Medioevo: la scienza siriaca. Le scienze naturali secondo l'Hexaemeron
Le scienze naturali secondo l'Hexaemeron
Per i dotti di lingua siriaca il commentario teologico ai 'sei giorni' della Creazione descritti nel primo capitolo della Genesi è il punto di partenza di tutti gli insegnamenti scientifici riguardanti il cielo e la Terra. La Bibbia e l'Antichità classica hanno infatti esercitato un'influenza determinante sulla scienza siriaca del VII sec., i cui due fondamenti sono la teologia cristiana e la filosofia greca. Tra gli autori che hanno commentato i 'sei giorni della creazione' (Hexaemeron), Giacomo di Edessa (633-708) occupa una posizione di preminenza. La sua opera, infatti, è paragonabile per apparato scientifico a quella di Giovanni Filopono (m. 567 ca.), il maestro neoplatonico di Alessandria. L'intento di Giacomo fu quello di dare ai compatrioti una cosmografia il più possibile completa e una cosmogonia basata sulla dottrina aristotelica dei quattro elementi. Forse è proprio a causa di questo approccio, più scientifico che teologico, che il suo Hexaemeron è stato ripreso in studi posteriori e soprattutto, nel IX sec., nel commento di Mosè bar Kepha (Môšē bar Kēp̄ā).
Nel primo trattato dell'Hexaemeron è esposta la creazione delle intelligenze celesti e degli angeli, mentre nel secondo si affronta la creazione del cielo e della Terra, la quale, secondo Giacomo di Edessa, comporterebbe quella dei quattro elementi di cui sono composti tutti gli oggetti del mondo sensibile: terra, acqua, aria e fuoco. Dio creò "una quadruplice materia differenziata" (hûlâ rǝḇî῾ā'îṯ šûḥlāp̄ā), e cioè portatrice degli elementi, nessuno dei quali era ancora allo stato puro. La terra non era stabile, l'acqua era mescolata a fango, il fuoco e l'aria contenevano impurità. La materia somigliava alla "lega (neskǝṯā) di argento, rame e piombo fatta dagli uomini avari, cupidi e fraudolenti che vogliono falsificare l'argento e l'oro; quando gli esperti vogliono eliminare il rame e la miscela fraudolenta, riescono a malapena a separarli anche con un fuoco molto intenso" (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, p. 48). Possiamo rappresentarci questa materia alla stregua di una massa sferica e compatta, e dobbiamo pensare che "i quattro elementi di questa materia appena creata erano mescolati uno all'altro pur avendo ognuno le qualità (᾽aynāwāṯā) che vi aveva infuso il Creatore: esse 'tormentavano' ciascun elemento trascinandolo con forza e in modo naturale verso il luogo assegnatogli dalla volontà del suo Creatore; queste qualità gli erano necessarie per potersi separare dai suoi compagni" (ibidem, p. 48). Giacomo ha in mente una materia prima che è dotata di forma in qualche modo sferica perché, sebbene in maniera imperfetta, essa conteneva ormai gli elementi; e se questa materia prima possedeva una forma, ogni elemento ne era dotato sia pure solo in potenza. Si direbbe che Giacomo tenti qui di trarre il meglio dalla dottrina aristotelica della materia e della forma.
Opposto l'atteggiamento di Teodoro bar Koni (v. cap. I) nei confronti dello Stagirita:
questo filosofo insensato, e quelli che a lui somigliano, attribuiscono alla creazione la materia, la forma e la privazione, perché non considerano Dio come creatore delle nature ma delle apparenze ('eskîmē). Della materia egli dice infatti che era priva di forza e di apparenza, e che era in grado soltanto di ricevere tutte le apparenze e le forme necessarie alla condizione di creatura. Egli dunque chiama questa materia anche natura prima del corpo; e dice infatti che essa ricevette in primo luogo estensione in lunghezza, larghezza e profondità così da poter crescere; e che, non possedendo assolutamente estensione, soltanto dopo avere ricevuto queste tre dimensioni si può ritenere che essa riceva apparenze, modi e forze e che costituisca i primi quattro corpi, ovvero gli elementi. (Liber scholiorum, pp. 293-294)
Giacomo aggiunge alle sue numerose letture degli 'esperimenti' che danno la misura del suo talento per la ricerca scientifica. Attraverso quattro esperimenti fisici spiega come gli elementi si muovano gli uni all'interno degli altri, ciascuno attratto verso lo spazio assegnatogli. La terra, elemento più pesante, occupa la posizione più bassa, e il fuoco quella più alta. Uno degli esperimenti è il seguente:
Prendete un vaso di vetro a forma sferica, gettatevi mercurio, miele puro, acqua e olio in quantità uguali, e vedrete in modo semplice e chiaro come i quattro elementi lottino secondo le loro proprietà naturali per riprendere la posizione a essi propria: il mercurio per andare sul fondo, il miele puro per porsi al di sopra di esso, l'acqua per restare al di sopra del miele, e l'olio per salire sopra tutti gli altri. (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, p. 49a)
Gli elementi della materia sono mescolati, e Giacomo sottolinea che questa seconda creazione ‒ 'seconda' perché successiva a quella degli angeli ‒ appare sin dall'inizio "divisa in quattro parti, tutta piena di contrapposizioni" (malyā kullah saqûḇlāyûṯā; ibidem, p. 52b, 10). Questo brano ricorda quello di Aristotele presente nel De generatione et corruptione (329a, 25-30): esiste una materia dei corpi sensibili, ma essa non ha esistenza separata e fa sempre da sostrato a contrari (per es., caldo e freddo).
Giacomo di Edessa descrive a lungo il primo elemento, la terra, perché è il più vicino all'uomo, quello su cui egli cammina e dal quale trae maggiore profitto (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, pp. 52-64). Secondo Aristotele la terra è fredda, secca e nera; un pensiero che è ripreso da Mosè bar Kepha e da Barebreo nei loro commentari alla Genesi. Giacomo elenca i minerali, le pietre, i vapori (lahgē) che salgono dalle profondità della terra e dai sapori (ṭa῾māṯā) dei minerali (ovvero i loro ossidi) come il minio (maḵārā) o il litargirio (mardǝḵā/lîṯa᾽rgûrûn), i diversi frutti della terra, le grotte dotate di fonti termali e i vulcani, il più importante dei quali è "quello di Sicilia". La terra, come aveva affermato anche Eusebio di Cesarea, ha la proprietà naturale di trasformare a volte la materia solubile nell'acqua in una materia dura come la pietra. Giacomo trova questa informazione nella prefazione della Cronaca di Eusebio:
Che il diluvio aveva raggiunto e superato le montagne più alte è quanto conferma, a noi che scriviamo, la visione di diversi pesci scoperti ai nostri giorni sulle vette più alte del monte Libano. Mentre uomini del luogo estraevano dalla montagna la pietra per una costruzione, scoprirono varie specie di pesci del mare che erano stati inghiottiti nelle profondità della montagna, in mezzo al fango. Erano divenuti solidi e duri, acuminati e appuntiti come la silice. (Martin 1888, pp. 407-408)
Il maestro di Edessa ha un'idea relativamente esatta del globo terrestre e lo rappresenta in questo modo:
Per fornire un'immagine che aiuti a capire chi mi ascolta, ne darò una che aiuterà a comprendere meglio quanto dico.
Un uomo saggio, intelligente e istruito, tra coloro che mi ascoltano, prenda un pezzo di impasto, grande quanto possono contenerne le sue mani; lo lavori e ne faccia una sfera. Poi, con la mano, presserà questo impasto sferico così da dargli un'altra forma, facendolo passare da una sfera perfetta a un'altra un po' oblunga e un po' ristretta.
Con le dita vi praticherà qua e là buchi, ondulazioni e rilievi. Questa è più o meno la forma della Terra che un uomo deve immaginarsi e raffigurarsi nel pensiero. (ibidem, p. 454)
Giacomo vorrebbe descrivere la Terra e darne le dimensioni, è preso però dal timore di andare oltre i limiti che sono imposti dal Creatore. Si ricorda del testo dei Proverbi 30,4: "Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso le acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della Terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai?". La sua curiosità dovrebbe dunque rimanere insoddisfatta, ma "ha letto e appreso" qualcosa sulla grandezza e le dimensioni della Terra, e sebbene "non osi" accettarlo, riassume quanto altri "hanno avuto l'audacia di dire" sulla divisione della circonferenza (ḥûḏrā) della sfera terrestre in 360 gradi, uguali in numero ai gradi che a parere degli astronomi compongono la sfera celeste. I dati sono certamente confusi, e Giacomo vuole rendere il lettore consapevole dell'incertezza dei dati avanzati dai dotti.
Ciononostante, nel terzo trattato (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, pp. 94-142) Giacomo espone le sue conoscenze geografiche descrivendo il globo terrestre. Esso non è interamente abitato: una sola parte può servire da dimora agli uomini. Giacomo conosce i poli, sa che i giorni e le notti vi durano sei mesi ciascuno e descrive in modo dettagliato la lunghezza del giorno e della notte nei diversi paesi del mondo conosciuti al suo tempo. Nel XIII sec. Barebreo dà per assodato che la Terra è "rotonda nella sua lunghezza e larghezza", ovvero "sferica", e aggiunge:
Se sotto il cerchio che è nei cieli […] s'immagina sulla superficie della Terra un grandissimo cerchio, esso divide la Terra in due parti uguali. È chiamato linea di uguaglianza [ṣûrṯā ḏǝ-šawyûṯā]; infatti, per tutto l'anno, il giorno vi è uguale alla notte. Se ancora si immagina un altro grandissimo cerchio che passa dai due poli, ovvero dai punti assiali della Terra, e che divide il cerchio, ovvero la linea di uguaglianza, in due metà, una superiore e l'altra inferiore, la Terra sarà così divisa in quattro quarti uguali, due dei quali meridionali e gli altri due settentrionali. Tutta la Terra abitata è compresa in uno dei due quarti settentrionali. (Barebreo, pp. 570, 579-580)
Riguardo al metodo, Giacomo segue in tutto Tolomeo e in particolare si accorda con lui
in quanto determina la lunghezza della parte abitata della Terra come pressappoco uguale alla metà della circonferenza del globo, ed estesa da Gadira [la Gades dei latini e cioè Cadice] sino alla regione di Sines [cioè la Cina]. L'idea di una Terra sconosciuta che confina verso nord, est e sud con la Terra abitata, e che fa dunque del Mar Eritreo il più vasto Mediterraneo del mondo, caratterizza soprattutto Tolomeo, che è anche il primo ad avere un'idea corretta del Mar Caspio. Egli lo rappresenta come un mare interno, mentre i geografi prima di lui ‒ a eccezione però di Erodoto ‒ lo consideravano come un golfo dell'Oceano, allo stesso modo del Mar Eritreo. (Giacomo di Edessa, ed. Hjelt, pp. 28-29)
In principio, afferma Giacomo, l'acqua circonda e abbraccia la Terra dall'alto e dall'esterno; essa discende a causa della sua gravità e tende a schiacciare la Terra. Secondo Bar Koni, che esistano acque più alte della Terra è dimostrato dalla costruzione degli acquedotti. Sei secoli più tardi, anche Barebreo spiegherà, senza altrettanta precisione, che la posizione naturale dell'acqua è al di sopra della Terra (Barebreo, p. 594). Sembra dunque che presso i Siri, nel periodo in cui scriveva Barebreo, fosse andata perduta la nozione di un firmamento composto di acqua condensata, così come l'aveva sostenuta Isho῾dad di Merv (Κô῾dāḏ di Merv), che seguiva su questo punto Teodoro di Mopsuestia (Isho῾dad di Merv, pp. 26-29). Vale la pena ricordare che circa trent'anni dopo la morte di Barebreo, Dante discuterà a Verona, in termini scolastici, se l'acqua sia più alta della Terra, lasciando un breve trattato latino intitolato Questio de aqua et terra.
La creazione della luce "illuminò" l'aria, l'acqua e la terra, e gli elementi si purificarono; poi il firmamento separò "le acque dalle acque". Il firmamento, ovvero il cielo posto tra le acque che circondano la terra e "l'aria acquosa", chiamata "le acque", è concavo e profondo, bianco e nero. Giacomo ritiene di trovare nell'etimologia del termine šǝmayyā, 'cielo', in ebraico šāmayim, i due termini sem, 'cielo', e mayim, 'acqua', che designano i due elementi ‒ aria e acqua ‒ di cui si compone il cielo. Quanto ai Greci, scrive Giacomo, essi chiamano il cielo ouranós che significa propriamente 'superiore'. Giacomo descrive i fenomeni atmosferici: i venti, i turbini, i temporali, i fulmini, il tuono. Chiama le stelle cadenti "frecce volanti" e ritiene che solo "gli ignoranti" potrebbero considerarle stelle. Considera queste "frecce" avvertimenti dati da Dio a questo o quel popolo. A proposito del temporale scrive:
Ho visto più volte con i miei stessi occhi le nuvole generarsi intorno alla vetta elevata su cui dimoravamo, presso Antiochia. Le nuvole si formavano nelle altitudini dell'aria, a ovest del picco elevato, a distanza di due o tre stadi dalla montagna. Comparivano nere e oscure, simili, come dice la Scrittura, a mano d'uomo; ma quando il vento occidentale le spingeva verso la sommità del picco, lentamente si ingrandivano sinché venivano a trovarsi sopra la montagna. (Martin 1888, p. 403)
Giacomo spiega che i quattro venti cardinali assumono nomi diversi a seconda dei popoli, e corrispondono a nomi di montagne o di luoghi famosi. Ancora una volta si sbaglia nell'attribuire un'etimologia ebraica al nome siriaco del vento di mezzogiorno, taymnā, secondo cui tale vento prenderebbe il suo nome da un toponimo, che, a sua volta, deriverebbe dal nome di alcuni personaggi biblici. In compenso, Giacomo afferma in modo del tutto esatto che i venti intermedi prendono nome dal luogo da cui soffiano o provengono. Per gli antichi, i venti servivano anzitutto a definire le direzioni: erano analizzati e classificati per la loro qualità di punti di orientamento e non in quanto fattori meteorologici. Giacomo conosceva i nomi greci dei venti e ne conta dodici descrivendoli uno dopo l'altro; sapeva che agli otto venti menzionati da Aristotele ne erano stati aggiunti altri quattro.
Giacomo intende spiegare il testo biblico ricorrendo, anziché all'ebraico mīn, 'specie', alla terminologia di derivazione aristotelica: gensā (génos), 'genere', e ᾽āḏšā (eĩdos), 'specie' (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, pp. 186-236). Nei concetti di genere e specie gli autori siri trovarono uno strumento per classificare gli animali, se non l'intera conoscenza. Barhadbeshabba di Halwan (VI-VII sec., v. cap. I) spiega infatti nella Causa della fondazione delle scuole che il processo conoscitivo si realizza attraverso la suddivisione in generi e specie e la distinzione tra schemi e operazioni (pp. 344-345). Nel IX sec., anche Giobbe di Edessa descrive gli animali e le piante servendosi di generi e specie, sostenendo che tale suddivisione è il risultato di una particolare combinazione dei quattro elementi. Preso in sé, ogni singolo elemento è privo delle tre dimensioni ed è soltanto una nozione logica: i sensi possono coglierlo solo se si combina con gli altri elementi. Giobbe ammette dunque che il passaggio di ciò che è "nel pensiero" alla realtà è del tutto possibile (Giobbe di Edessa, I, p. 8).
Sorprendentemente, un secolo prima di lui, Teodoro bar Koni faceva derivare le dieci categorie aristoteliche dai quattro elementi. Al contrario di Giobbe, Teodoro intendeva dimostrare che Aristotele si sbagliava quando considerava la materia "priva di forza e di apparenza", capace di ricevere, grazie ai quattro elementi, le apparenze e le forme necessarie alla condizione di creatura (Liber scholiorum, p. 294). Infatti è proprio questa condizione della materia composita, dotata di tre dimensioni, a spiegare secondo Giobbe perché vi sia un numero stabile di generi e di specie di piante e, allo stesso tempo, un numero considerevole di forme infime di vita, sempre nuove, che si generano all'interno degli elementi quando questi si decompongono (Giobbe di Edessa, II, p. 17).
È indubbio che lo schema genere/specie sia servito a Giacomo per compiere una prima suddivisione tra due generi, gli animali che nuotano e quelli che volano, cui seguono le differenze di specie. La coppia genere/specie funziona a tutti i livelli di generalità: il génos non designa un grado più o meno elevato di generalità in una scala classificatoria, ma può designare un qualsiasi insieme dotato di coerenza propria in rapporto agli altri gruppi. Questa caratteristica del génos inteso dal punto di vista logico si conserva in biologia, dove la coerenza di un gruppo può essere considerata a più livelli. Non v'è dunque motivo di sorprendersi se Aristotele li designa tutti con il termine génos. Suddividere non è definire; una suddivisione valida non si compie in base all'accidente ma in base al genere e Giacomo sembra seguire questi principi aristotelici. Per Aristotele "occorre […] cercare di prendere gli animali secondo i generi, seguendo la via indicata dai più, che distinguono il genere degli uccelli da quello dei pesci" (De partibus animalium, 643b 9). Come lo Stagirita, gli autori siri sono lontani dai concetti della sistematica moderna e in particolare dalla odierna nozione di specie. Caratteristica essenziale del concetto di specie per i tassonomisti è, infatti, la conservazione e la trasmissione di una struttura morfologica, fisiologica e comportamentale. Curiosamente, Giacomo utilizza le nozioni di genere e specie soltanto dopo aver descritto a lungo i pesci e prima di descrivere gli uccelli; ciò fa pensare che gli sia parso difficile stabilire una classificazione dei pesci.
"Le acque brulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo" (Genesi, 1, 20); così furono creati "i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati, secondo la loro specie (ibidem, 1, 21). Giacomo sa che è impossibile conoscere tutte le specie di animali: nella sua esposizione si limita all'esperienza personale e a quanto ha appreso dai "libri" dei "naturalisti" (dei quali purtroppo non indica il nome). Sembra evitare classificazioni fondate su comparazioni anatomiche, preferendo invece mettere in rilievo le differenze specifiche. In generale, si può dire che il suo modello non è tassonomico, in questo vicino alla posizione di Aristotele che classifica "gli esseri viventi secondo una molteplicità di punti di vista, tanto anatomici che fisiologici o comportamentali, senza privilegiare alcuno di questi punti di vista essendo ognuna di queste classificazioni appropriata alla congiuntura dell'investigazione in corso" (Pellegrin 1982, p. 147).
Il testo della Genesi forniva un punto di partenza sicuro: "Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari" (Genesi, 1, 22), ma Giacomo aggiunge che è necessario considerare anche altre riserve d'acqua, tra cui stagni e pozze, perché in circostanze propizie dove vi è acqua possono prodursi pesciolini, rane e altre specie "ancora più vili". Motivo di stupore per lui (ma lo sarà ancora nel XVIII sec. anche per il naturalista francese G.-L. Leclerc de Buffon), la procreazione non conosce interruzioni, anche nel momento presente; la forza procreatrice non è mai distrutta. Tuttavia Giacomo, pur ammettendo di voler scrivere sul "cambiamento delle generazioni" (šûḥlāp̄ā ḏ-mawlāḏē) e sul "loro accrescimento" (tarbîṯā ḏ-holēn), non afferma che possano comparire specie nuove. Per Giobbe di Edessa, al contrario, nuove specie emergono da elementi in putrefazione, ma non hanno possibilità di riprodursi.
I pesci
Giacomo condivide con Isho῾dad di Merv la convinzione che i quattro elementi ‒ aria, terra, acqua, fuoco ‒ entrino nella composizione di tutti gli esseri, compresi i pesci e gli uccelli. L'esperienza insegna che è impossibile conoscere tutte le specie di animali esistenti nel mare. Talvolta, a causa di certe somiglianze, si danno loro nomi basati su quelli degli animali terrestri. Giacomo sa che i popoli che abitano presso mari lontani hanno indubbiamente nominato innumerevoli pesci a lui sconosciuti. Secondo la testimonianza di persone di altri paesi, mari immensi e non navigabili sono popolati da mostri marini. Nei mari delle terre abitate, pesci di grandi dimensioni, come i delfini, coesistono con quelli piccoli.
Giacomo sembra accettare il criterio di descrizione attribuito ad Aristotele, secondo cui le differenze sono ricercate sia in base alle azioni e alle abitudini sia in base alle parti: "nella sua teoria della differenziazione degli animali, Aristotele dà rilievo alle parti, alle somiglianze di struttura. È sempre in base alle similitudini delle strutture e alle somiglianze delle parti che egli caratterizza i rapporti essenziali delle specie all'interno dei generi, in opposizione alle analogie che regnano tra i generi" (Le Blond 1995, p. 111). Giacomo si preoccupa di denominare quanti più animali possibili, ma dare un nome non è definire; la definizione è causale, ovvero mostra perché la cosa è, spiega la condizione della sua esistenza. Giacomo si situa, forse a sua insaputa, nella tradizione aristotelica degli Analitici secondi (93b, 29-39). In quest'ottica egli elenca una serie di caratteristiche. (a) I pesci marini sono muniti di denti mentre quelli di acqua dolce ne sono privi. (b) I pesci non hanno un rapporto sessuale "corporeo". Quando giunge il momento della procreazione cercano acque tranquille affinché le uova deposte dalla femmina non si disperdano. Il maschio le feconda alla loro uscita. Esse si schiudono nell'acqua e si nutrono di acqua. "Secondo gli esperti e coloro che scrivono di queste cose", vi sarebbero "generi" di pesci la cui gestazione è simile a quella degli animali terrestri. La sua descrizione concorda con la classificazione in vivipari, ovipari e ovovivipari. Qui il "genere" ‒ seguendo indubbiamente l'Isagoge di Porfirio ‒ è la gestazione, con la sua suddivisione specifica in vivipari e ovovivipari. Ciò potrebbe risalire al metodo utilizzato da Aristotele, il quale classificava gli esseri viventi, vegetali e animali, in base all'estensione e alla complessità delle loro funzioni vitali (Historia animalium, VIII, 1, 588a-b). (c) Scaglie, posizione della testa, branchie, coda, tutto è in funzione del nuoto, che è reso possibile dalla pinna dorsale e da quella caudale. Non si deve dimenticare che la zoologia di Giacomo ha un carattere finalistico. (d) Le lische danno stabilità al corpo. (e) I pesci non hanno polmoni per ricevere l'aria; la respirazione branchiale è la norma; Giacomo, tuttavia, conosce pesci dotati di polmoni che possono uscire e trattenersi per qualche tempo fuori dall'acqua. I pesci respirano attraverso l'acqua che, ingoiata dalla bocca, passa facilmente senza entrare nel ventre ed è espulsa dalle branchie. (f) Essi hanno un "recipiente" pieno d'aria, ovvero una "vescica" (šalpûḥṯā) chiusa che permette loro di nuotare rapidamente, come quando gli uomini nuotano su un otre gonfio. (g) I pesci hanno i cinque sensi, forse perfetti quanto quelli di altri animali.
Giacomo non dimentica i pesci descritti dagli "inventori di nomi", come gli animali-piante (ḥayûṯ neṣbǝṯā, gli zoofiti). Ricorda che alcune specie di pesci non commestibili possono essere utilizzate in farmacologia o per la composizione di profumi, e che la porpora ‒ sostanza ben conosciuta ed estratta da un mollusco ‒ è utilizzata per gli abiti reali.
Gli uccelli
Il testo della Genesi può far pensare che gli uccelli, come i pesci, provengano dall'acqua. Per Giacomo ciò è possibile dal momento che in Numeri, 11, 31 si legge: "Intanto si era alzato un vento, per ordine del Signore e portò quaglie dalla parte del mare, e le fece cadere presso l'accampamento". Per Isho῾dad di Merv, gli uccelli furono creati dall'acqua perché molti di essi vivono nei suoi pressi e quelli che si innalzano in volo somigliano agli animali che nuotano: egli pensa che l'acqua somigli all'aria, fluida e fredda. Nonostante la Scrittura dica che gli uccelli furono creati dall'acqua, è evidente che essi partecipano anche della natura degli altri elementi. Tutte le specie sono denominate secondo l'elemento predominante (Isho῾dad di Merv, pp. 43-44). Si può dire che le somiglianze tra i due generi, pesci e uccelli, non siano somiglianze di parti ma di funzione, analogie.
La classificazione dei volatili è dovuta sembrare più semplice a Giacomo, il quale distingue subito due specie: (a) i volatili che hanno ali separate e (b) quelli che sono dotati di ali membranose (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, pp. 205-206).
a) Alla prima specie appartengono tutti gli uccelli, sia rapaci e carnivori sia domestici. Dei rapaci si può notare il becco poderoso a forma di uncino, che serve a dilaniare le vittime, e gli artigli lunghi e forti. Gli uccelli domestici mangiano a volte erbe e chicchi di cereali. Al di là di questa suddivisione, Giacomo è consapevole del fatto che, come ha appreso da Aristotele, è pressoché impossibile stabilire un sistema di classificazione, in quanto le suddivisioni di ogni categoria si moltiplicano in sottospecie di ogni tipo, ove contano la dimensione, il colore, la forma, l'alimentazione, la preparazione dei nidi e il modo di occuparsi dei piccoli. Giacomo richiama l'attenzione su alcuni casi specifici: lo struzzo indiano che, a suo avviso, depone le uova sul suolo per poi abbandonarle (riferimento letterale a Giobbe, 39, 13-18, dove si parla della sua mancanza di intelligenza) e a causa del suo grande corpo non può volare. Lo stesso vale per lo struzzo africano (na῾āmā), per il pellicano (qāqqā) "del deserto", e per gli uccelli che egli ha osservato durante il soggiorno in Egitto, quando studiava presso la Scuola d'Alessandria. A proposito degli uccelli che vivono nelle vicinanze delle acque, Giacomo ripete senza alcuna critica le leggende che si narravano sull'alcione. Menziona i pappagalli, i gruccioni, i pipistrelli e accetta quanto si dice sulla solitudine e la castità delle colombe. Riconosce più volte che per la nostra intelligenza è impossibile stabilire una corretta classificazione degli uccelli. A un fitto elenco di uccelli e animali alati "che camminano su quattro zampe", considerati immondi in Levitico, 11, 13-20, ne oppone uno di animali che non sono tali, soprattutto quelli che si nutrono di erba e chicchi di cereali; poiché, come scrive, il tipo di cibo condiziona la forma del corpo.
Gli uccelli possiedono una "scienza" (îdda῾ṯā) che "in verità è simile alla ragione [mellṯā] e può essere paragonata alla 'scienza' [îdda῾ṯā] posseduta dagli uomini nel (loro) pensiero intelligente". Gli uccelli, per esempio, conoscono il tempo della migrazione e sanno quando devono preparare il nido. "Secondo i naturalisti", le cicogne si comportano in base a un codice morale simile a quello umano; si organizzano per il bene del gruppo soprattutto durante la notte, onde allontanare i pericoli da quelle che dormono. A questo punto, affermando che l'uomo farebbe bene a imitare gli uccelli (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, p. 222), Giacomo instaura un paragone tra animali e uomini che rimane isolato nell'ambito della sua opera. Per un cristiano dell'epoca, infatti, il regno umano è del tutto separato dal regno animale e risulterebbe impensabile una gerarchia che disponga gli esseri viventi in un ordine di perfezione crescente.
Ecco la sua descrizione delle caratteristiche esteriori degli uccelli: il corpo arrotondato e compatto, il collo che si allunga in volo mentre le zampe si ritraggono, ali a forma di croce che permettono di sostenersi nell'aria; le estremità fatte di piume leggere "come le foglie degli alberi". L'osservazione del volo degli uccelli mostra il rapporto esistente tra lunghezza del collo e dimensione delle zampe. Gli uccelli sono privi di denti ma hanno un becco appuntito come una lancia. Tutti cantano grazie a un organo e in un momento determinato. I rondoni richiamano la nostra attenzione proprio perché, con le loro zampe minuscole, non possono sostenere il loro corpo sulla terra.
b) Come gli uccelli, anche gli insetti nascono dall'umidità della terra e di conseguenza dall'acqua. Vespe, api, mosche, tafani, cavallette e pipistrelli sono dotati di ali membranose. A proposito degli insetti Giacomo compie un'osservazione generale non priva di interesse: se ogni specie di insetti si comporta secondo la propria condizione di creatura, "la sua specie si propaga e giunge continuamente a compimento secondo il proprio genere, come fanno tutti gli animali e tutti gli uccelli sulla terra" (ibidem, p. 232). Giacomo descrive brevemente le diverse forme della procreazione per poi osservare che negli insetti la principale differenziazione di genere risiede nelle ali: alcuni hanno le ali "scoperte", altri le hanno "coperte da un guscio" (i coleotteri). Giacomo dedica una lunga descrizione alle api e al loro lavoro. A proposito del modo di respirare degli insetti si riferisce ancora una volta a quanto ha appreso dai "naturalisti", e mostra di conoscere il baco da seta, originario della Cina, che chiama bamboulios. Descrive meticolosamente il processo di produzione della seta, attribuendogli una durata di circa sessanta giorni che mette in relazione ai sessant'anni della vita umana (p. 233). Un'ultima pagina è specificamente dedicata alle cicale, il cui comportamento ben descritto gli dà occasione di trarre un insegnamento morale.
Animali selvaggi, animali da soma, rettili
Giacomo considera gli animali in funzione del rapporto con l'uomo, re del creato, e della capacità di sottoporsi al suo servizio. Egli cita il testo della Genesi nel quale sono menzionati i tre "generi" (gensē), ma poi descrive le tre "specie" del genere animale (tlaṯā ᾽ādšē ḏ-gensā ḏ-ḥaywāṯā): selvaggi, da soma e rettili.
Gli animali da soma sono l'elefante, il cammello della Battriana (pālgā), il cammello d'Arabia (gamlā), il bue, l'asino, il cavallo e, in "modo metaforico", ovini e suini che formano il bestiame minuto. Tutti sono quadrupedi ed erbivori. Alla categoria dei quadrupedi e degli erbivori appartengono anche animali che vivono presso l'uomo ma non sono a lui sottomessi: l'onagro, il cervo, la gazzella, il capro selvatico, l'egagro, il camoscio, il bubalo e il rinoceronte unicorno (quello d'Asia). Nel descrivere gli erbivori, Giacomo distingue il sistema digestivo dei ruminanti da quello degli altri animali (p. 260).
A un'altra specie appartengono gli animali carnivori "in ribellione contro l'uomo": il leone, l'orso, la tigre, il leopardo, il lupo, la iena, lo sciacallo, la volpe, la donnola. Il cane e il gatto sono carnivori ma sono amici dell'uomo. Tra gli erbivori e i carnivori vi sono il cinghiale, il coniglio, la lepre e la scimmia (gîlaws).
La terza specie è costituita dai rettili. In questo caso Giacomo esita tra i termini 'specie' e 'genere', oppure ritiene che i suoi lettori debbano comprendere, come avrebbe voluto spiegare Aristotele, che 'genere' può designare ciò che noi chiameremmo 'specie'. Genere "non è un concetto tassonomico" che deve designare un livello determinato del reale: in logica, come in biologia, può "designare la più vasta delle ramificazioni così come la più piccola varietà animale o vegetale" (Pellegrin 1982, p. 102). Giacomo ammette l'impossibilità di conoscere numero e nomi dei rettili, ma ritiene possibile suddividerli in sette specie: (1) i quadrupedi che si riproducono come gli animali selvatici, per esempio la talpa; (2) i quadrupedi la cui riproduzione è simile a quella degli uccelli, come le lucertole o le salamandre; questa specie si distingue da (3) quella dei serpenti (Giacomo, l'abbiamo visto, conosce bene la differenza tra animali vivipari e ovipari); (4) gli scorpioni, che abitano e procreano all'interno della terra; (5) le formiche; (6) i ragni e simili; (7) alcuni animali come le cavallette o le locuste che possono essere considerati sia rettili sia insetti volanti.
Ognuna di queste specie potrebbe a rigore fungere da genere; come abbiamo visto, infatti, Aristotele aveva classificato gli esseri viventi in base a una molteplicità di punti di vista senza privilegiarne alcuno.
Giacomo insiste sul fatto che, secondo la volontà del Creatore, l'uomo è il re del creato, come riconoscono gli stessi animali. Animali da soma e animali domestici hanno caratteristiche particolari proprio in funzione della loro condizione di servitori dell'uomo. Isho῾dad di Merv è pienamente d'accordo e non esita a proporre una classificazione estrema degli uccelli: i carnivori, ovvero gli uccelli da preda, e quelli che ci servono da nutrimento, questi ultimi composti da due "gruppi" (mnawān), l'uccello domestico e l'uccello del deserto (e anche dell'oceano e della steppa). Anche Giobbe di Edessa, contemporaneo di Isho῾dad, afferma che gli animali sono stati creati esclusivamente per il servizio dell'uomo e che "nel giorno della risurrezione essi non risusciteranno" (Giobbe di Edessa, VI, 5, p. 453). L'animale manifesta meglio di ogni altra realtà la bontà della Natura.
Nella sua descrizione del mondo animale in generale, Giacomo compie osservazioni di ogni tipo; per esempio, la gestazione dell'elefante dura circa due anni ed esso, "a quanto dicono i conoscitori", vive trecento anni. Considera il dromedario (hūggānā) una specie bastarda, combinazione del cammello della Battriana e del cammello d'Arabia. I carnivori possiedono due fila di denti mentre gli erbivori hanno soltanto quelli inferiori, sufficienti a masticare l'erba, raccolta con le labbra e poi ruminata. Zampe e artigli si adattano alle necessità di sostentamento dell'animale; Giacomo li descrive in dettaglio, spiegando la distinzione biblica tra animali puri e impuri a seconda del tipo di zoccolo e del modo di mangiare. Conosce gli ippopotami, animali "anfibi" che vivono nelle regioni orientali (l'India) e in Egitto (nel Nilo) e sono soprannominati "buoi acquatici" o "cavalli acquatici". Non manca di dare una connotazione morale: il bue è forte e sottomesso, il cammello è paziente, il leone è di potenza regale, l'orso ha un corpo solido, il leopardo è solitario, il cinghiale è audace e irascibile, la gazzella ha vista acutissima, il cervo è rapido, la volpe è perfida, il lupo ha una natura inquieta e pericolosa. L'habitat, il tempo di gestazione, la natura della carne, del sangue e del latte variano di specie in specie, ma tutti gli animali sono dotati di una conoscenza selettiva (îdda῾ṯā p̄ārôšṯā) che permette loro di riconoscere i cibi convenienti e le sostanze nocive.
Giacomo si preoccupa sempre di tenere conto dei "naturalisti, ai quali spetta il compito di scrivere e mostrare le cose della Natura". Prestando fede a quanto dicono costoro, menziona la salamandra che, se è attaccata, si nasconde nel fuoco, e il serpente che raffredda il suo corpo estremamente caldo mangiando la terra, da cui produce il veleno. Giacomo
menziona la salamandra che, se è attaccata, si nasconde nel fuoco, e il serpente che raffredda il suo corpo estremamente caldo mangiando la terra, da cui produce il veleno. Giacomo ha anche appreso dai "medici, conoscitori del corpo" (᾽āsawāṯā ḥākkîmē ḏ-pāḡrā), che il trattamento curativo contro il morso di questo rettile si compone del veleno stesso (Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, I, p. 271).
La terra, anche quella non seminata, possiede in sé germi che crescono verso l'esterno. Giacomo sostiene di averlo sperimentato portando in superficie e spargendo sul suolo della terra estratta a quindici cubiti di profondità. Il "nostro" cibo si compone di frumento e orzo, diversi tipi di legumi, insieme a vino e olio. L'India non ha questi cibi, possiede però altri prodotti utili, necessari, comodi e buoni: il riso, la canna da zucchero, la cui dolcezza Giacomo paragona ai succhi che sono estratti dalle palme, e il sesamo. Nei paesi di Saba e dell'Arabia Felix, e nella terra di Cush vi sono altri prodotti; lo stesso è nelle regioni fredde dei Sarmati e degli Unni. Giacomo cita le spugne (spûggē), le cozze (pinnē), le meduse (?) (᾽q᾽lyp᾽) e, infine, i coralli, che sono degli zoofiti (ḥayyūṯ neṣbǝṯā) (ibidem, p. 128).
Da tutta la terra, persino dalla polvere, può crescere un qualunque germe se questo è ciò che ordina il Creatore; un'idea che ricomparirà in Giobbe di Edessa. Giacomo non può esimersi dall'ammirare il rinnovamento della Natura e la durata delle specie. L'acqua, il calore del suolo e l'aria concorrono a far germogliare l'erba per ordine divino: "Alberi e piante possiedono, nella loro natura e ciascuno secondo la propria specie, la forza di generare e di produrre frutti che propagano il loro genere" (ibidem, p. 129). La "forza generatrice" fu data alla "terra fertile" ed esiste in tutte le specie. Ma i semi completano il loro sviluppo sia all'esterno che all'interno della terra; altre specie inoltre si sviluppano sia sopra sia dentro la terra. Quanto agli alberi fruttiferi, il loro frutto polposo protegge il seme, "custode della loro natura". Nelle noci, nelle mandorle e nei pistacchi il seme è custodito da due involucri solidi, in modo simile a una città protetta da doppie mura. In altri frutti, infine, la parte polposa contiene un nocciolo duro al cui interno è custodito il seme. Sempre preoccupato di mostrare come il seme continui la specie, Giacomo descrive l'olivo, l'uva e la melagrana, i cui semi sono circondati da una polpa rossa e crescono lacerando la pelle del frutto. L'intera forza della Natura si trova nel seme, che conserva la specie. La "natura" (kyānā) è ciò che si trova in maniera stabile e sicura in una cosa, e che le permette di svilupparsi senza cambiare di "genere" (gensā), rimanendo dunque sempre uguale a sé stessa (ibidem, p. 137).
Giacomo nota le essenze profumate e le piante medicinali. L'elenco è lungo: mirra, cassia, stacte, incenso, cinnamomo, varie gomme o resine di alberi e arbusti utilizzati in farmacologia. Quando è difficile estrarre il succo degli alberi e delle piante, i medici, grazie a "un'osservazione attenta e intelligente", riescono a utilizzare radici, foglie e persino la corteccia, facendole bollire in acqua ed estraendo in tal modo la loro virtù terapeutica. In medicina si utilizzano normalmente alcune piante secche; due esempi sono l'aloe e "quella che i medici chiamano acacia". Del vischio, la pianta parassita, Giacomo nota che la colla da esso prodotta attira certi uccelli e che per questo i Greci lo chiamano "cacciatore di uccelli". Il dafne, identificato da Giacomo con lo ᾽esṭûrkā (stýrax), è spezzato, frantumato e gettato nell'acqua; "i pesci bevono, restano accecati e muoiono". Tutto è buono nella creazione: l'elleboro non è letale, l'euforbia non è nociva, la scilla non brucia, la scamonea non è mortifera. Anche piante a volte considerate mortali oppure inutili possono sempre rendere qualche servizio. La fibra del lino e i chicchi del cotone servono a fare abiti. Alcune "piante spregevoli" acquatiche, come il papiro, sono utilizzate per fabbricare il 'papiro', supporto della scrittura.
Il testo di Giacomo non è una lezione di botanica e non va paragonato agli scritti di Barebreo, quali il Candelabro dei santuari o il Libro delle piante, o ancora la sesta delle sue opere enciclopediche, Crema della sapienza, che contiene una traduzione in siriaco del testo al-Šifā᾽ di Avicenna sulle piante, aggiungendovi frammenti del De plantis di Nicola di Damasco (Nicola di Damasco, p. 35) o ad altri scritti siriaci di geoponica.
Lo studio sulle piante di Giacomo, come quello sugli animali (eccezion fatta forse per le osservazioni sugli uccelli), non distingue altro che il genere e la specie all'interno delle grandi suddivisioni morfologiche, tipologiche, o anche ecologiche. Giacomo avrebbe approvato queste riflessioni di Teofrasto nella sua Storia delle piante:
Ma una differenza al tutto propria e in certo modo importantissima è questa che, al par degli animali, ci sono piante e acquatiche e terrestri; sicché certe non posson vivere altro che in luoghi umidi e, se crescono altrove, non vengono della stessa bontà, ma tralignano.
Di tutti gli alberi e, generalmente parlando, di tutte le piante, c'è molte specie in ogni genere, e non ce n'è forse nessuna che sia di una specie sola. (I, 14, 3)
Aujac 1966: Aujac, Germaine, Strabon et la science de son temps. Les sciences du monde, Paris, Les Belles Lettres, 1966.
Barebreo: Bar Hebraeus, Gregorius, Le candélabre des sanctuaires, édité et traduit en français par Ján Bakoš, Paris, Firmin-Didot, 1930-1933, 2 v.
Barhadbeshabba: Barhadbeshabba Arbaya, Cause de la fondation des Écoles, texte syriaque publié et traduit par Addai Scher, Turnhout, Brepols, 1971, pp. 319-404 (1. ed.: Paris, Firmin-Didot, 1907).
Baumstark 1922: Baumstark, Anton, Geschichte der syrischen Literatur, mit Ausschluss der christlich-palästinensischen Texte, Bonn, A. Marcus und E. Weber, 1922.
Drossaart Lulofs 1975-: Aristoteles semitico-latinus, edited by Hendrix Joan Drossaart Lulofs, Amsterdam-New York, North-Holland Publishing Co., 1975-.
Giacomo di Edessa: Jacobus Edessenus, Études sur l'Hexaméron de Jacques d'Édesse. Notamment sur ses notions géographiques contenues dans le 3. traité, texte syriaque publié et traduit par Arthur Hjelt, Helsingfors, [s.n.], 1892.
‒ Jacobus Edessenus, Hexaemeron, seu In opus creationis libri septem, edidit Jean-Baptiste Chabot, Paris, Bovillon et Vieweg, 1928-1932, 2 v.
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Isho῾dad di Merv: Isho῾dad di Merv, Commentaire d'Iso῾dadh de Merv sur l'Ancien Testament, Louvain, L. Durbecq, 1950-1981, 6 v.; v. I.1: Genèse, édité par Jacques-Marie Vosté et Ceslas van den Eynde, 1950; v. I.2: Genèse, édité par Ceslas van den Eynde, 1955.
Lagarde 1866: Lagarde, Paul Anton de, De Geoponicon versione syriaca commentatio, Leipzig, [s.n.], 1855, in: Lagarde, Paul Anton de, Gesammelte Abhandlungen, Leipzig, F.A. Brockhaus, 1866, pp. 120-146.
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Nicola di Damasco: Nicolaus Damascenus, De plantis. Five translations, edited and introduced by Hendrix Joan Drossaart Lulofs and E.L.J. Poortman, Amsterdam-New York, North-Holland Publishing Co., 1989.
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Teodoro bar Koni: Theodorus bar Kōnī, Liber scholiorum, edidit Addaï Scher, Paris, Bovillon et Vieweg, 1910-1912, 2 v.
Teofrasto: Theophrastus, Recherches sur les plantes, texte établi et traduit par Suzanne Amigues, Paris, Les Belles Lettres, 1988-1993, 3 v.; v. I, 1988.
Vosté 1929: Vosté, Jacques-Marie, Catalogue de la Bibliothèque Syro-Chaldéenne du Couvent de Notre-Dame des Semences près d'Alqoš (Iraq), Rome, Angelicum, 1929.