DELLA TOSA, Meliorello
Figlio di Catalano, nacque a Firenze nella seconda metà del sec. XII da una delle più ricche e potenti famiglie cittadine. Suo padre, personaggio di spicco nella vita pubblica del tempo, si era distinto per le sue doti di politico e di capo militare, ricoprendo più volte - come del resto lo zio del D., Davizzo - la carica di console. Già nel 1201, grazie - con ogni probabilità - all'influenza del padre e dei suoi familiari, il D. si trovò, ancora giovanissimo, ai massimi vertici dell'amministrazione civica, come membro del Consiglio del podestà, il quale era allora Paganello Porcari, un nobile lucchese della Lunigiana.
Tra la fine del sec. XII e gli inizi del XIII anche a Firenze era stata introdotta la consuetudine, che si andava diffondendo nei Comuni dell'Italia centrosettentrionale, di nominare un podestà forestiero, il quale governasse la città affiancato da un Consiglio ristretto di insigni cittadini, che in pratica sostituiva il vecchio Collegio dei consoli. Il progressivo passaggio dal regime consolare a quello podestarile era stato del resto imposto dai fatti. Da un lato, l'acuirsi dei contrasti e delle lotte tra le fazioni cittadine, che rendevano precario e poco efficace ogni atto di governo, faceva apparire ragionevole l'idea di affidare il potere esecutivo ad un magistrato scelto fuori dell'ambito del Comune, perché, in quanto estraneo alle parti, fosse perfettamente imparziale. Dall'altro, la politica espansionistica avviata dai Comuni e le continue campagne di guerra che ne seguivano, facevano sentire sempre più in ogni città la necessità di poter contare sull'esperienza di un uomo d'armi, capace all'occorrenza di condurre alla vittoria l'esercito cittadino. Appunto la fama di condottiero aveva determinato nel 1200, la nomina e poi, nel 1201,la conferma di Paganello Porcari a podestà di Firenze. La citta toscana, impegnata nella riconquista del contado, sperava infatti che egli potesse concludere felicemente la guerra che da circa un decennio la opponeva agli abitanti di Sernifonte, già piazzaforte dei conti Alberti in Valdelsa presso Certaldo.
Nell'ambito dei Consiglio del podestà, allora formato da diciassette membri, al D. dovevano essere stati affidati compiti e funzioni di rappresentanza diplomatica. Il 30 marzo 1201 partecipò, infatti, alla stipula degli accordi di Fonterutolil e il 14 agosto successivo, insieme con un collega, Silio del fu Butrigello, ricevette in rappresentanza e a nome del podestà e del Comune di Firenze una "quietanza" rilasciata da un alto funzionario della Repubblica di S. Marco ed attestante che "Iacobus Rose, protomagister de Venetia, refutavit" nelle mani del D. e di Sifio del fu Butrigello "quicquid petere poterat eis pro pactis et ordinamentis compositis et luratis inter d. Paganellum et consiliarios eius pro Communi Florentie et districtus" (Codice diplomatico dantesco, a cura di R. Piattoli, Firenze 1940, n. 2, pp. 4 s.). Nel documento viene ricordato tra i testimoni Alighiero di Cacciaguida, avo di Dante.
A Fonterutoli (Castellina in Chianti, Siena) fu giurata un'alleanza e stipulato un patto di cooperazione militare tra i Comuni di Firenze e di Siena, che aveva come scopo quello di rendere possibile alle due città la sottomissione e l'unificazione dei rispettivi distretti. Ciascuna di esse si impegnava, infatti, a rinunziare ad interferire negli affari interni della controparte e a porre fine alle intelligenze che aveva con le opposizioni interne dell'altra, alle quali forniva aiuto e sostegno. L'accordo con la Repubblica di S. Marco, testimoniato dalla "quietanza" di Iacopo della Rosa, era invece finalizzato ad una imminente guerra contro Pisa, antica rivale di Venezia, nella prospettiva di una rapida vittoria su Semifonte, che invece riuscì a resistere alle forze coalizzate delle più potenti città toscane fino all'aprile del 1202.
Per oltre un ventennio dopo questa data si perdono le tracce dell'attività politica del D.: per quanto ci è dato sapere, infatti, solo nel 1225 egli viene nuovamente ricordato dalle fonti, in un documento che testimonia come il Comune di Firenze fosse pronto ad assicurarsi anche col denaro il controllo dei castelli situati lungo le principali vie di comunicazione e con esso, quindi, la sicurezza dei propri traffici. Si tratta del documento relativo all'atto con cui i ghibellini Lamberti e Della Tosa cedettero al Comune tutti i diritti che vantavano sul castello di Travalle, posto sulla strada tra Firenze e Prato, nei pressi di Calenzano.
Le fortune, soprattutto quelle economiche, della famiglia Della Tosa erano fondate sul privilegio che da oltre due secoli consentiva ai membri della consorteria dei Visdomini - di cui essa costituiva un potentissimo ramo - di amministrare i beni vescovili quando la sede era vacante. Da questa prerogativa, Visdomini e Della Tosa avevano tratto cospicui guadagni, talvolta illeciti, e creato uno stretto e ambiguo rapporto con la Chiesa fiorentina, che spesso ricorreva ai loro prestiti. Ne fa fede anche un documento del 1229, in cui il D. e suo padre compaiono come creditori del vescovo Giovanni da Velletri, dal quale avevano ricevuto in pegno un appezzamento di terreno appena fuori le mura della città.
Nello stesso anno 1229 il D. fu chiamato a reggere, a partire dal mese di gennaio, la podesteria di Orvieto.
Come supremo magistrato di questa città ricevette, l'8 giugno, gli inviati di Siena, giunti a chiedere, sulla base degli accordi che legavano le due città, aiuti militari per la guerra contro Montepulciano. Ma Orvieto aveva sin dal 1225 stretto un trattato di alleanza con Firenze, che appoggiava Montepulciano contro le mire di Siena, ed il D., pur avendo promesso agli ambasciatori senesi, di fronte al Consiglio "ad sonum campane coadunato", che avrebbe ottemperato alle loro richieste, dovette necessariamente fare altrimenti. Il 10 giugno successivo, infatti, mentre si trovava sotto le mura di Viterbo assediata dalle milizie del Comune di Roma (il D. doveva trovarsi lì con ogni probabilità come comandante del contingente orvietano inviato in appoggio ai Romani), ricevette una delegazione di Montepulciano. "Ad pedeni quercus Monaldi seu Rainerii Stephani presente d. Iacobo iudice de Florentia, Ranuctio Tosti et Ildibrandino Riccio" come precisa il relativo atto notarile il D., che aveva accanto a sé Aldobrandino e Pietro di Cristofano - camerlengo l'uno, sindaco e procuratore del Comune di Orvieto, l'altro -, stipulò a nome del Comune di cui era podestà un trattato di alleanza e di cooperazione militare con Montepulciano. La presenza di un giudice fiorentino alla stipula del patto, ne rivela esplicitamente la funzione antisenese nell'interesse politico e militare di Firenze. Del resto, il 27 di quello stesso mese, il D., insieme col camerlengo Pietro di Cristofano e con gli ambasciatori di Orvieto, giurò solennemente nel palazzo del Comune di Firenze, "promissiones et pacta" di alleanza e di cooperazione militare, che legavano il Comune di Orvieto a quello di Firenze. Analogo giuramento prestò "vice e nomine Conimunis Florentiae" il podestà di quest'ultima, Giovanni di Boccaccio.
In tal modo Orvieto, sotto la guida del D., aveva fatto una precisa scelta di campo nel conflitto regionale, che vedeva allora contrapposte, da un lato Siena, Pisa, Montalcino e Cortona e, dall'altro, una lega di cui facevano parte, oltre a potenze minori, Firenze, Lucca, Arezzo e Montepulciano. Vani furono gli interventi compiuti sul piano diplomatico dal papa Gregorio IX e dal Comune di Roma per comporre il contrasto ed evitare il ricorso alle armi.
Nel luglio il D., al comando delle forze orvietane, si scontrò con un corpo d'esercito senese sotto le mura di Montefollonico (Torrita di Siena), ma non riuscì ad ottenere un successo risolutivo. Dato il guasto alle campagne circostanti, il D., cui si erano nel frattempo congiunti l'esercito di Montepulciano ed un contingente di arcieri fiorentini, pose quindi l'assedio alla fortezza, presidiata dai Senesi e dai cavalieri di Montepulciano, che erano stati espulsi dalla loro città. Non poté tuttavia portare a termine le operazioni. Forse ferito, forse ammalato, fu costretto a rientrare in Firenze, dove morì il 30 luglio 1229.
Il suo corpo fu seppellito nel cimitero annesso alla chiesa di S. Reparata, allora cattedrale di Firenze. Il D. lasciava due figli, Marignano e Marsoppino, ancora in tenera età.
Al D., nella carica di podestà di Orvieto, successe immediatamente il fratello Adimaro. Questi fu costretto ad interrompere le operazioni di assedio avviate dal D. non solo a causa della violenza con cui gli abitanti di Montefollonico seppero resistere agli attacchi - usarono allora, per la prima volta in Italia, il fuoco greco (focus pinnicis), scagliato sugli assalitori in capaci vasi di vetro - ma anche a causa dell'avvicinarsi di un nuovo corpo d'esercito senese, rinforzato da reparti alleati. Fatte arretrare più a nord le sue truppe, Adimaro, dopo aver cercato di impossessarsi del vicino castello di Ciliano, fu costretto a ripiegare sulla fortezza di Sarteano (Siena). Signori del borgo e del castello di Sarteano erano infatti i conti di Scialenga, alleati di Orvieto. Attestatosi nella fortezza con buona parte dei suoi e col consenso dei conti di Scialenga, Adimaro venne improvvisamente attaccato di notte dalle truppe senesi, entrare in Sarteano grazie al tradimento - si disse - degli stessi conti. Dopo accanita resistenza, anche gli ultimi orvietani, che si erano rinserrati nel cassero (il nucleo centrale della rocca), furono costretti alla resa (28 sett. 1229). Adimaro, che era riuscito a salvarsi fuggendo con alcuni fedeli, fu bloccato da reparti nemici a Proceno (Viterbo): nello scontro che ne seguì, fu ferito gravemente e fatto prigioniero. Trasportato a Siena, vi morì qualche tempo dopo in seguito alle ferite riportate in battaglia.
Il 9 marzo 1230, in Firenze, Davizzo e Sinibaldo di Catalano Della Tosa, tutori dei figli legittimi di Adimaro, loro fratello, rilasciarono a Iacopo Alberti e a Monaldo Beltrami, procuratori e sindaci del Comune di Orvieto, quietanza relativa al saldo delle spettanze dello stesso Adimaro ed alla consegna dei beni mobili che quest'ultimo aveva portato con sé ad Orvieto, quand'era stato nominato podestà.
La podestaria orvietana di Adimaro, oltre che per le vicende di guerra, ci è nota tuttavia anche per lo splendore di cui il nobile fiorentino si circondò durante.il soggiorno in quella città. 1 podestà, chiamati a reggere l'incarico per le loro capacità di amministratori, di giuristi e di soldati, dovevano necessariamente appartenere a famiglie ricche e blasonate. Adimaro non sfuggiva certo a queste regole e fece sfoggio dei propri averi portando con sé a Orvieto preziosi tappeti (secondo un uso comune a tutti quei patrizi fiorentini che venivano nominati podestà di altri Comuni) e un ricco guardaroba, dove spiccavano farsetti di stoffa purpurea, sottovesti di stoffa inglese ed altri capi pregiati.
Fonti e Bibl.: Chronica consulum et potestatum (1194-1322), ad a. MCCXXVIII, in Annales Urbevetani, a cura di L. Fumi, in Rer. Ital. Script., 2 ed., XV, 5, p. 143; Cronaca di Luca di Domenico Manenti, ad a. MCCXXVIII, a cifra di L. Fumi, ibid., p. 293; Codice diplom. della città di Orvieto, a cura di L. Fumi, Firenze 18 84, pp. 119 s s.; Le antiche cronache di Orvieto, a cura di G. F. Gamurrini, in Arch. stor. it., s. 5, III (1889), p. 9; Docc. dell'antica costituzione del Comune di Firenze, a cura di P. Santini, Firenze 1895, p. XLVI e ad Indicem; G. Lami, S. Ecclesiae Flor. monumenta, Florentiae 1758, II, p. 711; Delizie degli eruditi toscani, VIII (1776), p. 174; R. Davidsohn, Storia di Firenze, Firenze 1956-1968, II, pp. 231-39; VII, pp. 628, 656; B. Stahi, Adel und Volk im florent. Dugento, Köln-Graz 1965, p. 64.