Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Novecento è stato definito un’epoca neobarocca per la riscoperta del Seicento come origine della modernità e delle sue antinomie. La spiritualità tormentata di questo secolo si riflette nel barocco, specchio dell’inquietudine che domina le poetiche contemporanee tra letteratura e arti figurative. In particolare poeti come Eliot, García Lorca e Ungaretti rivalutano la lezione tecnica di Góngora nel descrivere il vuoto e la dissoluzione.
Controcorrente, Cap. I
Quando la casa di Fontenay fu pronta, sistemata secondo i suoi desideri e i suoi piani da un architetto, quando non restò più che stabilire la disposizione dell’arredamento e la decorazione, di nuovo esaminò a lungo la successione dei colori e delle loro sfumature.
Quel che voleva erano colori che si rivelassero alla luce fittizia delle lampade; poco gli importava che alla luce del giorno apparissero scialbi o aspri.
La sua vita infatti si svolgeva quasi solo di notte, perché allora si stava meglio a casa, si era più soli, e l’anima non si eccitava e non s’infiammava veramente se non nel contatto immediato coon l’ombra. [...] Conclusi questi preliminari, fece in modo di scartare, per quanto possibile, almeno per il suo studio, stoffe e tappeti orientali, diventati così fastidiosi e ordinari oggi che i commercianti arricchiti se li procurano, a prezzi ridotti, nei negozi di novità,. Alla fine, decise di far rilegare le pareti come libri, con del marocchino a grana grossa schiacciata, in pelle del Capo lucidata da robuste lastre di acciaio, sotto un pesante torchio.
J.-K. Huysmans, Controcorrente, Roma, Newton Compton, 1998
Tra i fenomeni più rilevanti nel panorama europeo del Novecento si distinguono il ritorno e l’interesse per il barocco, tradizionalmente respinto dalla critica come sinonimo del brutto artistico, espressione di deformità e decadenza. Al contrario la cultura contemporanea scopre l’intima sintonia con un Seicento reinterpretato come origine della modernità e delle sue contraddizioni, secondo una tendenza confermata dall’annuncio di apertura del convegno della Décade di Cerisy-la-Salle del 1976: “Nous sommes entrés dans l’ère du baroque”. In questo senso è tutta da notare una pagina di Elio Vittorini, tratta da “Nuovi Argomenti”, sulla corrispondenza tra “le innovazioni formali del barocco” e “tutto ciò che di nuovo sta succedendo nel mondo sul piano delle scienze, delle tecniche, dei rapporti economici, dei rapporti sociali, dei rapporti politici e dell’ideologia in generale”. In tale prospettiva si potrebbe definire questo secolo come età neobarocca, per la consonanza con un’epoca di crisi che sembra annunciare l’inquietudine e lo smarrimento del presente. Già usato da Gillo Dorfles nelle pagine sul Barocco e l’architettura moderna, poi nell’Elogio della disarmonia, il termine “neobarocco” viene riproposto da Omar Calabrese per indicare la costante formale comune ad “alcuni oggetti culturali del nostro tempo”, contraddistinti dalla “perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza”.
Come suggerisce Luciano Anceschi, nel saggio Idea del Barocco, in Barocco e Novecento, il barocco diviene lo specchio della condizione di “lucida delirante angoscia” dell’uomo contemporaneo, espressione di un dramma nel contempo esistenziale e artistico: “C’è un frequente avvicinarsi degli uomini del Novecento alle opere del Seicento, e c’è il richiamo, così frequente nei maggiori poeti e critici contemporanei, a scoprire la verità della poesia del Seicento, quello splendido figurare metafore infinite e apertissime che fu modo di conoscenza proprio del secolo. Il Novecento ha avuto per certi aspetti esperienze analoghe: e c’è da pensare che tutte queste constatazioni vadano intese, appunto, entro l’àmbito di uno stato di profonda e segreta relazione tra il Seicento e il Novecento”. Tale rispecchiamento si accentua soprattutto tra le due guerre, con un senso di precarietà e rovina che richiama la spiritualità tormentata dell’uomo barocco. Invero il fenomeno si manifesta pienamente a partire dagli anni Venti e Trenta, quando l’intreccio con il barocco percorre le poetiche tra letteratura e arti figurative, con la rilettura di poeti quali Thomas S. Eliot, Giuseppe Ungaretti, Federico García Lorca, ma anche il recupero dei secentisti da parte di pittori come Scipione (pseudonimo di Gino Bonichi; 1904-1933), o la reinterpretazione picassiana delle vanitates, sino all’esuberanza decorativa dell’art nouveau e ad Antoni Gaudí.
In realtà le radici della riscoperta barocca risalgono alla seconda metà dell’Ottocento, in un certo modo anticipate dal pensiero di Nietzsche con l’intuizione del principio dionisiaco, ovvero dell’ebbrezza e della tensione dell’arte in antitesi con la serenità apollinea. Si annuncia così l’orientamento nuovo del gusto che domina il clima decadente, il quale rivaluta la tarda latinità e il barocco considerati “degenerazioni” dalla critica classicistica. Nell’atmosfera estenuata della civiltà al tramonto, i poeti prediligono le raffinatezze di un’arte rara e preziosa, mentre le decomposizioni stilistiche si contrappongono alle regole dell’estetica classica. Già Charles Baudelaire nella nota a Franciscae meae laudes (1857) esalta la “grazia selvaggia e barocca dell’infanzia” nella lingua dell’ultima decadenza latina, celebrata a sua volta da Théophile Gautier nella Notice ai Fleurs du mal (1868), dove si ripropone la contrapposizione tra la “barbarie” dell’immaginazione barocca e la monotonia della poesia classica. Sedotto dalle eccentriche complicazioni della preziosità gongorina e dalla creatività dei barocchi francesi, catalogati sotto il titolo di Grotesques (1844), Gautier stabilisce un’equazione precisa tra arte barocca e modernità, unite dall’ansia del nuovo. La sovversione del pregiudizio classicistico si compie in À rebours di Joris-Karl Huysmans (1884), manifesto del decadentismo europeo che trasforma le “stravaganze barocche” in un vero e proprio canone caratterizzato da una rivalutazione senza precedenti di epoche anticlassiche, nelle quali si riconosce per la prima volta, tra i segni dell’agonia e della corruzione, l’inizio di una sensibilità rinnovata. L’analogia tra barocco e tarda latinità si ritrova in Marius the Epicurean di Walter Pater (1885), particolarmente nel capitolo Eufuismo – una variante del barocco europeo – dedicato alla riflessione sul linguaggio e al rinnovamento dei mezzi espressivi. Al tempo stesso il simbolismo riscopre il gusto barocco della preciosité, particolarmente visibile in Stéphane Mallarmé, non per caso sovente accostato a Louis de Góngora, ma anche nelle predilezioni barocche di Paul Verlaine, attestate da un sonetto come À propos d’un “centenaire” de Calderon (1881). Né può sfuggire la riabilitazione dei cosiddetti “corruttori del gusto” nelle pagine di Remy de Gourmont, il quale infrange i dogmi della critica convenzionale, pronunciandosi a favore di Giambattista Marino, Góngora, John Lyly, Honoré d’Urfé.
Ma la revisione più lucida e coerente proviene dalla critica d’arte rappresentata da Heinrich Wölfflin, il quale in Renaissance und Barock (1888) intuisce la specificità del barocco come antitesi dell’equilibrio classico determinata da una nuova visione del mondo. Nel momento in cui respinge l’idea del barocco come mera degenerazione dell’armonia rinascimentale, si delineano i tratti distintivi di uno stile opposto al classico: movimento, emozione concitata, espressione drammatica dell’ebbrezza e del divenire, ricerca della dissonanza, tensione costante all’infinito, dissoluzione dell’unità, “agire enfatico”, “passione impetuosa”. È un’arte dell’eccesso e della dismisura, definita in Kunstgeschichtliche Grundbegriffe (1915) come svolgimento dal lineare al pittorico, dalla visione di superficie alla visione di profondità, dalla forma chiusa alla forma aperta, dalla molteplicità all’unità, dalla chiarezza assoluta alla chiarezza relativa. Alla riabilitazione avviata da Wölfflin sembra aderire più tardi la critica d’arte italiana, la quale manifesta un interesse inedito per il problema del barocco a partire dai primi interventi caravaggeschi di Roberto Longhi negli anni Dieci, dedicati al luminismo rivoluzionario e all’unità drammatica di luce e ombra. Al tempo stesso, nel clima del ritorno all’ordine dell’immediato dopoguerra, la rivista “Valori plastici” riflette sulla “mania del Seicento” che si è diffusa nelle arti figurative, come testimonia tra l’altro la Mostra della pittura italiana del Seicento e del Settecento organizzata a Firenze nel 1922. Nel dibattito intervengono pittori e critici, da Giorgio de Chirico, avverso al “secolo fumoso del bitume e delle screpolature” in nome della chiarezza e solidità classiche, a Lionello Venturi, più aperto a riconoscere l’originalità della pittura secentesca. Ancora concordi nella valutazione negativa, ma pronti a comprendere certe ragioni del barocco come archetipo di modernità, appaiono Carlo Carrà e Kurt Suckert (Curzio Malaparte, 1898-1957), il quale riconosce nelle forme deliranti del Seicento una prefigurazione della drammaticità presente (La pazzia del Seicento). D’altronde la passione per il Seicento unisce i pittori della cosiddetta Scuola romana, nata dal sodalizio di Mario Mafai, Antonietta Raphaël e Scipione, il quale nello scritto su El Greco “primo artista moderno” definisce i principi di un’estetica neobarocca, con l’elogio dell’impeto deformatore che sconvolge la geometria classica. E prossimo al barocco appare il cromatismo fluido e caldo dei suoi quadri, la tinta sanguigna dei paesaggi estivi, l’aria scura e lampeggiante dei cieli romani, il tonalismo dominato da accenti bruni e rossastri, evidenti nell’Apocalisse o nel Cardinal Decano.
Ma colpisce soprattutto la convergenza dell’interpretazione longhiana con l’attrazione per i chiaroscuri caravaggeschi manifestata da Carlo Emilio Gadda nel Cahier d’étude del Racconto italiano di ignoto del Novecento, iniziato nel 1924, con la dedica “Al mio grande ed inarrivabile maestro Michelangelo Amorigi da Caravaggio”. Qui assume un risalto particolare l’esaltazione della luce nella Vocazione di San Matteo, insieme alle pagine dell’Apologia manzoniana, dove la “contaminazione grottesca” diviene immagine della contemporaneità tormentata. Si definisce in questo modo il volto barocco di uno scrittore assillato dall’ossessione per il groviglio, la deformazione, il frammento, la quale si traduce nella distorsione linguistica e nella proliferazione narrativa come risposta a una realtà radicalmente incerta e contraddittoria. Non per nulla nel dialogo immaginario con l’editore che si legge nella prefazione alla Cognizione del dolore, Gadda spiega le ragioni di un barocco inteso come specchio del molteplice e del polimorfo: “Ma il barocco e il grottesco albergano già nelle cose, nelle singole trovate di una fenomenologia a noi esterna: […] grottesco e barocco non ascrivibili a una premeditata volontà o tendenza espressiva dell’autore, ma legati alla natura e alla storia. […] Talché il grido-parola d’ordine barocco è il Gadda! potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto: barocco è il mondo, e il Gadda ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”, vero manifesto di un’arte della deformazione espressionistica che nasce da una percezione esasperata del reale.
Dall’altra parte la critica letteraria italiana di inizio secolo appare ancora lontana da una rinnovata comprensione del secentismo, in dissonanza rispetto all’atmosfera fin de siècle e alle ragioni dell’avanguardia, più incline ad accogliere le suggestioni neobarocche. Con l’eccezione di Enrico Nencioni, il quale nel saggio sul Barocchismo del 1894 riconosceva la modernità del barocco, affermando che “noi siamo oggi tutti un po’ barbari, un po’ bizantini, un po’ barocchi”, i critici appaiono concordi nel censurare il ritorno all’estetica del Seicento, a partire da Alfredo Cesareo (1860-1937), particolarmente severo contro la rinascita del secentismo, e Arturo Graf (1848-1913), il quale condanna l’“isterismo di novità” e le stravaganze della poesia barocca. Questa linea culmina nella lettura di Benedetto Croce, il quale dapprima sembra in qualche modo mitigare i toni accesi della reazione antisecentista nell’antologia dei Lirici marinisti (1910) e nei Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911), nell’intento di cogliere l’oggettività di questo periodo della storia umana, peraltro ancora considerato quale epoca di decadenza. Ma, nella Storia dell’età barocca in Italia (1929), l’apertura iniziale si irrigidisce e si accentua la negatività del giudizio, che ora assume una connotazione morale. In tale prospettiva il barocco viene respinto come peccato estetico, sinonimo di brutto artistico, perversione artistica, deformità e corruzione.
Se la querelle sul secentismo divide ancora la cultura di inizio secolo, dalla parte dei poeti si assiste invece a una vera e propria rinascita, già manifesta nell’interesse dei futuristi per l’analogia e la poetica della meraviglia. In effetti il futurismo riscopre nel barocco il rifiuto delle regole, la ricerca del nuovo, l’ansia di originalità, il movimento contro la stasi, lo stupore creato da immagini inusuali, ottenute per il tramite di vertiginosi accostamenti analogici. Non per nulla nei Primi principî di una estetica futurista (1916) di Ardengo Soffici si trova l’esaltazione della meraviglia marinista: “Il Cavalier Marino, il quale, come tutti i Barocchi fu un creatore di forme nuove, un pioniere della modernità (e questo sia detto contro gl’incompetenti che in quella scuola vedono una decadenza anziché una coraggiosa e feconda rinascita) il Cavalier Marino scrisse questo verso che per noi acquista oggi il valore di una verità fondamentale: È del poeta il fin la meraviglia”. Peraltro già Gian Pietro Lucini nel Verso libero (1908) esalta del barocco la volontà di sottrarsi alle regole tradizionali, mentre autenticamente barocca appare la scrittura analogica e metaforica di Corrado Govoni, il quale approda in Inaugurazione della primavera (1915) a una poesia nutrita di un analogismo esasperato, che congiunge in maniera vertiginosa la perizia retorica alla percezione del vuoto.
Nell’orizzonte europeo della rinascita barocca tra gli anni Venti e Trenta risulta decisivo il contributo di Eugenio D’Ors, il quale procede in Del barocco a una revisione teorica fondamentale elaborando l’idea dell’“eone” barocco, categoria costante dello spirito, stile sovratemporale, arte del disordine e del discontinuo contrapposta al classico, spontaneità e dinamismo delle “forme che volano” contro il rigore e la disciplina delle “forme che pesano”. In tale prospettiva distingue le specie del genere Barocchus presenti in ogni epoca e nelle regioni più lontane (Barocchus pristinus, archaicus, macedonicus, alexandrinus, romanus, buddhicus, pelagianus, gothicus, franciscanus, manuelinus, orificensis, nordicus, palladianus, rupestris, Maniera, tridentinus, rococò, romanticus, ma anche vulgaris e officinalis), sino al barocco finisecularis e posteabellicus, con riferimento al decadentismo e agli anni Venti, quando la cultura novecentesca ritorna a “rinfrescarsi nelle acque vive – vive ed inquiete – del barocco, questo carnevale, questa vacanza della storia”. Non per nulla proprio nel 1931 gli intellettuali europei si riuniscono in occasione della Décade di Pontigny per discutere Sur le baroque et sur l’irréductible diversité du goût suivant les peuples , disputa particolarmente significativa che si riflette nelle pagine di D’Ors. Sulla linea dorsiana si innesta poi la teoria di Henri Focillon, il quale nella Vie des formes (1939) interpreta la categoria del barocco come passaggio necessario nell’evoluzione degli stili. Questa approda – dopo l’âge expérimentale, classique e du raffinement – all’âge baroque, ovvero al momento in cui le forme si espandono con particolare rigoglio: vivent pour elles mêmes avec intensité, elles se répandent sans frein, elles prolifèrent comme un monstre végétal.
Del tutto originale risulta la tesi di Walter Benjamin, il quale nello scritto sul Dramma barocco tedesco (Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1926) propone una rilettura del barocco come prefigurazione delle antinomie novecentesche, rappresentate con particolare intensità dall’avanguardia espressionista: “Ma i vecchi pregiudizi sono ormai alla fine. Le analogie sorprendenti con lo stato attuale della letteratura tedesca hanno dato luogo a un sempre maggiore approfondimento, benché perlopiù di natura sentimentale, dell’età barocca”. Riprendendo il mito dell’“uomo barocco” divulgato da Herbert Cysarz in Deutsche Barockdichtung (1924), Benjamin riflette sulla natura allegorica di un’arte dominata dal senso dell’effimero e della decadenza, riconoscendo nella poetica della rovina e della totalità infranta le radici della modernità, nonché dell’arte d’avanguardia: “Quel che vediamo giacere a pezzi, come frammento insigne, come rovina: è questa la materia più nobile della creazione barocca”.
Da un analogo sentimento di crisi nasce la riflessione di Thomas Stearns Eliot, il quale rilegge i “poeti metafisici” sviluppando la tendenza inaugurata dagli studi di Herbert Grierson sui lirici del Seicento, in particolare The Poetry of John Donne (premessa all’edizione dei Poems del 1912) e l’antologia Metaphysical Lyrics and Poems of the Seventeenth Century from Donne to Butler (1921). Risorge così l’interesse per poeti come Donne, Richard Crashaw e Abraham Cowley, ai quali Eliot dedica il saggio The Metaphysical Poets (1921), invitando a rivedere un’espressione a lungo usata come un insulto o per definire un gusto eccentrico, ma soprattutto a valutare “se la loro eccellenza non fosse un qualcosa di stabilmente valido e prezioso, che successivamente andò perduto, ma che non si sarebbe dovuto perdere”. In queste pagine, oltre al principio della sensuous apprehension of thought – un modo per tradurre il pensiero in percezione dei sensi –, si individua poi una fondamentale dissociation of sensibility quale tratto comune alla poesia metafisica e contemporanea: “Nel Seicento interverrà una dissociazione della sensibilità da cui non ci siamo mai riavuti”, secondo un’idea che somiglia singolarmente alla dissociation des idées di Remy de Gourmont, fondamento estetico di un’arte innovatrice capace di frantumare l’ordine tradizionale per comporre combinazioni inedite. La ricognizione eliotiana della poesia metafisica si approfondisce poi nelle Clarks Lectures tenute al Trinity College di Cambridge nel 1926, dove stabilisce un nesso preciso tra il Seicento e l’età contemporanea: the present age is a metaphysical age.
Alla riscoperta di Donne e dei poeti metafisici in Inghilterra corrisponde il nuovo culto di Góngora in Spagna, celebrato in occasione del terzo centenario della morte (1927) dalla cosiddetta “generazione del ’27”, la quale annovera poeti e critici come Pedro Salinas, Federico García Lorca, Jorge Guillén, Gerardo Diego, Dámaso Alonso, Vicente Aleixandre, Rafael Alberti, concordi nel riconoscere l’attualità dell’archetipo gongorino. Le celebrazioni si inaugurano ufficialmente il 23 maggio a Madrid – data della morte di Góngora – con un ludico auto da fé in cui un tribunale rappresentato da Alberti, Gerardo Diego e Dámaso Alonso condanna al rogo gli eruditi e i volumi antigongorini, per terminare con una messa da Requiem a Las Salesas e con l’oltraggio simbolico alla Real Accademia, da sempre ostile al poeta. Nel dicembre 1927 segue l’atto pubblico nell’Ateneo di Siviglia organizzato dal torero Ignacio Sánchez Mejías, con la partecipazione dei poeti del ’27, i quali rendono così omaggio al poeta delle soledades e alla sua lezione tecnica, seguendo una direzione già annunciata dal movimento modernista della generazione del 1998, in particolare Rubén Darío. Si pubblicano inoltre nello stesso anno il numero monografico della rivista “Litoral” dedicato a Góngora (n. 5-7, ottobre 1927) e l’Antología poética en honor de Góngora di Gerardo Diego.
E proprio la traduzione di Góngora all’inizio degli anni Trenta inaugura il ritorno al barocco di Giuseppe Ungaretti, colpito dall’invenzione e sperimentazione stilistica del poeta spagnolo, poi celebrata in Góngora al lume d’oggi (1951). La stagione barocca del Sentimento del Tempo si apre a Roma con la scoperta folgorante di Michelangelo, l’“atleta del tormento” e della tensione tra misura e dismisura, con il quale nasce quel “classicismo forsennato che è il barocco” (Il pensiero di Leopardi, 1933-1934). Al tempo stesso Ungaretti percorre anche itinerari caravaggeschi per scoprire il dramma della luce in un’arte di deformazione, in sintonia con le ricerche di Roberto Longhi, ma anche con la meditazione gaddiana. E intimamente barocco è il “sentimento della catastrofe implicito nel sentimento del nulla e nell’orrore del vuoto”, dramma dell’effimero e dell’eterno che si rappresenta nel Sentimento, poesia dell’estate che “sbriciola e ricostruisce”: “Strugge forre, beve fiumi, / Macina scogli, splende, / È furia che s’ostina, è l’implacabile, / Sparge spazio, acceca mete, / È l’estate e nei secoli / Con i suoi occhi calcinanti / Va della terra spogliando lo scheletro” (Di luglio, 1931). La vertigine dell’annientamento si accentua poi nel Dolore, dove il senso della caducità si traduce in una sintassi tormentata e convulsa, nella retorica dell’horror vacui che sembra imitare l’eccesso barocco della natura brasiliana. In questo modo Ungaretti scopre dunque la contemporaneità del barocco, consapevole che “il Seicento è anche vicino a noi”, immagine della fragilità e delle inquietudini presenti.