempio, Smicrine negli Epitrepontes compariva come un vecchio arcigno dalla barba lunga appuntita quasi a pappafico (σϕενοπώγων), mentre Demeas della Perikeiromene doveva essere un vecchio dal viso aperto e dalla barba ampia, πρεσβύτης μακραπώγων. Pamfile negli Epitrepontes, perché ψευδοκόρη, doveva essere di colorito pallido con i capelli a treccia, e probabilmente aveva veste bianca bordata di rosso; così come Carisio, e più di Carisio il Moschione della Samia, doveva avere tutti i caratteri del giovane innamorato e magari i capelli ricciuti. Insomma, le maschere cercavano di riprodurre quanto più e meglio fosse possibile i sentimenti dei personaggi. I quali s'aggiravano, come numero, tra nove e undici, e agivano in due o tre per scena, sebbene spesso fossero presenti anche più di tre attori, qualcuno dei quali, però, era persona muta, era cioè sulla scena in disparte per ascoltare non veduto, o semplicemente come personaggio che non aveva ragione alcuna d'interloquire nel dialogo degli altri.
Le commedie di Menandro, cominciatesi a rappresentare dopo la morte d'Aristotele, si mantennero a lungo sul teatro: al tempo d'Augusto e di Claudio, e ancora al secolo III, come informa Frontone di Emesa che ricorda espressamente i seguenti drammi Θησαυρός, Φάσμα, Μισούμενος, Γεωργός, Περικειρομέη, che si rappresentarono con successo. Cinque delle sei commedie di Terenzio sono derivate da M., e anche alcune di Plauto, tra cui l'Aulularia.
Il vecchio M. era di circa duemila versi, noti per citazioni di grammatici e di antologisti poiché anche M. godé della buona o cattiva ventura delle antologie. Novanta titoli dei centocinque ci sono rimasti, alcuni, come: Il Cretese, Il Cartaginese, l'Efesino, La donna di Cnido, il Locrese, La donna di Olinto; altri come: L'incendio, Il superstizioso, L'iroso; altri ancora come: L'accusato ingiustamente, Il nemico delle donne, ecc.; tutti, specie gli ultimi, tali da fare immaginare come l'argomento della commedia dovesse essere sempre inteso a rappresentare caratteri e situazioni psicologiche. I papiri ci hanno dato il nuovo M.: nel 1844 il Tischendorf scoprì nel monastero di S. Caterina sul Sinai una pergamena con un frammento del Φάσμα e altri degli 'Επιτρέποντες; nel 1897 il Nicole scoprì in Egitto il papiro del Γεωργός; più tardi, gl'Inglesi scoprirono papiri del Κόλαξ, del Μισούμενος, della Περινϑία, e nel 1905 il Lefebvre scoprì il famoso papiro Cairense con 1468 versi di M. contenenti "Ηρως, 'Επιτρέποντες, Περικειρομένη, Σαμία, cioè Lar familiaris, L'arbitrato, La donna tosata, La donna di Samo. Il più recente di questi drammi è L'arbitrato, di cui abbiamo parlato a lungo poco prima, perché dell'anno 300 all'incirca; La donna tosata è del 314, La donna di Samo è forse molto più antica. Gl'Italiani hanno scoperto anch'essi il frammento 126 dei Papiri Societȧ italiana appartenente a una delle prime commedie menandree, e di recente un altro frammento anch'esso di commedia ignota. Importante è un papiro di Ossirinco contenente notizie e didascalie delle commedie menandree, di cui restano frammenti su I cittadini di Imbro e su La sacerdotessa.
Ediz.: Le edizioni del nuovo M. ultime e più al corrente sono quella di F. G. Allinson, Menander. The principal fragments with an English translation (Londra 1921); l'altra di Chr. Jensen, veramente notevole, Menandri reliquiae in papyris et membranis servatae (Berlino 1929); e l'italiana di G. Coppola, Menandro, Le commedie (Torino 1927). Rimane degna di consultazione la prima edizione di G. Lefebvre, Fragments d'un manuscrit de Ménandre (Cairo 1907), e quella di S. Sudhaus (Bonn 1914).
Bibl.: L'amplissima bibliografia su M. è registrata nell'introduzione all'ed. dello Jensen. Ottimi, in Italia, gli studî di G. Pasquali, in Atene e Roma, 1917, p. 177 segg.; 1918, p. 57 segg., sull'arte di M.; in Germania è notevole la prefazione del Wilamowitz all'edizione dell'Arbitrato: M., Das Schiedsgericht, Berlino 1925. V. anche G. Capovilla, M., Milano 1924; A. Röste, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., XV, coll. 707-761. Manca però ancora un'opera d'insieme adeguata.