QUANTISTICA, MECCANICA (fr. mécanique quantique; ted. Quantenmechanik; ingl. quamum mechanics)
I sistemi meccanici di dimensioni estremamente piccole, come gli elettroni, gli atomi e le molecole, non obbediscono alle stesse leggi meccaniche ed elettromagnetiche dei corpi di dimensioni ordinarie, ma ad altre leggi, il cui insieme costituisce la meccanica atomica, che, nella sua forma odierna, è chiamata meccanica quantistica, e rappresenta la forma più organica e generale della teoria dei quanti (v. quanti, teoria dei). La meccanica quantistica è sorta quasi contemporaneamente sotto due forme in apparenza molto diverse: la meccanica delle matrici, detta anche, fin da principio, "meccanica quantistica" (Quantenmechanik) di W. Heisenberg (1925), e la meccanica ondulatoria di cui la prima idea è dovuta a L. De Broglie (1924) e il successivo sviluppo sistematico principalmente a E. Schrödinger (1926). È stato poi dimostrato dallo stesso Schrödinger che le due meccaniche devono condurre in ogni caso allo stesso risultato, cosicché esse rappresentano soltanto due forme matematiche diverse, ma in sostanza equivalenti, di una stessa teoria: ciascun problema si può trattare con l'uno o con l'altro metodo, secondo la convenienza. La meccanica delle matrici e quella ondulatoria apparvero subito come un grande progresso sulle precedenti teorie dei quanti, soprattutto perché non introducevano il postulato del discontinuo e perché in alcuni casi rappresentavano meglio i risultati sperimentali: una clamorosa conferma delle loro previsioni, e soprattutto dell'opportunità della rappresentazione ondulatoria, si ebbe poi (1927) con la scoperta, da parte di Davisson e Germer, della diffrazione degli elettroni (v. interferenza e diffrazione), fenomeno del tutto inesplicabile con la vecchia teoria dei quanti, e invece previsto e perfettamente inquadrato, anche nel suo aspetto quantitativo, dalla meccanica ondulatoria. Ma il significato profondo della nuova meccanica, legato ai principî filosofici della fisica, apparve solo gradatamente, soprattutto in seguito alla scoperta del "principio d'indeterminazione" di Heisenberg (1927). Intanto un potente contributo alla sistemazione e alla generalizzazione della teoria veniva portato da P. A. M. Dirac e P. Jordan, che, giovandosi del metodo matematico degli operatori, diedero alla meccanica quantistica una forma nuova e assai più generale (teoria delle trasformazioni), in cui rientrano come casi particolari sia il metodo delle matrici sia quello della meccanica ondulatoria. Questo punto di vista unitario si è poi prestato a esposizioni aventi di mira soprattutto la struttura logica della teoria e aventi un alto grado di astrazione (una di queste dovuta allo stesso Dirac, v. bibl.). Infine l'introduzione dei metodi matematici della teona dei gruppi, fatta sistematicamente da H. Weil (v. bibl.), ha fornito alla meccanica quantistica un altro strumento analitico potente, adatto specialmente per la trattazione dei sistemi contenenti più elettroni.
La meccanica quantistica ha dato luogo in pochi anni a un numero grandissimo di note e memorie, e i suoi metodi, rapidamente applicati in tutti i campi della fisica atomica, hanno avuto numerose conferme sperimentali, talvolta anche assai precise. La teoria dei quanti di Bohr e Sommerfeld aveva già ricollegato, con maggiore o minore precisione, un gran numero di fatti sperimentali ad un gruppo limitato di postulati, di cui però non si vedeva né la giustificazione né il coordinamento; la meccanica quantistica dimostra che quei postulati non erano che delle conseguenze, talvolta solo approssimate e talvolta esatte, di pochi principî generali e logicamente assai più soddisfacenti: così essa non soltanto non è in contraddizione con la teoria di Bohr e Sommerfeld, ma anzi spesso la utilizza come metodo di prima approssimazione. In molti casi le due teorie dànno esattamente lo stesso risultato (per esempio, nello spettro dell'idrogeno), e allora le conferme sperimentali dell'antica teoria si applicano senz'altro alla nuova; in altri invece differiscono più o meno, e allora l'esperienza è generalmente in favore della meccanica quantistica (per es., nello spettro dell'elio). Tutto ciò rende indubitabile che le leggi della meccanica quantistica sono corrette, almeno con grande approssimazione, e che, se anche in avvenire se ne estenderanno o se ne muteranno parzialmente le basi, i suoi metodi conserveranno molto probabilmente tutto il loro valore.
Esporremo ora in forma elementare i principî della meccanica quantistica e alcuni esempî di semplici applicazioni, giovandoci soprattutto del metodo della meccanica ondulatoria, che meglio si presta a una trattazione elementare. Per la comprensione della struttura logica della teoria e delle sue basi sperimentali e per un'esposizione più ampia e sistematica, cfr. opere citate in bibliografia.
1. Il principio informatore della nuova meccanica atomica. - Il principio che, più o meno esplicitamente espresso, ha permeato sempre più profondamente la fisica teorica dopo i primi anni del sec. XX è che non si debba attribuire realtà fisica a enti o relazioni che non siano definibili mediante esperienze praticamente, o anche solo concettualmente, possibili (il che vuol dire, non vietate da nessuna legge fisica o logica). Vale a dire, ogni concetto della fisica deve poter essere definito mediante una definizione operativa (ossia una serie di operazioni fisiche concettualmente possibili) e non ha altro significato all'infuori di quello che gli viene da questa definizione. Così, per es., Einstein ha fatto rilevare che la contemporaneità di due eventi lontani non ha altro significato che quello derivante dalla descrizione di un metodo per decidere se essi sono o no contemporanei, e questa osservazione è stata, com'è noto, il punto di partenza della teoria della relatività, che ha così profondamente trasformato le nostre idee sullo spazio e sul tempo. Similmente, una ventina d'anni dopo, l'introduzione di questo principio nel campo della fisica atomica, per opera principalmente di W. Heisenberg, ha segnato l'inizio di una trasformazione non meno profonda delle nostre idee sulla struttura della materia, ed ha costituito il fondamento logico della meccanica quantistica, dando anche la spiegazione delle differenze profonde, già rilevate in parte dalla precedente teoria dei quanti, tra le leggi del mondo atomico e quelle del mondo ordinario. Difatti vi sono operazioni, possibili alla scala ordinaria, che divengono concettualmente impossibili nel microcosmo: per esempio, noi possiamo vedere o fotografare un corpo di dimensioni ordinarie senza con ciò comunicargli alcun impulso, mentre ciò sarebbe impossibile (e non solo praticamente, ma concettualmente) per un elettrone, poiché questo, diffondendo la luce, ne riceve necessariamente un impulso (come è provato sperimentalmente da esperienze sull'effetto Compton). La differenza tra i due casi dipende dal fatto che ogni quanto di luce (v. quanti, teoria dei) possiede una quantità di moto che, se comunicata a un corpo di grossa mole, gli dà una velocità trascurabile, mentre comunicata alla piccolissima massa di un elettrone gli comunica una velocità notevole. Da questo esempio si vede che, quando si trasportano nel mondo atomico le nostre concezioni abituali, si corre il rischio di postulare inavvertitamente operazioni concettualmente impossibili. E per conseguenza, alcuni concetti che ci sono assai familiari perdono significato nel mondo atomico, perché cessa la possibilità della loro definizione operativa.
In base a quest'ordine d'idee, non soltanto le leggi meccaniche ed elettriche del microcosmo possono essere diverse da quelle ordinarie (come già avevano riconosciuto le precedenti teorie dei quanti), ma diviene anche impossibile rappresentare il microcosmo mediante un modello, cioè raffigurare, per es., un elettrone come qualcosa di simile a una sferetta o a un altro corpo di quelli che vediamo ordinariamente, solo straordinariamente impiccolito: con questa concezione infatti noi involontariamente attribuiamo all'elettrone delle proprietà geometriche e cinematiche, che nel microcosmo non hanno significato (v. n. 4). Ciò è stato espresso dicendo che "il microcosmo non è visualizzabile", cioè che non sono in esso trasportabili le nostre intuizioni, fondate soprattutto su immagini visive. Ciò non significa, naturalmente, che non sia possibile conoscerne le leggi e formularle in modo matematicamente preciso.
Questo punto di vista, per quanto strettamente logico, incontra naturalmente non lievi difficoltà ad essere pienamente compreso e adottato dalle mentalità di tipo "visivo" (v. meccanicismo), per le quali esso equivale ad una rinuncia a comprendere il mondo atomico. Tali mentalità interpretano generalmente questa rinuncia come una confessione d'incapacità a costruire il vero modello del mondo atomico, il quale, secondo loro, dovrebbe tuttavia esistere; invece, secondo lo spirito della meccanica quantistica, non si tratta di una confessione d'incapacità, ma anzi di un progresso positivo nelle nostre conoscenze, e cioè della soppressione di un errore in cui la nostra mente era caduta e cade con estrema facilità: quello di trasportare le concezioni risultanti dall'abituale, grossolana esperienza di tutti i giorni, anche al difuori del campo di fenomeni da cui quelle concezioni hanno avuto origine. Detto questo, bisogna aggiungere che anche nella meccanica quantistica sono di grande aiuto i modelli visivi, come, per es., il modello di atomo di Rutherford, Bohr e Sommerfeld: soltanto, non si può pretendere che essi rispecchino in tutto e fedelmente le proprietà dei sistemi atomici: essi devono essere intesi press'a poco alla stessa stregua delle analogie idrauliche che tanto aiutano a comprendere i fenomeni delle correnti elettriche, anzi (come avviene in elettricità) quasi tutto il linguaggio usato nella teoria è tolto proprio da questi modelli, ed è comodo ed espressivo. La meccanica quantistica, del resto, spiega anche la ragione del parziale successo delle teorie modellistiche e definisce i limiti della loro validità.
2. La meccanica delle matrici. - Applicando strettamente il principio enunciato nel paragrafo precedente, Heisenberg fu condotto a rilevare che alcune delle quantità inerenti al modello atomico della teoria di Bohr e Sommerfeld (per es., le dimensioni delle orbite) non sono state mai direttamente osservate, e intervengono nella teoria solo indirettamente, per permettere il calcolo di quantità direttamente osservabili, come sono i livelli energetici; anzi, un esame più approfondito mostra che alcune di tali quantità ausiliari sono concettualmente inosservabili e perciò prive di senso fisico. Perciò Heisenberg si propose di eliminare dalla teoria tutti questi elementi ausiliari e di collegare direttamente tra loro le quantità osservabili, senza far intervenire nessun modello. Però le relazioni dirette tra grandezze osservabili non sono in genere esprimibili con i mezzi ordinarî dell'algebra e perciò egli fu condotto ad utilizzare un algoritmo matematico che già da tempo era conosciuto, ma che non aveva ancora avuto applicazione nel campo fisico, e cioè l'algebra delle matrici (v.).
Sorse così la prima forma della meccanica quantistica, o meccanica delle matrici, ampiamente sviluppata soprattutto da W. Heisenberg, M. Born e P. Jordan. In questo metodo, ad ogni grandezza fisica del vecchio modello corpuscolare non corrisponde un valore numerico, ma si può associare ad essa una matrice (infinita), cioè uno schema d'infinite righe ed infinite colonne; per es., alla coordinata x corrisponde la matrice:
La lettera x designa lo schema nel suo insieme e non già una quantità numerica, invece i singoli "elementi" x sono numeri (generalmente complessi) collegati a quantità direttamente osservabili, per es., alle intensità e frequenze luminose emesse nel passaggio da uno stato r a uno stato s. Le ordinarie relazioni algebriche tra grandezze fisiche (per es., l'espressione dell'energia H in funzione delle coordinate e delle velocità) si traducono in analoghe relazioni tra le matrici corrispondenti (da intendersi nel senso in cui sono definite le operazioni tra matrici): è però da tenere presente che nell'algebra delle matrici non vale la proprietà commutativa, e quindi nella meccanica delle matrici si scrivono delle relazioni che sembrerebbero assurde, se non si tenesse presente che i simboli letterali in esse scritti non rappresentano quantità numeriche ma matrici: esempio tipico e fondamentale è la cosiddetta formula di permutazione tra la matrice corrispondente a una generica coordinata lagrangiana q e quella del momento ad essa coniugato p:
La meccanica delle matrici, per il suo carattere astratto e per l'algoritmo matematico poco abituale di cui fa uso, si presta male ad un'esposizione elementare, sia pure assai superficiale: perciò dobbiamo limitarci a questa breve menzione, e passiamo a parlare della meccanica ondulatoria, premettendo alcune considerazioni sull'ottica, che aiuteranno a comprendere il seguito.
3. L'antinomia tra onde e corpuscoli e l'interpretazione statistica dell'ottica. - Vi sono alcuni fenomeni luminosi (per es., l'interferenza) che si spiegano bene considerando la luce come formata da onde e sembrano incompatibili con ogni teoria corpuscolare, altri invece (per es., l'effetto fotoelettrico) che fanno pensare che la luce sia formata di corpuscoli (detti fotoni o quanti di luce), e sembrano inesplicabili col modello delle onde. Si è scoperto recentemente che questa apparente contraddizione sussiste anche, come si dirà, per i raggi catodici e affini; soltanto, per ragioni contingenti, nel caso della luce ci è più familiare l'aspetto ondulatorio, in quello dei raggi catodici l'aspetto corpuscolare. Il paradosso proviene dalla tendenza a visualizzare il contenuto delle due teorie (ondulatoria e corpuscolare), ma esso si risolve se invece si applicano strettamente i criterî logici enunciati al n. 1. Per far intravvedere la cosa (che richiederebbe una discussione più approfondita) ci riferiremo al caso della luce (chiamando così, per brevità, le radiazioni di ogni lunghezza d'onda, anche invisibili, per es., i raggi X). I fenomeni con cui ci si rivela la radiazione consistono sempre in modificazioni subite da elettroni, atomi o molecole (della retina dell'occhio, o della lastra fotografica, o della cella fotoelettrica, ecc.) che ricevono o perdono energia (e questo avviene per quanti), ma non è mai possibile sorprendere i quanti nel loro cammino senza alterarli o assorbirli. Un più attento esame della questione mostrerebbe che è concettualmente impossibile definire la traiettoria di un quanto, e quindi non si può attribuire ad essa nessun significato fisico. I fotoni non sono dunque dei veri corpuscoli (nel senso geometrico e meccanico della parola): essi possiedono energia e quantità di moto, come dei corpuscoli, ma non hanno le proprietà cinematiche di questi (precisamente, come si dirà al n. 4, non è possibile definire per essi contemporaneamente la posizione e la quantità di moto in un dato istante). La loro natura riesce difficile a rappresentarsi intuitivamente, perché non corrisponde a nessun oggetto del mondo ordinario, ma tuttavia nelle loro proprietà non vi è nulla di contraddittorio. L'origine della contraddizione tra teoria ondulatoria e teoria corpuscolare stava in questo, che la nostra abitudine mentale, derivante dall'osservazione dei corpi ordinarî, faceva considerare le proprietà cinematiche della traiettoria (che per i fotoni non risultano da nessun fatto sperimentale) come indissolubilmente legate a quelle di energia e impulso (che sono provate dall'effetto fotoelettrico e da altri fenomeni), e suggeriva quindi di considerare i fotoni come in tutto analoghi ai corpi ordinarî, mentre l'analogia è soltanto parziale: solo questa involontaria estrapolazione era in contrasto con i fenomeni interferenziali. L'errore insomma era lo stesso che si farebbe se dalle note analogie tra correnti elettriche e correnti idrauliche ci si ritenesse autorizzati ad attribuire all'elettricità tutte le proprietà di un liquido.
Tenendo presente questo, è lecito usare il linguaggio corpuscolare, ossia parlare di fotoni, purché non si ricerchi il movimento di ogni singolo fotone (che non ha significato fisico, perché è concettualmente inosservabile), ma si ricerchi solo il numero dei fotoni "ricevuti" da una data superficie in un dato tempo, numero che è determinabile sperimentalmente, per es., coprendo quella superficie con un'emulsione fotografica e contando i granuli d'argento impressionati. Il compito della teoria è d'insegnare a calcolare questo numero, data la disposizione della superficie, delle sorgenti, lenti, specchi, schermi, ecc.; le leggi che permettono di farlo sono quelle dell'ottica ondulatoria o, come caso limite, dell'ottica geometrica. Infatti il risultato definitivo di tutti i calcoli ottici è l'intensità d'illuminazione I (in unità energetiche) nei varî punti della superficie, e a questa quantità si deve attribuire il significato seguente (supponendo, per semplicità, la sorgente monocromatica e chiamando W la potenza totale da essa irradiata): I/W dσ dt è la probabilità che ha ciascun fotone emesso di arrivare sull'elemento di superficie dσ nel tempo dt. Ordinariamente, il numero totale di fotoni emessi per secondo, cioè N = W/hν, è molto grande, così che, per la legge dei grandi numeri, il numero di essi che arriva su dσ nel tempo dt è uguale a N moltiplicato per la detta probabilità, cioè è I/hν dσ dt, e quindi l'energia che vi arriva è I dσ dt, conformemente al significato ordinariamente attribuito a I. Ciò rende ragione del successo di tutte le verifiche sperimentali della teoria ondulatoria, le quali consistono, essenzialmente, nel calcolare la distribuzione della I punto per punto su una data superficie (lastra fotografica, o retina dell'occhio) e nel verificare che i fotoni si distribuiscono sulla superficie effettivamente secondo le previsioni del calcolo, riproducendo le ombre, le immagini, le frange d'interferenza previste.
Questa verifica si fa però ordinariamente con una quantità di luce corrispondente a un numero enorme di fotoni: essa non riuscirebbe più se si usasse invece una sorgente assai debole e per un tempo assai breve, così da avere pochi fotoni o anche uno solo. Per es., in quest'ultimo caso una lastra fotografica posta avanti alla sorgente non si annerirebbe in modo diffuso, ma in un punto solo. In tal caso, l'intensità calcolata non ha altro significato che quello probabilistico: essa cioè misura la "densità di probabilità" che il granulo d'argento impressionato sia in un punto o nell'altro della lastra.
4. Il principio d'indeterminazione. - Quanto abbiamo detto per i fotoni vale anche per le cosiddette particelle materiali (elettroni, nuclei, ecc.), le quali pure dànno luogo a fenomeni di duplice aspetto, corpuscolare e ondulatorio, e si chiamano particelle solo perché l'aspetto ondulatorio è stato scoperto più recentemente ma sono soltanto imperfettamente rappresentate dal modello intuitivo di piccolissimi granelli materiali. Infatti, una discussione rigorosa dei fenomeni con cui si rivelano queste "particelle" ha mostrato che è concettualmente impossibile attribuire ad esse una certa posizione e insieme una certa velocità, poiché le esperienze, anche ideali, che potrebbero determinare l'una, sono incompatibili con quelle che potrebbero determinare l'altra. Da ciò segue che tali enti (al pari dei fotoni) non hanno le proprietà cinematiche del punto materiale della meccanica classica, ma proprietà più singolari, difficili a rappresentare intuitivamente, benché perfettamente definite dalla meccanica quantistica. Come esempio di discussione di tali esperienze ideali accenneremo brevemente al seguente ragionamento, dovuto al Heisenberg.
Supponiamo di voler definire la posizione di un elettrone in un certo istante, per il che è necessario (v. n. 1) descrivere un'esperienza (anche ideale, purché concettualmente possibile) per misurarne le coordinate. Essa può essere la seguente: illuminare l'elettrone E (eventualmente con raggi X o γ) e fotografarlo, cioè raccogliere in una camera oscura (fig. 1) la radiazione diffusa dall'elettrone. Ma poiché, come si è già osservato al n. 1, ogni volta che l'elettrone diffonde un fotone riceve un impulso, dovremo limitarci a utilizzare un solo atto di diffusione. Avremo così sulla lastra un solo granulo d'argento impressionato, E′, e questo ci indicherà (a causa dell'inevitabile diffrazione) la posizione approssimativa dell'elettrone: la precisione sarà tanto maggiore, quanto maggiore è il potere risolutivo dello strumento, che cresce con l'angolo di "apertura" α e con la frequenza della radiazione. D'altra parte, dopo l'osservazione l'elettrone (che supporremo inizialmente fermo) avrà acquistato, per l'urto del fotone, una certa velocità, che non è possibile ricavare dai dati dell'esperienza, poiché dipende dalla direzione entro cui è stato diffuso il fotone entro l'angolo α: il suo ordine di grandezza è tanto maggiore quanto più ampia è l'apertura α e quanto maggiore era l'impulso del fotone, e quindi la frequenza della luce usata. Risulta dunque che le condizioni che rendono più precisa la determinazione di posizione, rendono più indeterminata la velocità. Si trova precisamente che, detta Δx l'indeterminazione nella coordinata x, e Δpz quella nella corrispondente componente dell'impulso, si ha, nelle condizioni più favorevoli, all'incirca
(dove h è la costante di Planck), e lo stesso per le altre coordinate e per le corrispondenti componenti dell'impulso. A questa stessa conclusione si giunge qualunque sia l'esperienza ideale immaginata per misurare x. Viceversa, qualunque esperienza diretta a misurare px con un'approssimazione Δpx, produce su x un'indeterminazione Δx, legata a Δpx dalla (1). Tutto questo si può dimostrare in modo generale, e si può verificare su molti altri esempî, che si trovano raccolti in un libretto del Heisenberg (v. bibl.). In conclusione, sebbene si possa concettualmente determinare la x, oppure la pz, con precisione grande quanto si vuole, è impossibile determinarle esattamente entrambe, e questa impossibilità non è accidentale, ma intimamente legata alla natura dei fenomeni (è questo il punto più difficile da comprendere senza un esame approfondito della questione): quindi (v. n. 1) non si può attribuire significato fisico simultaneo alla x e alla px. Le stesse relazioni si troverebbero per i fotoni, precisando le considerazioni del n. 3. Da ciò si vede che il modello corpuscolare non rappresenta adeguatamente l'elettrone: però esso può venire adoperato, purché non si utilizzino contemporaneamente le nozioni di posizione e di velocità, o, più esattamente, purché si considerino affette da una indeterminazione essenziale, soddisfacente la disuguaglianza (1) e le analoghe. Altrettanto si potrebbe dire per il fotone, e anche per il protone, i nuclei, ecc. Questa considerazione, d'importanza fondamentale nella meccanica quantistica, porta il nome di principio d'indeterminazione. La sua portata speculativa, sulla quale qui non è possibile fermarsi, è convenientemente illustrata in un piccolo e denso libro di N. Bohr (v. bibl.).
5. Analogie ottico-meccaniche. - Il punto di partenza di Schrödinger è stato la considerazione seguente. Vi è una certa analogia, nota da molto tempo, e formulata in modo matematicamente preciso da Hamilton, tra le leggi dell'ottica geometrica e quelle della meccanica del punto; per es., i raggi di luce sono rettilinei e la loro velocità è costante in un mezzo a indice di rifrazione uniforme, e così pure si muove di moto rettilineo uniforme un punto materiale in un campo a potenziale uniforme, cioè senza forze: se invece l'indice di rifrazione è funzione del posto, i raggi luminosi sono curvi e la loro velocità è variabile, e altrettanto avviene per il moto di un punto in un campo di potenziale non uniforme: l'analogia anzi può essere spinta anche all'aspetto quantitativo delle leggi. Ora, è noto che le leggi dell'ottica geometrica cessano di essere valide quando entrano in giuoco schermi, fessure, ecc., le cui dimensioni sono dell'ordine della lunghezza d'onda: in tal caso nascono gli svariati fenomeni della diffrazione, i quali provano che le leggi esatte dell'ottica sono di tipo ondulatorio, e quelle dell'ottica geometrica ne rappresentano soltanto un'approssimazione valida per sistemi abbastanza grandi. Ora, poiché l'esperienza ha dimostrato che le leggi della meccanica ordinaria non valgono più per sistemi di dimensioni piccolissime, come gli atomi, si è condotti a pensare, guidati dall'analogia con l'ottica, che ciò dipenda da qualcosa di analogo alla diffrazione, e cioè che anche le leggi meccaniche siano, a rigore, di natura ondulatoria, con lunghezze d'onda dell'ordine delle dimensioni atomiche, cosicché in tutti i sistemi di dimensioni ordinarie si può applicare l'approssimazione corrispondente dell'ottica geometrica, cioè la meccanica classica, mentre ai sistemi di dimensioni atomiche si devono applicare leggi meccaniche nuove, analoghe a quelle dell'ottica ondulatoria (naturalmente, si tratta di onde di natura del tutto diversa da quelle luminose). Questa idea, suggerita da precedenti considerazioni di L. De Broglie, che per tutt'altra via era giunto a formulare delle leggi ondulatorie per particolari problemi di meccanica atomica, è stata poi precisata e sviluppata da E. Schrödinger e da altri nel modo che si espone brevemente nel seguito.
6. L'equazione di Schrödinger. - Analogamente a quanto fa l'ottica per i fotoni, la meccanica ondulatoria delle particelle (indicheremo convenzionalmente con questo nome gli elettroni, i protoni, i nuclei, ecc., senza volere con ciò insistere più sul loro aspetto corpuscolare che su quello ondulatorio) si propone di ricercare la probabilità che la particella considerata, in un dato istante, si trovi in un elemento di volume dS, e per il calcolo di questa probabilità introduce una funzione (in generale complessa) ψ (x, y, z, t), che non ha significato fisico diretto, ma ha un compito analogo a quello del vettore elettrico (o magnetico) in ottica, e cioè: ∣ψ∣2 dS rappresenta la probabilità di trovare la particella nell'elemento di volume dS intorno al punto x, y, z al tempo t. Quindi, poiché la probabilità totale di presenza in tutto lo spazio deve essere 1, la ψ è soggetta alla condizione (detta di normalizzazione):
dove l'integrale (triplo) è esteso a tutto lo spazio. La ψ si dice "ampiezza di probabilità", e se la particella ha l'energia E, la ψ oscilla con frequenza ν tale che E = hν (relazione identica a quella che vale per i fotoni): più precisamente, la ψ ha la forma
Inoltre essa (come anche la funzione puramente spaziale u) soddisfa l'equazione seguente, detta di Schrödinger:
dove U (x, y, z) è il potenziale (o, più propriamente, l'energia potenziale) del campo di forza che agisce sulla particella. Questa equazione rappresenta analiticamente la propagazione di onde (onde di De Broglie) con velocità di fase
e con velocità di gruppo v = √ 2 (E−U)/m : essa è stata costruita in modo che, se la ψ è nulla dappertutto, tranne che in una regione dello spazio abbastanza piccola da poterla considerare puntiforme (pacchetto d'onde), questa regione, che in tal caso rappresenta la posizione approssimata della particella, si muove secondo le leggi dell'ordinaria meccanica del punto. Così la meccanica ondulatoria si ricollega con continuità alla meccanica ordinaria. L'equazione di Schrödinger è analoga all'equazione delle onde luminose di frequenza ν = E/h, in un mezzo in cui l'indice di rifrazione sia proporzionale a √hν−U/hν: dunque per le onde di De Broglie l'indice di rifrazione è rappresentato da una funzione del potenziale U e inoltre dipende da ν, come avviene per la luce nei mezzi dispersivi.
La ψ della forma (3) ha una frequenza unica, e quindi rappresenta onde analoghe alla luce monocromatica: si può anche avere però una ψ che sia la somma di più termini della forma (3) con diverse ν, e questa rappresenterà, se la ψ totale soddisfa la (2), una particella la cui energia non è fisicamente determinata (allo stesso modo come nella luce non monocromatica l'energia di un singolo fotone non è determinata, ma può avere tanti valori quante sono le componenti monocromatiche della luce). La ψ, in questo caso più generale, soddisfa, anziché la (4), l'equazione seguente:
7. Particella non soggetta a forze. - In questo caso si può prendere U = 0, e l'equazione di Schrödinger diviene analoga a quella della luce per un mezzo a indice di rifrazione uniforme. Perciò essa è soddisfatta da una ψ rappresentante onde piane, cioè (detti α, β, γ i coseni della normale alle superficie d'onda, cioè della direzione di propagazione, e λ la lunghezza d'onda):
dove A è una costante. Come in ogni propagazione ondosa, λ è legato alla velocità di fase V e alla frequenza ν da λ = V/ν, che nel caso attuale, essendo, per la (5), V = E/√2mE e ν = E/h, dà
Detta p la quantità di moto, la forza viva E risulta p2/2 m, e quindi si può anche scrivere
Per gli elettroni dei raggi catodici le formule precedenti dànno per λ valori dell'ordine di 10-8 cm., cioè dell'ordine delle lunghezze d'onda dei raggi X, che sono qualche migliaio di volte inferiori a quelle della luce: per conseguenza i fenomeni di diffrazione di tali onde non sono osservabili con le fessure e i reticoli usati nell'ottica, ma richiederebbero fessure e reticoli molto più fini. È noto che la diffrazione dei raggi X si può osservare adoperando come reticolo un cristallo (i cui atomi sono disposti in file regolari a distanze dell'ordine di 10-8 cm., così da costituire un finissimo reticolo naturale): con lo stesso mezzo quindi si può produrre la diffrazione delle onde di De Broglie. È questa l'esperienza di Davisson e Germer (v. interferenza e diffrazione) che è stata ripetuta, in varî modi, non solo con gli elettroni, ma anche con molecole d'idrogeno e con atomi d'idrogeno e di elio. Essa permette di misurare λ, e quindi, conoscendosi E (dalla tensione che aziona il tubo) si può controllare l'esattezza della (7), che è stata verificata con precisione superiore al 3 per mille in un ampio intervallo di valori di λ.
La (6) si può anche scrivere introducendo le componenti della quantità di moto e tenendo conto della (7′).
8. I livelli energetici come autovalori. - Il problema di determinare una funzione ψ che soddisfi la (4) e la (2) e che inoltre sia finita e continua in tutto lo spazio che può essere occupato dalla particella, è matematicamente identico al problema acustico di determinare le onde stazionarie che si possono stabilire in detto spazio con una data distribuzione della densità del mezzo (corrispondente alla distribuzione del potenziale U). Si dimostra che esso non ammette in generale nessuna soluzione, a meno che il parametro E che figura nella (4) non abbia certi particolari valori, che si dicono autovalori dell'equazione (e che definiscono, mediante la relazione E = hν, le frequenze delle onde stazionarie). Questi sono sempre in numero infinito, e possono costituire una successione discreta (E1, E2, E3,...) o anche, almeno in parte, riempire un intervallo continuo (che si dice "spettro continuo" di autovalori); per semplicità ci riferiremo solo al primo caso. Così l'equazione di Schrödinger conduce all'esistenza negli atomi di livelli energetici discreti (che è un fatto sperimentalmente accertato) non mediante un postulato ad hoc, come faceva la teoria di Bohr, ma mediante lo stesso procedimento matematico con cui in acustica si dimostra che una corda può vibrare solo con determinate frequenze.
Ad ogni autovalore En può corrispondere una sola soluzione ψn (normalizzata), che si dice autofunzione, e allora l'autovalore si dice semplice, oppure vi possono corrispondere infinite soluzioni (autofunzioni) che si possono tutte ottenere come combinazioni lineari di un certo numero limitato p di esse, indipendenti tra loro: l'autovalore si dice allora multiplo d'ordine p (caso della degenerazione). Due autofunzioni ψn, ψm, corrispondenti ad autovalori diversi (ed anche, sotto opportune ipotesi, allo stesso autovalore multiplo), godono la seguente importante proprietà, detta di ortogonalità:
dove l'integrale è esteso a tutto lo spazio, e l'asterisco denota il complesso coniugato.
La determinazione degli autovalori e delle autofunzioni dell'equazione di Schrödinger (nella quale, beninteso, sia specificata la funzione U (x, y, z) secondo il particolare problema trattato) costituisce un problema matematico, per risolvere il quale non si possiede nessun metodo generale. Però, in molti casi particolari interessanti, si è riusciti a risolverlo con speciali artifici, e ad alcuni di questi risultati accenneremo nei paragrafi seguenti. Inoltre, si conoscono alcuni metodi approssimati di soluzione, che in molti casi dànno un'approssimazione più che sufficiente per la pratica.
9. L'oscillatore. - La particella si muova su una retta (asse x) e sia richiamata verso l'origine O da una forza proporzionale alla distanza, cioè espressa da − Kx (K = costante positiva). Sarà allora U = 1/2 Kx2, e la (4) diviene
Si trova che gli autovalori di questa equazione sono dati dalla formula
ovvero, osservando che
rappresenta la frequenza ν0 con cui si compirebbero le oscillazioni secondo la meccanica classica
Ricorderemo che la teoria di Sommerfeld dà per l'oscillatore i livelli energetici
Sia nell'una sia nell'altra teoria l'energia emessa o assorbita nel passaggio tra due stati contigui (passaggi tra stati non contigui sono vietati dal cosiddetto "principio di selezione") è dunque uguale ad hν0, il che dà la giustificazione dell'ipotesi dei quanti d'energia di Planck (v. quanti, teoria dei). La meccanica ondulatoria dunque, al pari della teoria di Sommerfeld, dà il risultato esatto per lo spettro del corpo nero. Inoltre la teoria dell'oscillatore si applica ad altri casi (calori specifici, spettri di bande) e in queste applicazioni la (10) dà risultati più conformi all'esperienza che non la (10′). Le autofunzioni della (9) si possono esprimere mediante le funzioni note in matematica sotto il nome dei "polinomî di Hermite".
10. Densità elettrica e densità di corrente. - Se, anziché una particella sola, se ne ha un gran numero N, tutte nelle stesse condizioni e non interagenti sensibilmente tra loro (per es., un fascio di raggi catodici), si può applicare (come si è visto nel caso dei fotoni) la legge dei grandi numeri e quindi ritenere che nell'elemento di volume dS si trovino N∣ψ∣2dS particelle, cosicché ∣ψ∣2 risulti proporzionale in ciascun punto alla densità spaziale di esse. Può convenire in tal caso imporre alla ψ, invece della condizione di normalizzazione (2), la condizione
(il che significa moltiplicare la ψ per un fattore costante, che non influisce sull'equazione di Schrödinger, essendo questa omogenea): allora ∣ψ∣2 è addirittura uguale alla densità di particelle, e quindi, se ciascuna di esse ha una carica elettrica e, la densità elettrica risulta in ciascun punto
Si può poi dimostrare che nelle stesse circostanze la densità di corrente elettrica è espressa dal vettore
Il campo elettrico e magnetico generato dalle particelle (in particolare, la loro radiazione) si può allora calcolare, mediante le ordinarie leggi elettromagnetiche, dalla densità ρ e dalla densità di corrente ???.
Aggiungeremo che nei primi lavori di Schrödinger alla quantità ∣ψ∣2 non veniva attribuito il significato probabilistico, ma quello di densità elettrica (a meno del fattore e), anche nel caso di un solo elettrone, il quale quindi veniva pensato come una "nuvola" di elettricità diffusa. A questa interpretazione è stata poi sostituita, per suggerimento di M. Born, quella probabilistica, che, come poi si è riconosciuto, s'inquadra perfettamente nello schema logico del principio d'indeterminazione.
11. L'atomo d'idrogeno. - Nell'atomo d'idrogeno l'elettrone è soggetto a una forza centrale, il cui potenziale è U = − e2/r: ponendolo nell'equazione di Schrödinger e sostituendo le coordinate cartesiane con le polari (r = raggio vettore, ϑ = colatitudine, ϕ = longitudine) si ha
Questa equazione si può risolvere prendendo la funzione ψ della forma ψ = R(r) Θ(ϑ) Φ(ϕ), poiché essa allora si scinde in tre equazioni a derivate ordinarie, ognuna delle quali contiene una sola delle tre funzioni incognite R, Θ, Φ (metodo della separazione delle variabili). Il risultato è il seguente. Gli autovalori per E sono: tutti i valori positivi (spettro continuo di autovalori) e i valori negativi discreti espressi dalla formula
Questo risultato è identico a quello della teoria di Bohr e Sommerfeld (v. atomo) ed è in eccellente accordo con l'esperienza: i valori positivi di E corrispondono a stati in cui l'atomo è ionizzato, e non interessano, quelli negativi rappresentano gli effettivi livelli energetici dell'atomo d'idrogeno corrispondenti ai valori dell'intero n, che si dice quanto totale: calcolando la differenza tra due livelli e dividendola per h, si ha con grande esattezza la frequenza di tutte le righe dello spettro (formula di Balmer e analoghe).
Quanto alle autofunzioni, ci limiteremo a dire che il fattore Θ(ϑ) Φ(ϕ) si trova essere una "funzione sferica", dipendente da due indici interi l ed m, mentre il fattore R (r), dipendente da n ed l, è esprimibile mediante i cosiddetti "polinomî di Laguerre". L'autofunzione dipende dunque dai tre indici n, l, m (di cui solo il primo figura nell'autovalore: ciò significa che l'autovalore è in generale multiplo), i quali sono i tre "numeri quantici" che caratterizzano lo stato, e corrispondono ai numeri quantici della teoria di Sommerfeld (n = quanto totale, l = quanto azimutale, m = quanto magnetico). Può interessare conoscere l'andamento della funzione ∣ψ∣2, che rappresenta la densità di probabilità di presenza dell'elettrone nei varî punti dello spazio intorno al nucleo: essa negli stati in cui l = 0 (chiamati in spettroscopia "stati") ha simmetria sferica intorno al nucleo. La fig. 2 rappresenta, a titolo d'esempio, la distribuzione della probabilità di presenza dell'elettrone intorno al nucleo in un atomo d'idrogeno nello stato fondamentale (l'annerimento è all'incirca proporzionale a ∣ψ∣2). La "nuvola di probabilità" va sfumando gradatamente verso l'esterno, il che significa che l'atomo non ha un limite definito: però essa diviene praticamente nulla a breve distanza dal nucleo (dell'ordine di 10-8 cm.), distanza che si può considerare come un'approssimativa definizione del raggio dell'atomo.
Secondo la meccanica ondulatoria, le orbite di cui si parla nella teoria di Bohr e Sommerfeld non hanno significato fisico: esse infatti sono concettualmente inosservabili, perché per determinare la posizione dell'elettrone occorrerebbe illuminarlo con una radiazione di lunghezza d'onda piccola rispetto al raggio dell'atomo, e si calcola facilmente che un solo quanto di questa radiazione basterebbe a ionizzare l'atomo, così che non sarebbe possibile ripetere l'osservazione di posizione più volte di seguito sullo stesso atomo, come è necessario per costruire l'orbita. Tuttavia si può attribuire un significato approssimativo alle orbite più grandi, cioè corrispondenti a valori elevati di n: infatti per determinare approssimativamente una di esse basterebbe una serie di osservazioni di posizione poco precise, e quindi realizzabili con luce di lunghezza d'onda abbastanza grande da non provocare la ionizzazione. A ciò corrisponde, nella meccanica ondulatoria, la possibilità di soddisfare approssimativamente l'equazione di Schrödinger con una ψ rappresentante un pacchetto d'onde ristretto, circolante intorno al nucleo: si dimostra allora che il centro del pacchetto si muoverebbe su una delle orbite di Bohr e Sommerfeld.
12. Relatività e spin. - Un notevole progresso fece la meccanica quantistica nel 1928 per opera di Dirac, il quale mostrò che, per metterla in accordo col principio di relatività ristretta (cioè per rendere i suoi risultati invarianti rispetto alle trasformazioni di Lorentz), si doveva modificarne alquanto l'impostazione, introducendo, in luogo di una sola ψ, quattro funzioni ψ1, ψ2, ψ3, ψ4, dalle quali si ricava la densità di probabilità di presenza prendendo, invece di ∣ψ∣2, la somma ∣ψ1∣2 + ∣ψ2∣2 + ∣ψ3∣2. In questa teoria l'equazione di Schrödinger è sostituita dalle quattro "equazioni di Dirac". Il risultato più notevole è che da questa impostazione si ricavano, senza ipotesi nuove, quelle proprietà dell'elettrone che, nella precedente teoria dei quanti, erano state introdotte da Uhlenbeck e Goudsmit, per rendere conto di numerosi fatti sperimentali, con l'ipotesi detta dell'"elettrone rotante", e cioè l'esistenza di un momento di quantità di moto (detto spin) uguale a h/4 π (come se l'elettrone girasse su sé stesso a guisa di trottola) e di un momento magnetico avente direzione opposta e uguale a un magnetone di Bohr μ0. Inoltre, la teoria di Dirac dimostra che in un campo magnetico la proiezione del momento dell'elettrone sulla direzione del campo può avere solo i due valori ± μ0, il che nel modello di Uhlenbeck e Goudsmit costituiva un nuovo postulato e cioè che lo spin si dispone sempre o parallelo o antiparallelo alla direzione del campo. Nel caso poi in cui si possano ritenere trascurabili sia le correzioni relativistiche, sia gli effetti dello spin, le quattro funzioni di Dirac si riducono ad una sola e si ritrova la teoria di Schrödinger.
Un ulteriore sviluppo della teoria, dovuto allo stesso Dirac, rende conto delle proprietà dell'elettrone positivo o positrone (scoperto sperimentalmente nel 1932) e in particolare delle possibilità di combinazione di un elettrone positivo ed uno negativo, con annullamento delle cariche elettriche e delle masse ed emissione di radiazione (annichilazione).
13. Cenno sui sistemi con più elettroni. - Il metodo della meccanica ondulatoria, sommariamente descritto fin qui per una sola particella, si può estendere a sistemi con N particelle, per es., atomi o molecole con più elettroni. Bisogna allora introdurre una ψ(x1, y1, z1, ..., xN, yN, zN), funzione di 3N coordinate, il cui significato è il seguente: ∣ψ∣2 dx1 dy1 dz1 ... dxN dyn dzN è la probabilità che si trovi la prima particella nell'elemento di volume dx1 dy1 dz1 intorno al punto x1, y1, z1, la seconda in dx2 dy2, dz2 intorno al punto x2, y2, z2, e così via. L'equazione cui soddisfa ψ è l'immediata generalizzazione della (4) e così pure le condizioni di normalizzazione e di regolarità sono analoghe a quelle per una sola particella. La risoluzione rigorosa, nel caso generale, offre difficoltà matematiche praticamente insormontabili, ma si conoscono varî metodi di approssimazioni successive (Hartree, Ritz, Fock) che, attraverso lunghi calcoli numerici, permettono di determinare le autofunzioni e gli autovalori con l'esattezza richiesta per il confronto con l'esperienza.
Una particolarità notevole dei problemi con più particelle è la seguente. La rappresentazione intuitiva degli elettroni, come ci conduce (erroneamente) ad attribuire loro le proprietà cinematiche dei corpi ordinarî, così ci suggerisce, altrettanto falsamente, di attribuire ai singoli elettroni un'individualità che in realtà non hanno. Infatti dire che due corpi ordinarî, per es. due palline, hanno una propria individualità significa che, per quanto siano uguali tra loro, ha un significato lo scambiarli di posto: difatti, è possibile accorgersi dello scambio sia segnandole lievemente in modo da non alterarne le proprietà essenziali, sia seguendole continuamente con l'occhio. Invece questo è concettualmente impossibile per gli elettroni (e per qualsiasi altra particella elementare) e quindi non ha significato fisico lo scambio di due elettroni tra loro. (Ciò si esprime spesso dicendo che gli elettroni sono "identici" in un senso più stretto di quello ordinario della parola). Questa proprietà, che non ha riscontro nel mondo macroscopico, conduce a conseguenze singolari, che non possono essere interpretate intuitivamente col modello corpuscolare, ma che sono indirettamente confermate dall'esperienza. La conseguenza analitica dell'identità delle particelle è che la funzione ψ deve risultare simmetrica o antisimmetrica rispetto alle loro coordinate, e cioè, scambiando in essa le coordinate di due particelle uguali (compresa la coordinata che caratterizza lo spin, v. n. 12), essa deve o restare invariata o cambiare di segno. Gli stati di un sistema con particelle uguali si dividono dunque in due classi, e cioè quelli simmetrici e quelli antisimmetrici, e si dimostra che sono impossibili le transizioni tra stati di classe diversa, cosicché la ψ conserva sempre il carattere di simmetria che aveva inizialmente. Nel caso degli elettroni però non si osservano mai stati simmetrici, ma solo antisimmetrici: è questa la formulazione ondulatoria del principio di Pauli (v. atomo), postulato d'importanza fondamentale, confermato senza eccezione da numerosi fatti sperimentali, ma che non è stato possibile finora ricavare deduttivamente dagli altri principî della meccanica atomica. Si può dimostrare che da questa formulazione del principio di Pauli discende, in particolare, quella classica, secondo cui non vi possono essere in un sistema due elettroni con gli stessi numeri quantici. Si noti che il principio enunciato sopra si riferisce alle autofunzioni complete, cioè comprendenti lo spin: in molti casi queste si possono scindere nel prodotto di una funzione Ψ delle sole x, y, z (che è l'ordinaria ψ di Schrödinger) e una funzione S della variabile di spin, e allora il principio di Pauli equivale evidentemente a dire che, se la S è simmetrica (il che, nel caso di due particelle, significa che hanno gli spin paralleli), la Ψ deve essere antisimmetrica, e se la S è antisimmetrica (spin antiparalleli), la Ψ deve essere simmetrica.
Il primo sistema con più elettroni cui si siano applicate le considerazioni precedenti è stato l'atomo di elio (due elettroni, soggetti all'attrazione del nucleo fisso e alla mutua repulsione), problema nel quale il metodo di Bohr e Sommerfeld portava a un valore del tutto errato del potenziale di ionizzazione. La meccanica ondulatoria invece dà per esso un valore che differisce da quello sperimentale per meno del 0,05 per mille. Il calcolo approssimato dei livelli energetici è stato fatto anche per parecchi altri atomi e ioni, e non ha mai condotto a divarî dai risultati sperimentali maggiori di quelli previsti per l'approssimazione del calcolo o della misura.
Un altro problema di questo genere nel quale la meccanica ondulatoria ha conseguito uno dei suoi più brillanti risultati è quello delle molecole omeopolari, di cui è esempio tipico la molecola H2. Secondo le precedenti teorie riusciva inesplicabile il legame che tiene uniti i due atomi d'idrogeno. La meccanica ondulatoria affronta il problema nel modo seguente: supposti fissati i due nuclei a una distanza r, si studia l'equazione di Schrödinger per i due elettroni immersi nel campo elettrostatico generato dai nuclei. Si trova, con metodi di approssimazione, l'autovalore E1 corrispondente allo stato fondamentale, il quale, naturalmente, risulta funzione di r: poiché dE1 rappresenta il lavoro necessario ad allontanare i due nuclei di dr, la derivata d E1/dr rappresenta la forza che si esercita tra i due atomi (positiva, se attrattiva). Il calcolo si può fare supponendo gli spin dei due elettroni paralleli (e quindi, per il principio di Pauli, la antisimmetrica) o antiparalleli (e quindi la Ψ simmetrica): si trovano, nei due casi, le funzioni E1 (r) rappresentate graficamente dalla figura 3. Come si vede dalla figura, se i due spin sono paralleli la forza è sempre repulsiva e quindi non si può formare molecola stabile, se invece gli spin sono antiparalleli, la E1 (r) ha un minimo, il che corrisponde a una posizione di equilibrio dei due nuclei. Il minimo si ha a una distanza di o,72.10-8 cm., il che è in buon accordo col valore della distanza tra i due nuclei della molecola H2 ricavato da dati spettroscopici: inoltre dalla differenza tra l'ordinata del minimo e quella dell'asintoto si ricava, per l'energia di dissociazione della molecola d'idrogeno, il valore 4,37 ± 12 volt, in accordo (entro i limiti dell'errore probabile) col valore sperimentale (4,380,04). Così la meccanica ondulatoria rende ragione quantitativamente (sebbene non ne dia alcuna rappresentazione modellistica) della forza che mantiene insieme le molecole omeopolari, e che viene detta "forza di risonanza". Aggiungeremo che forze della stessa natura sono quelle che agiscono tra gli atomi di un cristallo, mantenendoli a distanze regolari tra loro.
14. Cenno su altri argomenti. - Tra gli altri campi in cui la meccanica quantistica è stata applicata con successo ci limiteremo a menzionare la teoria dell'emissione di particelle alfa da parte dei nuclei radioattivi, fatta da G. Gamow nel 1928, che costituisce il primo esempio di applicazione della meccanica quantistica alla fisica nucleare; la teoria dell'urto tra elettroni ed atomi e tra atomi (o ioni), dovuta a M. Born, N. F. Mott e altri, le importantissime applicazioni alla teoria elettronica dei metalli, che ha ricevuto dalla concezione ondulatoria degli elettroni tutta una luce nuova; la teoria della radiazione dovuta principalmente al Dirac, che, trattando come un solo sistema l'atomo e il campo elettromagnetico della radiazione, rende ragione degli scambî di energia tra essi e permette di calcolare intensità, frequenza e stato di polarizzazione delle radiazioni assorbite ed emesse nei processi atomici.
Bibl.: Fra le numerose esposizioni d'insieme della meccanica quantistica, con indirizzo più o meno didattico, ci limiteremo a indicare: E. Persico, Fondamenti della meccanica atomica, Bologna 1935; L. De Broglie, Mécanique ondulatoire, Parigi 1930; id., Théorie de la quantification dans la nouvelle mécanique, ivi 1932; E. Bloch, L'ancienne et la nouvelle théorie des quanta, ivi 1930; A. Haas, La mécanique ondulatoire (trad. franc.), ivi 1930; L. De Broglie, L'électron magnétique, ivi 1934; N. F. Mott, An Outline of wave mechanics, Londra 1930; A. March, Die Grundlagen der Quantenmechanik, Lipsia 1931; W. Heisenberg, Die physikalischen Prinzipien der Quantenmechanik, ivi 1930; id., Les principes de la mécanique quantique, Parigi 1932.
Fra i trattati di carattere più sistematico ed elevato indicheremo: P. A. M. Dirac, Quantum mechanics, Oxford 1930; id., Les principes de la mécanique quantique, Parigi 1931; H. Weil, Gruppentheorie und Quantemechanik, Lipsia 1928; id., The theory of groups and quantum mechanics, Londra 1931; J. Neumann, Mathematische Grundlagen der Quantentheorie, Berlino 1932.
È infine assai notevole sotto l'aspetto speculativo una raccolta di articoli di N. Bohr, tradotta in francese col titolo: La théorie quantique et la description des phénomènes, Parigi 1932.