MECCANICISMO E VITALISMO
(v. meccanicismo, XXII, p. 663; vitalismo, XXXV, p. 462)
Almeno a partire dall'inizio dell'Ottocento, le scienze della vita hanno visto l'alternarsi di due diverse tipologie di spiegazioni dei fenomeni biologici, diverse per obiettivi, metodi d'indagine e natura dei principi teorici utilizzati: la prima, meccanicista o riduzionista, mira a spiegare il comportamento dei sistemi complessi sulla base della loro ''riduzione'' alle leggi che regolano i livelli di organizzazione inferiore, in particolare sulla base di reazioni chimiche o di leggi fisiche; la seconda, vitalista od organicista, assume al contrario la presenza di ''leggi dell'organizzazione'' o leggi vitali, tipiche dei sistemi complessi e organizzati, che determinano anche il comportamento fisico e chimico dei sistemi biologici. Questo doppio movimento fra ''chimismo'' e ''organizzazione'' ha ripreso vigore con gli sviluppi, a partire dalla seconda metà del Novecento, della biologia molecolare, che a molti scienziati e filosofi è sembrata un trionfo della spiegazione meccanicista. Questo ha, per reazione, rafforzato la tendenza organicista, volta a limitare la portata di questo supposto ''meccanismo molecolare''.
Riduzionismo. - Il m., o riduzionismo, è l'approccio teorico alla spiegazione dei fenomeni biologici che considerano le strutture e le funzioni dei sistemi viventi come riconducibili a processi essenzialmente fisici, non diversi per natura da quelli che si manifestano anche negli oggetti non viventi; mentre il v. è l'idea che i sistemi vitali manifestino delle proprietà, forze o principi di organizzazione propri e non riducibili ad altro fenomeno naturale. Anche se i termini ''vitalismo'' e ''organicismo'' sono usati spesso come sinonimi, occorre fare una chiara distinzione fra di loro, in quanto i vitalisti ammettono qualche entità non fisica, una forza specifica o una differenza essenziale fra ''sostanza vitale'' e materia ordinaria. Gli organicisti, invece, affermano che le proprietà tipiche dei sistemi complessi − come la forma, la totalità, l'esistenza di processi ''diretti a uno scopo'' e l'autoregolazione − possono essere spiegate completamente sulla base di processi naturali, come l'evoluzione per selezione naturale o particolari condizioni fisiche.
F.J. Ayala (1974) ha distinto tre differenti accezioni teoriche del riduzionismo, chiamate, rispettivamente, ontologica, metodologica ed epistemologica. Il riduzionismo ontologico prevede che la spiegazione delle forme di organizzazione di ordine superiore sia basata sui meccanismi e i processi che operano ai livelli inferiori, fra cui sono ritenuti fondamentali i livelli chimico e fisico. Molti biologi si dichiarano in linea di principio dei riduzionisti ontologici, affermando che alla base dei fenomeni vitali non vi è altro che processi chimici e fisici. Tuttavia, quest'affermazione di principio è immediatamente bilanciata da una restrizione importante, che sottolinea come questi processi siano, nei sistemi viventi, organizzati in modo del tutto peculiare, e, dato che la materia di cui sono composti gli organismi viventi è straordinariamente omogenea, solo la loro organizzazione permette di associare gli stessi elementi in strutture molto diverse e adattate ad ambienti eterogenei, ed è questo che li distingue fra di loro e costituisce la base dell'evoluzione biologica.
Questa restrizione ha portato alla proposta di un riduzionismo metodologico. Sul piano metodologico la contrapposizione riduzionismo/organicismo si riduce quindi a decidere se sia da privilegiare il metodo analitico, disaggregando il sistema e studiandone le componenti per poi ricostruire l'organizzazione a partire dalla conoscenza acquisita sulle sue parti, ovvero se un sistema biologico debba essere compreso come un tutto, in quanto uno studio analitico occulterebbe le proprietà dovute appunto all'organizzazione, che non sono riducibili alla somma delle proprietà delle parti. Per questo tipo di riduzionisti l'attività scientifica deve svilupparsi ''come se'' i sistemi biologici fossero completamente descrivibili in termini di reazioni chimico-fisiche, salvo a introdurre poi dei concetti organicisti correttivi al momento dell'elaborazione dei modelli esplicativi generali. Tuttavia, i rapporti funzionali che vigono fra le parti, e che devono essere accertati perché una descrizione possa dirsi completa, sono straordinariamente complessi e il loro chiarimento è proporzionalmente laborioso.
Centrale, in quest'ambito, è il concetto di forma, di organizzazione, che sottintende un altro concetto, quello di ''relazione''. La biologia, infatti, è al tempo stesso la scienza di particolari oggetti naturali e soprattutto la scienza delle relazioni fra questi oggetti. Ogni oggetto è al tempo stesso un individuo, una totalità e un elemento di un insieme di relazioni con altri elementi allo stesso o a diversi livelli di organizzazione. Un organismo vivente, ma anche una cellula, un gene o una molecola biologica, è comprensibile solo in quanto parte di un sistema di relazioni. La stessa riproduzione, asessuata o sessuata, il fenomeno fondamentale della vita, è di per sé una relazione fra oggetti, fra individui diversi. Da questo punto di vista la forma e l'organizzazione non sono concetti puramente ''descrittivi'' di oggetti biologici, come nella tradizione morfologica classica, quanto concetti ''esplicativi'' delle relazioni, storiche e funzionali, fra tali oggetti. La spiegazione biologica di un fenomeno tende a scoprire la sua posizione intrinseca in un nesso di relazioni, che si estende nello spazio (la forma, i sistemi biologici) e nel tempo (evoluzione). La forma è quindi al tempo stesso un problema da spiegare, in particolare attraverso la sua funzione e i percorsi della sua costruzione, e un principio di spiegazione, in quanto determinante delle relazioni fra gli oggetti biologici. Se lo studio degli oggetti richiede necessariamente il metodo analitico, le relazioni fra oggetti, e in primo luogo i rapporti evolutivi fra di loro, non possono essere descritti in termini puramente riduzionistici, in quanto legati alla storia evolutiva, alla conservazione di eventi avvenuti lungo il percorso evolutivo delle specie.
Dal punto di vista metodologico, si possono quindi definire riduzioniste od organicistiche le spiegazioni che prendono in considerazione i singoli livelli, rispettivamente inferiori o superiori, a seconda del livello di organizzazione che si ritiene più adatto per indagare un certo fenomeno biologico. Comunque, tutti i riduzionisti riconoscono il valore conoscitivo degli studi d'insieme, così come gli scienziati che studiano sistemi organizzati complessi, come la fisiologia cellulare, il sistema immunitario, le società animali o gli ecosistemi fanno costante riferimento ai parametri chimici e fisici per descriverne il comportamento. In effetti, alcuni concetti sviluppati nel contesto degli approcci organicistici, come il principio dell'insorgenza (emergency) e quello della ''causalità verso il basso'' (downward causation), fanno parte integrante di interpretazioni dichiaratamente riduzionistiche dell'evoluzione (Campbell 1974).
Infine, l'aspetto epistemologico del riduzionismo verte intorno alla questione se le teorie formulate in un settore della scienza possano essere considerate casi speciali di teorie elaborate in altri settori. Così, per es., nel campo della genetica molta parte dei tentativi di riduzione hanno cercato di dedurre le leggi della trasmissione dei caratteri dalla struttura e dal comportamento chimico del materiale ereditario, spiegando quindi l'ereditarietà con le leggi della chimica strutturale (Darden 1991). È per l'appunto quest'aspetto che, dopo la proposta da parte di J. Watson e F. Crick, nel 1953, della struttura a doppia elica del DNA come base della duplicazione del materiale genetico, si è posto al centro del dibattito epistemologico in biologia.
La biologia molecolare ha prodotto una discontinuità teorica che è stata percepita negli ultimi anni soprattutto attraverso gli sviluppi tecnologici che essa ha reso possibili, in particolare con l'ingegneria genetica. Tale discontinuità è di natura eminentemente teorica, concettuale, ed è centrata su una definizione di vita come trasmissione e variazione d'informazione. Questo carattere teorico innovativo si è manifestato con chiarezza quando questa nuova disciplina ha fornito una risposta a un classico paradosso del pensiero biologico, presente in nuce già in Aristotele: l'esistenza di oggetti naturali governati dalla chimica e dalla fisica, ma dotati di progetto, di un programma che è il risultato della storia evolutiva e che è ''gratuito'', secondo la felice espressione di J. Monod (1970), rispetto ai vincoli chimici e fisici.
Partendo dalla struttura a doppia elica del DNA, dal modo in cui l'informazione ereditaria è scritta nella sequenza di basi della sua struttura chimica, grazie a un codice genetico universale, nel 1958 F. Crick ha operato una distinzione netta fra tre flussi differenti implicati nella sintesi proteica (di energia, di materia e d'informazione), assegnando la priorità teorica all'ultimo. Considerando come centro del problema il ''cruciale atto della sequenzializzazione'', cioè il disporsi ordinato e regolare dei residui aminoacidici lungo la catena proteica, Crick stabilisce tre ''principi generali'' che diverranno fondamentali per la biologia molecolare: l'''ipotesi della sequenza'', che nella sua forma più semplice assume che la specificità degli acidi nucleici è espressa unicamente dalla sequenza delle basi di cui sono composti; la ''colinearità'', cioè la corrispondenza fra la linearità delle molecole proteiche e la linearità genetica, che permette di associare la semplicità (logica) della composizione delle molecole proteiche alla semplicità di un susseguirsi lineare di basi lungo la catena del DNA; il ''dogma centrale'', così chiamato perché all'epoca privo di qualsiasi prova empirica, che afferma l'impossibilità del passaggio d'informazione dalle proteine agli acidi nucleici o fra proteine. Il ''dogma centrale'' − che ha per la biologia lo stesso statuto teorico della legge di gravitazione di Newton o del principio d'indeterminazione di Heisenberg in fisica − si associa alla complessità della macchina chimica cellulare, ed è questa interazione a costituire la base dei meccanismi della selezione naturale.
Il fatto fondamentale che crea una discontinuità con quanto si era teorizzato in precedenza sulla natura chimica del gene e sulla sua influenza nella fisiologia cellulare e di conseguenza nell'organizzazione biologica, è che i geni non sono, dal punto di vista logico, propriamente una sostanza chimica, ma sono una sequenza di basi, che porta inscritta l'informazione genetica. Il DNA, in quanto portatore dell'informazione ereditaria e non come molecola, è come staccato dalla fisiologia cellulare, separato da essa, avendo come solo compito di perpetuare l'informazione genetica e le variazioni che sono prodotte in essa dalle mutazioni casuali.
La biologia molecolare, interpretando le proprietà essenziali degli organismi in termini di strutture molecolari, costruisce una nuova definizione della vita, che Monod riassume in tre caratteristiche fondamentali: la teleonomia, la morfogenesi autonoma, l'invarianza riproduttiva. La teleonomia designa l'esistenza di oggetti naturali dotati di un progetto, conservato nelle loro strutture e realizzato dalle loro funzioni, progetto che dà origine a un determinismo autonomo, a una ''libertà'' quasi totale. Un sistema vivente è fondamentalmente un sistema chimico, ma questo, grazie ai meccanismi messi a punto dall'evoluzione per selezione naturale, trascende i vincoli chimici per realizzare un progetto inscritto nel suo patrimonio ereditario. C'è qui una contraddizione epistemologica profonda, un paradosso, evidenziato in particolare dalla scoperta della regolazione cellulare, dal modello dell'operone proposto da F. Jacob e Monod nel 1961, un "fenomeno meravigliosamente e quasi miracolosamente teleonomico" (Monod 1970). Tutte le attività fisiologiche e lo sviluppo degli organismi sono regolati da un flusso d'informazione e da complessi e precisi meccanismi di controllo. Informazione e controllo sono quindi considerati i principi fondamentali dei sistemi biologici, la loro modalità specifica di funzionamento. E a questi due aspetti sono legati i ''segreti della vita'' scoperti dalla biologia molecolare: il primo, la struttura a doppia elica del DNA, spiega la conservazione, la trasmissione e l'interpretazione dell'informazione ereditaria; il secondo, il modello dell'operone, spiega come il controllo dell'espressione dell'informazione genetica può regolare la fisiologia cellulare e quindi l'insieme delle funzioni vitali.
Gli oggetti biologici sono dotati di un rigoroso programma interno, dell'informazione e dei controlli necessari alla propria costruzione e realizzazione; e i sistemi viventi sono i soli ad avere questa proprietà di morfogenesi autonoma. "Su tali basi, e non su quella di una vaga 'teoria generale dei sistemi', diventa possibile comprendere in quale senso, molto reale, l'organismo trascende effettivamente, pur osservandole, le leggi fisiche, per essere solo promozione e realizzazione del proprio progetto" (Monod 1970). La separazione del programma, espresso con concetti e termini astratti, dalla sua concreta realizzazione, dagli aspetti tipicamente biochimici, permette di eliminare le difficoltà insite nel modo tradizionale di trattare la duplicazione del materiale ereditario. Ciò che è essenziale è la continuità del contenuto d'informazione, non già la continuità del suo supporto materiale. Lungo il cammino dell'evoluzione solo i messaggi permangono e si sviluppano, mentre le molecole che ne erano portatrici o che ne hanno assicurato la duplicazione, la variazione e la trasmissione si sono man mano perse.
Questa teorizzazione ha permesso di riformulare in maniera nuova, altamente originale, il classico problema del riduzionismo, in un certo senso superandolo, spostando su una scala temporale diversa i due aspetti del problema. Il funzionamento attuale dei sistemi viventi, che si può studiare con il metodo analitico, è posto sotto il controllo del programma genetico, che ne assicura la sua conformità a un ''progetto'', il quale, a sua volta, è il risultato esclusivo di un processo materialistico: l'evoluzione biologica per selezione naturale. I sistemi biologici hanno un controllo duplice: sono sottoposti alle leggi della chimica e della fisica e al tempo stesso sono retti da un programma, che non è né fisico, né chimico, ma informazionale, esclusivo risultato dell'evoluzione. Per Jacob (1971), i due atteggiamenti, riduzionista e integrista, si differenziano per metodi e obiettivi, ma anche per una "diversità di linguaggio, di schemi concettuali, e quindi di spiegazioni causali intorno al mondo vivente. L'uno si interessa delle cause remote, legate alla storia della terra e degli esseri viventi per milioni di generazioni. L'altro guarda invece alle cause immediate, che fanno entrare in gioco gli elementi costitutivi dell'organismo, il suo funzionamento, le sue reazioni all'ambiente circostante".
L'esistenza di un programma ereditario, riprodotto fedelmente e trasmesso geneticamente, viene considerata una proprietà caratteristica di tutti i sistemi viventi, distintiva rispetto a tutti gli altri sistemi presenti in natura: i sistemi biologici sono entità dotate di un progetto, rappresentato in codice nelle loro strutture e che si realizza, si ''traduce'' nei processi di crescita e nelle funzioni fisiologiche. L'esistenza di questo progetto, che aveva nei secoli costituito terreno di violente dispute filosofiche tra vitalisti e meccanicisti, spiega il comportamento finalizzato degli esseri viventi, il conformarsi a uno scopo dell'insieme delle loro funzioni. Per Jacob "l'universalità dei processi diretti ad uno scopo è forse la proprietà più caratteristica del mondo vivente" e per l'evoluzionista E. Mayr (1976) "il possesso da parte di tutti gli organismi di un programma genetico è forse la differenza più decisiva tra gli organismi e la materia inanimata". Si potrebbe affermare, schematizzando, che la biologia molecolare, piuttosto che una biologia spiegata con le molecole è una biologia applicata alle molecole. Questa disciplina non mira a una spiegazione riduzionistica dei fenomeni biologici complessi sulla base della natura chimica delle molecole, ma trasporta a livello delle molecole dei concetti biologici tradizionali, in primo luogo quello, classico e specifico, di ''forma''. Mayr osserva che "l'evoluzione degli organismi superiori deve essere studiata sia come una elaborazione di sistemi sia attraverso l'analisi delle unità elementari. L'enfasi unilaterale su di una a esclusione dell'altra non sarà in grado di produrre una vera comprensione... Un futuro prospero per la biologia può essere garantito solo da una unificazione degli approcci analitico e di sistema". La nuova impostazione teorica della biologia contemporanea pone piuttosto l'accento "sulle teorie e sui problemi autonomi di ogni livello e in ultima analisi sull'autonomia della biologia nella sua totalità" (Mayr 1982).
Tale nuova impostazione teorica è stata applicata ai diversi problemi biologici fondamentali. Il primo riguarda l'embriologia, cioè la descrizione dei processi che determinano, durante lo sviluppo e il differenziamento embrionale, la costruzione della forma, dislocando nel luogo e nel tempo appropriati i diversi tipi di cellule, tessuti e organi. Dato che l'informazione genetica ha una topologia lineare, unidimensionale, mentre un organismo è, ovviamente, tridimensionale, ci si è posti il problema di vedere quali meccanismi potevano rendere conto di questo passaggio dalla linearità alla forma tridimensionale. Dopo una prima fase dogmatica, che faceva discendere direttamente dalla sequenza lineare degli aminoacidi lungo una proteina la sua struttura tridimensionale e quindi la sua funzione, si è passati a una visione dinamica, in cui tale forma è il risultato dell'interazione fra l'informazione genetica e il contesto in cui la proteina in costruzione si viene a trovare. Il problema diveniva quello della sintesi differenziata delle proteine e quindi dell'attivazione differenziata dei relativi geni strutturali. La costruzione dell'organizzazione durante lo sviluppo sarebbe quindi sotto il controllo del programma genetico, mediante la sintesi di opportuni segnali molecolari che determinano l'esatta posizione spazio-temporale che devono assumere le cellule nel corso della morfogenesi. Le modificazioni della struttura molecolare delle membrane cellulari permettono di collegare i problemi della genetica molecolare e quelli della biologia dello sviluppo. Così, nel 1975, G. M. Edelman ha proposto che le interazioni fra le cellule nervose embrionali siano accompagnate da cambiamenti dinamici a livello delle molecole presenti nella membrana cellulare. L'anno successivo egli ha avanzato l'ipotesi che analoghi eventi di modulazione della superficie delle cellule fossero implicati nel coordinare i processi di divisione, movimento e interazione cellulari durante le fasi di sviluppo degli organismi multicellulari. Queste molecole morforegolatrici sono codificate da particolari gruppi di geni strutturali e regolatori, e interagiscono fra loro secondo regole epigenetiche definite, generando repertori di segnali dalla cui combinazione dipende la regolazione, la direzione e l'irreversibilità dei processi di sviluppo. Edelman, più tardi, ha chiamato il suo approccio topobiologia, cioè studio della regolazione delle cellule in funzione della loro collocazione nell'embrione. La topobiologia definisce quindi i rapporti fra i concetti della genetica dello sviluppo e le descrizioni embriologiche dei cambiamenti meccanici e biochimici che accompagnano il manifestarsi della forma di un animale (Edelman 1988). Si tratta, come si vede, di un approccio che combina una metodologia riduzionistica con aspetti tipicamente organicistici.
Lo stesso approccio viene sostenuto per lo studio di organizzazioni complesse, come le società animali. Per il sociobiologo E. O. Wilson (1971) le idee organiciste hanno svolto in questo campo una funzione euristica nel richiamare "l'attenzione sui processi organizzativi poco conosciuti e sulle relative tecniche di analisi". In particolare, Wilson sottolinea come il concetto di superorganismo, definito da W. M. Wheeler nel 1911, e sviluppato in chiave olistica da diversi entomologi per spiegare l'organizzazione delle società delle termiti, delle formiche e delle api, abbia dato luogo ad approcci sperimentali e riduzionistici che hanno progressivamente soppiantato o meglio integrato le idee organicistiche, riconducendo il funzionamento di formicai, termitai e alveari a meccanismi di regolazione governati da programmi genetici. Wilson ha ricavato da questa riflessione una lezione epistemologica utilizzata in difesa della sociobiologia dall'accusa di riduzionismo. Egli distingue fra il ''metodo della riduzione'' e il riduzionismo: "la riduzione è lo strumento tradizionale dell'analisi scientifica... L'essenza del metodo scientifico consiste nella riduzione dei fenomeni percepiti a principi fondamentali verificabili". Tuttavia, Wilson afferma che "la tecnica di suddividere sistemi complicati in componenti più facili da trattare (in altre parole, l'analisi) costituisce solo la metà del normale metodo scientifico. L'altra metà è la sintesi, in cui vengono messe in evidenza le relazioni fra le parti, e l'intero sistema viene ricomposto attraverso la sperimentazione diretta, o attraverso la simulazione teorica mediante modelli matematici... La sintesi costituisce la seconda operazione indispensabile della ricerca scientifica, e un mezzo importantissimo di verifica dell'analisi. La procedura della scienza è perciò in ultima analisi un atto di creazione, la ricostruzione di un mondo reale in forma viva ed efficiente" (Lumdsen e Wilson 1983).
In ecologia si è assistito a un singolare ''rovesciamento epistemologico''. In questa disciplina sono infatti all'opera due differenti metodologie, che sono state definite da G. E. Hutchinson (1978) ''approccio olologico'' e ''approccio merologico'', ossia, in altri termini, approccio olistico e approccio popolazionistico. Mentre il primo studia quasi esclusivamente i flussi di materia ed energia negli ecosistemi, senza prendere in considerazione la natura degli oggetti che li compongono, cioè gli organismi presenti in essi, il secondo studia la dinamica delle popolazioni sulla base del presupposto che tale dinamica determina anche le proprietà delle organizzazioni ecologiche di livello superiore. In questo modo, l'approccio olistico tende a una riduzione epistemologica alle leggi della fisica e della chimica, con l'uso prevalente di spiegazioni fisiche e chimiche delle interazioni funzionali fra le unità ecologiche (Odum 1959), mentre l'approccio popolazionistico, analitico, si basa sullo studio della distribuzione e dell'abbondanza degli organismi e quindi sottolinea l'autonomia degli oggetti biologici rispetto alla chimica e alla fisica. In questo secondo caso si tratterebbe di un ''riduzionismo biologico'', che insiste su gruppi di individui caratterizzati da statistiche vitali, piuttosto che su comunità ed ecosistemi visti come un tutto. Una comunità è vista come un intrecciarsi di popolazioni dove i cambiamenti demografici sono dovuti a interazioni biotiche deterministiche, come la competizione per il cibo e la predazione.
Il vitalismo: le teorie della complessità. - Diverse critiche sono state sollevate contro l'interpretazione dell'organizzazione biologica basata sui concetti e le teorie della biologia molecolare, che fornirebbe una visione parziale dei fenomeni, in quanto priva degli strumenti concettuali e dei metodi adatti a coglierne la complessità. Si propone, in alternativa, l'elaborazione di teorie più globali, volte a spiegare i sistemi nella loro complessità piuttosto che a descriverne gli elementi. Alcune di queste posizioni teoriche si sono date presupposti chiaramente metafisici, all'interno di una ''scienza della complessità'' o complessologia che mantiene con la ricerca scientifica dei contatti abbastanza esili e quindi non vengono in questa sede prese in considerazione. In particolare, il rifiuto aprioristico di qualunque metodologia analitica, anche se locale, a favore di una priorità della forma e della struttura, priva di basi materiali o evoluzionistiche, accomuna molte di queste posizioni al v. metafisico ottocentesco. L'insieme della biologia contemporanea mancherebbe, secondo quest'impostazione, persino degli strumenti per trattare questo problema, posizione che sembra legata semplicemente a un rifiuto preconcetto di prendere in considerazione le innovazioni teoriche e metodologiche prodotte dalla biologia molecolare e dalla teoria sintetica dell'evoluzione.
In ambito più direttamente scientifico, una proposta teorica relativa all'analisi della complessità è stata avanzata dal chimico I. Prigogine, che nelle sue ricerche sulla termodinamica dei processi irreversibili ha studiato il comportamento di alcuni sistemi macroscopici nei quali si svolgono dei processi coerenti. Questi sistemi fisici, chiamati dissipativi, sono in grado di stabilizzarsi su due distinti livelli di organizzazione, passando da uno stato all'altro quando un certo parametro esterno assume determinati valori critici. Questo tipo di sistemi macroscopici, in grado di passare da uno stato caotico iniziale a uno più ordinato, è stato proposto come modello per spiegare l'incremento dell'ordine nelle strutture mediante la fluttuazione di parametri esterni. In un libro sulla complessità scritto in collaborazione con G. Nicolis, Prigogine ha cercato di ricondurre ogni forma di complessità, anche appartenente a diversi contesti naturali, nella categoria dei meccanismi di auto-organizzazione basati su processi dissipativi. Nicolis e Prigogine (1989) sostengono che contrariamente ai modelli fisici della meccanica classica la distinzione fra ''semplice'' e ''complesso'', fra ''ordine'' e ''disordine'' è molto più sottile di quanto si supponesse: "Oggi si sa che già i più semplici esempi di sistemi meccanici presentano un comportamento complesso... Sistemi ordinari come uno strato di fluido o una miscela di prodotti chimici possono generare sotto certe condizioni fenomeni autorganizzati in scala macroscopica sotto forma di modelli spaziali di ritmi temporali. In poche parole la complessità non è più limitata alla biologia; sta invadendo la scienza fisica e sembra profondamente radicata nelle leggi della natura". Per gli autori questa riconcettualizzazione della complessità si contrapporrebbe alla concezione prevalente all'inizio del Novecento, che voleva le leggi dell'universo deterministiche e reversibili, sostenendo che al contrario molti processi fondamentali della natura sono "irreversibili e stocastici e che le leggi deterministiche e reversibili che descrivono le interazioni elementari non dicono la verità". Ma questa proposta teorica sembra non prendere in considerazione i risultati acquisiti dalle scienze biologiche, in particolare la biologia molecolare e la teoria dell'evoluzione, proprio nel tentativo di definire meglio i connotati semantici del concetto di complessità.
Il concetto di complessità può essere invece ricondotto all'interno delle teorie biologiche correnti. L'evoluzionista E. Mayr distingue l'utilizzazione di questo attributo in rapporto a sistemi naturali viventi o non viventi e rinvia nei suoi lavori, per la definizione di complessità, a H. Simon, psicologo ed economista, protagonista della ricerca teorica sull'intelligenza artificiale, che in un famoso saggio del 1962 sancì una svolta concettuale per la riflessione nel campo dell'intelligenza artificiale. Simon e Mayr sottolineano come l'organizzazione gerarchica fornisca una spiegazione dei sistemi complessi. L'evoluzione biologica costituisce il modello di riferimento e la selezione naturale è in grado di generare la complessità organizzata, a partire da un sistema semplice e passando attraverso forme intermedie stabili, sino a dare origine a un sistema organizzato in sottosistemi subordinati.
In conclusione, di fronte ai risultati della biologia contemporanea, per molti aspetti sorprendenti e comunque densi di conseguenze teoriche, e alla messa in questione delle tradizionali posizioni filosofiche nelle scienze della vita, la riflessione teorica si è trovata sostanzialmente impreparata, tanto che si è sentito il bisogno di risalire sino alla distinzione aristotelica fra forma e materia per trovare un'espressione filosofica di questi concetti. Di qui la proposta di M. Delbrück (1971), uno dei maîtres à penser della nuova disciplina, di assegnare il premio Nobel ad Aristotele per la scoperta della biologia molecolare. E al di là dell'aspetto paradossale, questa proposta mostra la permanenza di lunga durata di alcune questioni teoriche, che sembrano risalire alle radici stesse del pensiero biologico, e la necessità di ripensarle in costante legame con gli sviluppi della ricerca scientifica.
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