medicina comportamentale
Disciplina nata negli Stati Uniti verso la metà degli anni Settanta del 20° sec., basata sull’osservazione che il rischio di contrarre malattie fisiche diminuisce con la capacità di controllare gli stati emotivi. Già negli anni Sessanta, infatti, indagini epidemiologiche svolte negli USA e in Gran Bretagna avevano dimostrato un legame statistico significativo tra stati emotivi repressi (soprattutto la rabbia) e il cancro al polmone. Grazie agli studi pionieristici dello psichiatra americano Donald Dudley, seguito poi da numerosi altri, è stato scoperto che gli stati emotivi modificano l’attività del sistema nervoso (sia di quello centrale sia di quello periferico autonomo) e del sistema endocrino, e che tra questi due esistono strette e complesse interazioni reciproche che possono portare a disturbi fisici sistemici, soprattutto a causa del - l’incremento della produzione di ormoni dello stress (➔ psiconeuroendocrinoimmunologia). La m. c. si interessa quindi di patologie tra loro assai differenti ma che evidenziano, sul piano eziopatogenetico o della cronicizzazione, un comune elemento di natura psicologica come, per es., l’ansia, lo stress o gli stili di vita rischiosi per la salute: così, malattie come l’AIDS, le cardiopatie, i disturbi alimentari o l’obesità, l’enuresi, il dolore cronico, le malattie respiratorie e le principali malattie psicosomatiche, ma anche il cancro e le malattie autoimmuni, sono poste in relazione a condotte psicologiche di fronteggiamento errato o disfunzionale dello stress ambientale, personale o interpersonale. In tal senso l’approccio è simile a quello della psicosomatica (➔). L’intervento clinico consiste perciò in una consulenza psicologica che, a fianco degli opportuni presidi medicochirurgici, aiuta il paziente a modificare pensieri, emozioni e stili di vita correlati all’insorgenza e al mantenimento del disturbo fisico.