Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il genere autobiografico contende al romanzo il dominio nella cultura letteraria del Settecento e ne rappresenta l’immagine per la scrittura intrigante e rapsodica nella quale traluce il destino cosmopolita dell’uomo del secolo.
Alle spalle del prototipo di autobiografia filosofica settecentesca premono i modelli della memoria scientifica che avevano scandito, sotto la penna di Bacone, Hobbes e Cartesio, le tappe del procedere collettivo della conoscenza sotto gli auspici della modernità.
Individuando un percorso e un ordine faticosamente ricostruito a posteriori, Cartesio scrive le pagine del Discorso sul metodo nelle quali le metafore del viaggiatore e dell’architetto si integrano allegorizzando l’immagine di un sapere che, una volta faticosamente posseduto, illumina sia il percorso svolto, sia il metodo dell’indagine. Gli chemins individuati dal razionalismo cartesiano confinano con la brevità della vita, che obbliga a confessare quanto si è conosciuto dopo aver esposto analiticamente i dubbi ai quali risponde la presa di coscienza del cogito.
L’esame di coscienza di impostazione gesuitica viene riproposto davanti all’autorità della ragione che domina un cammino di conversione che è la parafrasi laica degli esercizi spirituali di sant’Ignazio. Dal Seicento al Settecento, mediata dal Caloprese, si diffonde, soprattutto nell’area meridionale, l’influenza di Cartesio, non soltanto per il Discorso, quanto per quelle Passioni dell’anima, che costituiscono, con la loro analitica dei moventi affettivi, un importante modello d’introspezione psicologica per gli autori delle autobiografie del Settecento.
In ambito napoletano, mentre il D’Andrea degli Avvertimenti fornisce il modello per una memorialistica borghese fondata sull’ ethos della modestia e della fatica, si afferma la Vita di Vico (1728) che, dispiegata in “piccoli capitoletti e parti brevi e gustosissime”, resiste alla tentazione del discontinuo per celebrare il processo escatologico della glorificazione del filosofo nelle pagine della Scienza nuova. Nei drammatici dilemmi di redenzione e riscatto, fatiche e avversità, Vico – abbandonando il pacato dialogare del racconto cartesiano – investe il récit della Vita del significato tragico di un destino anticipato dalla mitizzata descrizione degli avvenimenti che rivelano con l’umore collerico il carattere eroico della sua esistenza, prossima al martirio di un novello Socrate.
Il modello vichiano, consolidato in Italia dagli esempi delle autobiografie del Giannone e del Muratori, si stempera, quando si passi alla Mia vita di Hume (1776), nell’ understatement di un succinto racconto che rimanda il lettore a verificare la verità dello scritto nella realtà dei fatti. Cogliendo nell’ultimo tempo della sua malattia l’occasione per un breve autoelogio funebre, Hume afferma la dignità del filosofo nel carattere ben temperato e nel sobrio distacco tanto dalle sirene del successo mondano quanto dal terrore dell’ exitus vitae.
Nel rievocare la breve storia dei suoi scritti l’autore della Storia naturale della religione si prepara a spegnersi contendendo il suo tempo fra le partite di wist e la lettura dei Dialoghi dei morti di Luciano, senza tacere la sua soddisfazione di homo oeconomicus per il buon successo commerciale delle sue opere.
Dalla dignitas eroica del Vico, passando per il positivo senso della vita di Hume, si giunge, secondo il ritmo di un anticlimax, alla desacralizzazione delle Confessioni di Rousseau (1782), che fanno subentrare al coerente disegno delle opere e dei giorni dell’uomo di lettere il capriccio affabulatorio, la volontà inclusiva di eventi privati al limite del pornografico, l’indugio (siamo in epoca di sensismo) nella descrizione delle proprie emozioni, spesso rielaborate sulla base di episodi dell’infanzia. Rivolgendosi al pubblico dei romanzi, in tempi nei quali il giornale intimo sta assurgendo con il Lavater del Diario segreto di un osservatorio di se stesso (1771-1773) alla dignità letteraria, le Confessioni riscrivono le regole del genere memorialistico nei termini della moderna autobiografia: “Mi impegno in un’impresa senza esempio e la cui esecuzione non avrà imitatori. Voglio mostrare ai miei simili un uomo nella nuda verità della sua natura”.
Il paradigma dell’originalità subentra dunque a quello dell’esemplarità. L’ imitatio vitae ha lasciato il posto alla vita inimitabile, la cui condotta assolutamente unica si rappresenta nell’irripetibile intreccio di quei fatti ai quali Hume accredita semplicemente la funzione di controllo delle proprie affermazioni memorialistiche. Contrariamente a quanto gli suggerisce il suo ego letterario, Rousseau sarà imitato nella tensione all’esperienza personalissima dello scrivere au gré du vent, cioè abbandonato al capriccio del caso, da letterati e avventurieri che percorreranno l’Europa, scandendo le tappe del loro Grand Tour nelle sapide pagine delle autobiografie.
Nell’ultimo ventennio del Settecento sull’esempio di Rousseau la narrazione autobiografica, dispersa come forma di coscienza in tutti i generi letterari, dal sonetto alla lettera, dalla relazione di viaggio al romanzo, si coagula con straordinaria fortuna stilistica nelle memorie di uomini che fanno allo stesso tempo parte delle gens du monde e della repubblica delle lettere. Avventura e viaggio, erotismo e gloria letteraria, melanconia e comicità picaresca sono i soggetti di uno scrivere che, se è confinato negli anni della vecchiaia, recupera il ritmo di un mouvement ora forsennato, ora cupo e languoroso nelle contrade d’Europa.
Nel 1789, quando in Francia dilaga l’evento della Rivoluzione, Giacomo Casanova nel ritiro boemo del castello di Dux comincia la narrazione della Storia della mia vita dando forma, con l’inesauribile récit della sua esistenza, al ritratto dei protagonisti dell’ ancien régime. L’Europa dei sovrani e dei filosofi, delle dame e degli avventurieri entra nelle pagine delle sue memorie quando sta tramontando sull’orizzonte della storia.
Caterina II, Federico II, Cagliostro, Haller, Voltaire parlano con il sapido narratore che tenta, con procedimento picaresco, di volgere il dialogo a favore del riconoscimento dei meriti della propria vita en philosophe. Allo svelamento erotico della scrittura casanoviana fa eco Monsieur Nicolas (1794-1797), romanzo autobiografico di Restif de la Bretonne, che dichiara, come il picaro veneziano, di volere stabilire con i suoi lettori un rapporto complice fondato sul riconoscimento di “tutte le mie debolezze, tutte le mie imperfezioni e ogni turpitudine”.
Storia della mia vita
Furono Dall’Oglio e la sua graziosa moglie che, con i loro discorsi, mi fecero pensare che, se il re di Prussia non mi avesse impiegato come volevo avrei potuto recarmi in Russia. Tra l’altro, essi non solo mi assicurarono che in Russia avrei fatto fortuna, ma mi diedero anche alcune buone lettere di presentazione.
Dopo la partenza di Dall’Oglio e della moglie da Berlino divenni l’amante della Denis. La nostra intimità cominciò una sera dopo cena in cui la poveretta fu colta da violente convulsioni che le durarono poi tutta la notte: come era giusto, non mi allontanai mai dal suo capezzale e il giorno dopo ricevetti la ricompensa che una costanza di ventisei anni meritava. La nostra relazione durò fino alla mia partenza da Berlino e poi la riallacciammo a Firenze, sei anni dopo, come vedremo quando sarà arrivato il momento.
Qualche giorno dopo la partenza di Dall’Oglio, la Denis mi accompagnò gentilmente a Postdam per farmi visitare tutto ciò che meritava di essere visto. Quanto alla nostra relazione nessuno poteva trovare nulla da ridire, perché lei aveva detto a tutti che ero suo zio ed io, di fatto, la chiamavo sempre cara nipote. Anche il generale suo amico, in effetti, non aveva alcun sospetto o fingeva di non averne.
A Potsdam tra le altre cose, vedemmo il re uscire in parata alla testa del suo primo battaglione. Notai che tutti i soldati avevano nel taschino dei calzoni un orologio d’oro. Con quel dono, infatti, il re aveva ricompensato il loro coraggio nel soggiogarlo come Cesare in Bitinia aveva soggiogato Nicomede: la cosa era risaputa.
G. Casanova, Storia della mia vita, Milano, Mondadori, 1984
La lezione di Rousseau è già stata appresa e permette di rovesciare il panegirico dello scrittore nella constatazione delle debolezze umane che lo accomunano al lettore. L’enciclopedismo delle memorie, nella digressione costante fra un genere e l’altro esprime a livello stilistico la percezione della perdita di centro di un iter vitae divenuto ora privo di meta.
L’intreccio dell’esistenza si rivela simile a un divagante percorso sempre aggiornato sulla mappa del caso che si fa tiranno degli itinerari europei di Carlo Goldoni nei chemins tortueux delle sue Memorie (1783-1787).
In viaggio verso Parigi, dove lo conduce il genio comico, Goldoni sperimenta gli alternanti stati d’animo di vivace emozione e cupa noia. Le divagazioni mentali sono prigioniere di un istante sospeso fra passato e futuro confessato nella sua labile jouissance dalla stessa parola del commediografo: “i piaceri e i dolori si succedevano rapidamente nel mio cuore e il giorno nel quale ero stato felice era quasi sempre la vigilia di un avvenimento infausto”.
Fra peripezia e dramma si muove anche il racconto delle Memorie (1824-1827) del librettista di Mozart, Lorenzo Da Ponte. Rinnovando il mito dell’ebreo errante lungo il percorso che lo conduce dal Veneto agli Stati Uniti, attraverso Vienna e Londra, Da Ponte piega il genere memorialistico alle necessità di un récit frammentario nel quale il tempo discontinuo fra avventura e attività letteraria coincide con la scelta di una parola eccitata e sopra le righe, che non di rado chiama in causa il lettore, lusingandone con accento di imbonitore la sapienza critica.
Lo stesso momento della creazione poetica è sottratto alla ingombrante influenza delle Muse per essere riscritto alla più affabile presenza di una graziosa servetta che, offrendo biscotti allo zibibbo e caffè, tempera l’estro del poeta intento a comporre i versi del Don Giovanni : “ella mi portava or un biscottino, or una tazza di caffè or niente altro che il suo bel viso sempre gaio, sempre ridente e fatto appunto per ispirare l’estro delle idee spiritose”.
Da Ponte, sulla scia di quanto avevano già stabilito le Confessioni di Rousseau, conferma nelle sue Memorie la rappresentazione del quotidiano come contenuto teatrale dell’esistenza, come una battuta a effetto affiorante dai vivaci ritratti della narrazione. Basti pensare al ricordo di Giacomo Casanova ritrovato a Praga insieme a Gioacchino Costa, suo complice nella truffa alla marchesa d’Urfé.
È quasi una succinta biografia, che si conclude quando il picaro veneziano entra nelle pagine delle Memorie indossando il cammeo di Mercurio, protettore dei ladri.
Un altro celebre scrittore di teatro, Carlo Gozzi, scrivendo all’indomani della caduta della Repubblica di Venezia le sue Memorie inutili (1797), dichiara, nonostante lo spirito antifrancese, l’appartenenza al modello dell’autobiografismo romanzesco. I “fardelletti di avvenimenti” si susseguono senza apparente ordine causale nella sua scrittura, che fa il verso ora al romanzo d’avventura (il viaggio in Istria), ora al romanzo galante (il racconto dei tre amori), perseguendo il fine di eludere gli accenti apologetici che contrappongono le Memorie inutili alla Narrazione apologetica (1779) di Gratarol.
Le riflessioni sugli “andazzi” della storia condiscono l’apparente distacco con il quale Carlo Gozzi osserva il teatro del mondo godendosi, nel riposo drammaturgico, il ruolo di osservatore delle follie umane.
Dalla penna distaccata e divertita di Carlo Gozzi si passa alla scrittura fervida di Vittorio Alfieri, che denuncia nelle pagine dell’autobiografia non soltanto la lettura delle Memorie e avventure di un uomo di qualità (1728-1731) di Prévost, ma soprattutto il modello delle Vite di Plutarco, ritrovato nell’adesione a un linguaggio energico e impetuoso. Snob saturnino, viaggiatore inappagato, nel suo muoversi fra le capitali europee e le solitudini ghiacciate dell’Europa del nord, Alfieri scrive la sua Vita (1804) lasciando, come il Gozzi, il francese cosmopolita, scelta obbligata per Casanova e Goldoni, a favore dell’italiano mutuato dalla tradizione cinquecentesca della prosa del Machiavelli.
Scosso dai fierissimi intoppi della sua vita sentimentale, il viaggio memorialistico abbandona, dopo avere lusingato il lettore, il tempo della prosa di viaggio e di avventura per costituirsi come la trama nervosa di una vocazione letteraria, simboleggiata dal taglio della fulva chioma. Abbracciato come una liberazione dalle passioni, lo studio delle lettere diviene quella dominante che sfocia nell’attività dell’Alfieri come poeta tragedo.
Il tono altamente patetico della Vita alfieriana si diluisce quando si incontrano le Memorie (1807) di Marmontel, nello stile piano di un piccante colloquio sulla porta dei salotti di Madame de Tenencin e Madame de Goeffrin. I ritratti dei philosophes si succedono, negli anni che vanno dalla redazione dell’ Encyclopédie alla Rivoluzione francese, nei ritmi di una prosa sapientemente digressiva. Sembra che l’intreccio rapsodico della narrazione si estenda ormai egemone al genere autobiografico del secondo Settecento, confermando la fortuna della scrittura au gré du vent sia nello stile eroico dell’Alfieri, sia in quello sospeso fra giornalismo e teatro del Marmontel.
Nello stesso tempo la passione per il ritratto dal vero, taciuta la preoccupazione umanistica dell’omaggio alla dignitas dello scrittore, pervade la scrittura memorialistica di Giustiniana Wynne, dama angloveneta autrice degli Opuscoli morali e sentimentali (1822), denunciando la precarietà di ogni travestimento: “Egli è difficile che due begli occhi non penetrino attraverso della maschera la meglio attaccata, se chi la tiene sul volto trascura in una seducente conversazione di riserrare i nodi che l’attacchino alla sua”. Nulla meglio di questa immagine della maschera, allentata sul volto di un homme d’esprit dal seducente eloquio, suggerisce la fisionomia del dialogo fra scrittore e lettore nella scrittura di memorie del secondo Settecento.