MAZZOLA
– Famiglia di artisti parmensi la cui attività è documentata almeno a partire dall’ultimo decennio del Quattrocento. Secondo i cronisti locali i primi a trasferirsi a Parma furono nel 1305 i mercanti Franceschino e Bernazzano, insieme con il medico Armanno provenienti da Pontremoli. È molto probabile che l’attività pittorica fosse già esercitata da Bartolomeo di Pier Ilario nato tra il 1435 e il 1440 e deceduto a causa della peste nel 1505, delle cui opere non si ha però alcuna notizia. Tra i figli avuti da Elena di Antonio Conti sono documentati come artisti Filippo, Pier Ilario e Michele.
Filippo, padre di Francesco detto il Parmigianino, nacque probabilmente a Borgo dell’Asse presso la vicinia di S. Paolo a Parma, attorno al 1460.
La data di nascita è indicativamente fissata sulla base di indiretti riscontri documentari, in quanto nell’ottobre del 1490 venne battezzata la figlia maggiore Lucia, mentre il più antico dei dipinti conosciuti reca la data 1491 (Ricci, p. 4). Una conferma decisiva potrebbe venire da un’iscrizione di quattro lettere purtroppo poco leggibile presente sul retro del Cristo Portacroce della Galleria nazionale di Parma, firmato e datato al 1503, la quale indicherebbe che all’epoca Filippo aveva quarantatré anni (Giusto, p. 153).
Dopo un ipotizzabile tirocinio nella bottega paterna, Filippo con ogni probabilità si trasferì a Cremona dove entrò in quella diretta da Francesco Tacconi, del quale sposò la figlia Maria e dalla quale ebbe Zaccaria (Vaccaro).
Successivamente dovette unirsi in matrimonio con tale Maria di ser Guglielmo, nominata sua consorte in un atto del 3 luglio 1494 (Pezzana, p. 247 n. 1). Da un atto notarile del 1495 si evince, tuttavia, che Filippo era sposato già prima di questa data a tale Donella Abbati (Vaccaro). Purtroppo tali indicazioni non trovano riscontro negli atti di battesimo relativi ai nove figli di Filippo nati a Parma tra il 1490 e il 1505, in quanto la madre dei neonati curiosamente non viene mai citata.
L’alunnato presso Tacconi dovette essere decisivo, giacché sotto la sua guida ebbe modo di apprendere una cultura figurativa che muovendo dai modelli tardogotici lombardi si apriva alla pittura veneziana contemporanea, in particolare a Giovanni Bellini.
Non si esclude che tale componente possa essere stata arricchita da differenti soggiorni lagunari (Zeri), almeno in base alle indicazioni ricavabili dal corpus pittorico di Filippo, costituito da un cospicuo numero di dipinti firmati e datati, che permettono di valutare l’evidente conoscenza diretta dei modelli vaneziani.
I primi riflessi si riscontrano in alcuni intensi ritratti virili a mezzobusto che la critica ha riferito alla fine degli anni Ottanta, a partire da quello firmato che si conserva nella Pinacoteca di Brera a Milano.
Il dipinto, di qualità elevatissima, deriva infatti dagli analoghi modelli eseguiti in quegli anni da Giovanni Bellini e Antonello da Messina (Antonello De Antonio), palesando inoltre prestiti tratti direttamente dalla pittura fiamminga, in particolare Hans Memling e Dirk Bouts, evidenti anche in un altro ritratto conservato nella collezione Borromeo a Isola Bella (Lollini). Recentemente è stato proposto d’identificare nel personaggio raffigurato nel dipinto il capitano Leonardo Baiardi, in base a una rilettura dell’iscrizione, posticipandone la datazione al 1498 (Cavalca).
La più antica opera documentata di cui si ha conoscenza eseguita da Filippo è la Madonna in trono fra s. Francesco e s. Giovanni Battista (Parma, Galleria nazionale), firmata e datata al 1491, della quale però non si conosce la provenienza.
Nella tavola parmense pur denotandosi una componente emiliana nella massiccia strutturazione della Vergine, sovradimensionata rispetto ai due santi, emerge in maniera evidente il debito nei confronti di Giovanni Bellini, a partire dai volti dei protagonisti, come anche nell’ascetica magrezza del Battista e nella gestualità di s. Francesco. Sempre dal maestro veneziano deriva anche lo sviluppo orizzontale della composizione, mutuato probabilmente dalla Pala Barbarigo (Venezia, chiesa di S. Pietro Martire) datata al 1488. L’adesione però alla formula del maestro veneziano rimane sostanzialmente esteriore, in quanto mancante della sua morbidezza pittorica, sostituta da una maniera tagliente nel delineare contorni e profili, di carattere più specificamente padovano-ferrarese. Tali asprezze formali potrebbero ricollegarsi al periodo della formazione a Cremona, dove conobbe per esempio l’attività dello scultore G.A. Amadeo, presente nella città lombarda fra il nono e l’ottavo decennio.
Strette analogie formali con questa tavola sono state rilevate nella Madonna con Bambino (Padova, Musei civici), recante alla base un cartiglio con la firma dell’artista completata da un’iscrizione solo in parte leggibile, interpretata come una dichiarazione d’alunnato presso Giovanni Bellini («Filippu Maz. d. Joanis»). Se confermata l’indicazione risulterebbe una riprova dei suoi soggiorni veneziani (Battaglia). La critica ne ha rilevato una stretta correlazione tipologica con la Madonna con Bambino di F. Tacconi (1489; Londra, National Gallery).
Nel 1493 Filippo eseguì il Battesimo di Cristo (Parma, Galleria nazionale) per il battistero di Parma. Secondo la descrizione degli eruditi locali la tavola era parte di un’ancona, con Dio Padre nella lunetta superiore, racchiusa da una ricca cornice eseguita da Luchino Bianchino (Luchino de’ Bonati).
Un sempre maggiore affinamento di Filippo in ambito ritrattistico lo si coglie in un’altra effigie raffigurante un personaggio non identificato (Coral Gables, University of Miami, Lowe Art Museum), da datarsi al 1495 circa per la maggiore solidità nella struttura e vivacità nelle annotazioni fisionomiche rispetto ai precedenti esempi.
Tra il 1498 e il 1502 è documentata l’esecuzione di un imponente polittico a tre registri per l’altar maggiore della chiesa di S. Domenico a Cremona, costituito da almeno tredici tavole riunite da un’ancona eseguita dagli intagliatori Tommaso e Paolo Sacca (Gregori; Mischiati). Il complesso fu rimosso nel 1668, favorendo la dispersione degli scomparti, dei quali è stato riconosciuto il laterale con i Ss. Pietro e Domenico (Cremona, coll. marchesi Cavalcabò) e il dipinto centrale, che reca la data 1502, raffigurante la Madonna con Bambino (Berlino, Staatliche Museen).
Per l’ambientazione e la nuova complessità che riunisce i due santi laterali nel medesimo sportello l’opera va considerata come uno dei massimi raggiungimenti della fase più matura del pittore, come conferma anche la luminosità straordinariamente limpida che definisce la struttura dei personaggi. Deriva da modelli di Alvise Vivarini (Pala di S. Maria dei Battuti, Londra, National Gallery) la Madonna collocata su un alto trono.
Con il polittico per la collegiata di S. Maria delle Grazie a Cortemaggiore nel 1499 Filippo avviava il suo rapporto di committenza con la famiglia feudale dei Pallavicino.
La grandiosa struttura, smembrata alla fine del diciannovesimo secolo, constava di undici scomparti, otto dei quali ancora in loco (Madonna in trono col Bambino e angeli musicanti; S. Pietro; S. Francesco; S. Antonio abate; S. Giovanni Battista; S. Chiara; S. Caterina; S. Agnese) insieme con l’unico dei cinque tondi sopravvissuto, raffigurante Bernardino da Feltre; mentre una tavola si conserva al Museo di belle arti di Budapest (S. Cristoforo). Le tavole ordinate su un doppio registro erano racchiuse all’interno di un’ancona, recentemente ricollocata nella collegiata. Particolarmente stretti sono ancora una volta i legami con la pittura veneziana a partire dallo scomparto centrale con la Madonna in trono, che riprende puntualmente il modello della pala con Madonna e santi di Giovanni Bellini ai Frari, terminata nel 1488. Nell’iconografia del Battista, invece, emerge nuovamente la conoscenza dell’opera di Alvise Vivarini. Rispetto alle opere riferite all’inizio del decennio si nota una maggiore sensibilità coloristica, rilevabile soprattutto nella definizione delle pieghe del s. Pietro e della s. Caterina (Alessandrini).
Forti analogie formali con il dipinto di Cortemaggiore sono rilevabili anche nella Madonna con Bambino in trono fra i ss. Gerolamo e Giovanni Battista (Parma, Galleria nazionale), della quale però non si conosce la provenienza originale.
Presso le Gallerie nazionali di Capodimonte sono invece conservate una Madonna e le ss. Agnese e Chiara in adorazione del Bambino e la tela raffigurante una Pietà datata al 1500.
La storiografia ha escluso che quest’ultima sia identificabile col dipinto d’analogo soggetto, commissionato a Filippo nell’aprile del 1498 per l’oratorio di S. Francesco del Prato a Parma, che nel documento di allogazione veniva specificato essere su tavola destinata a decorare la parte anteriore dell’altare, quindi presumibilmente un paliotto, non coincidente col formato verticale dell’opera napoletana. I rapporti del pittore con la Confraternita parmense di S. Francesco al Prato sono documentati almeno dal novembre 1496, quando ricevette un pagamento per dipingere la «stecha» (probabilmente il gonfalone) del sodalizio. Ulteriori saldi in denaro furono corrisposti a Filippo nel marzo 1498 per il «cornicione de la ferata e per li candelere e per lo antiporto», nonché nel 1498 in relazione alla tomba di «messer Bueri». Da tali indicazioni sembrerebbe quindi che le competenze dell’artista non fossero limitate alla pittura (Ricci, p. 11).
A dopo il 1502 va riferita l’esecuzione di un altro grandioso complesso destinato verosimilmente al coro della chiesa francescana di S. Maria degli Angeli presso Busseto, su committenza dell’altro ramo della famiglia Pallavicino, signori di tale cittadina emiliana. Secondo la ricostruzione più attendibile doveva originariamente constare di dieci tavole disposte su due livelli analogamente a quello di Cortemaggiore (Talignani). A esso riferibili come scomparti laterali sono infatti le raffigurazioni con S. Bonaventura (Oslo, Galleria nazionale), S. Caterina (Saighton Grange, Cheshire, coll. duca di Westminster), S. Chiara (Austin, Jack S. Blanton Museum of art), S. Gerolamo e S. Ludovico da Tolosa (Padova, coll. Cassa di Risparmio), nonché S. Giovanni Battista e S. Bartolomeo, i quali insieme con la Madonna con Bambino, collocabile al centro del registro inferiore, si conservano al Museo civico Ala Ponzone di Cremona. Da escludere invece che il pannello principale dell’ordine superiore potesse essere la Resurrezione del Musée des beaux arts di Strasburgo, copia con qualche variante del capolavoro di Giovanni Bellini conservato a Berlino (Staatliche Museen), in quanto non corrisponde per datazione (1497) e dimensioni. Evidente è l’impronta veneziana che accomuna i dipinti, sempre più ispirati alle soluzioni delle tarde opere di Alvise Vivarini, del quale Filippo effettua una rilettura che recupera soprattutto la componenete aracaizzante, a beneficio di una maggiore efficacia iconica.
Al 1503 risale il già citato Cristo Portacroce conservato a Parma, che presenta forti affinità con il Cristo Benedicente di Giovanni Bellini (Parigi, Louvre). Filippo dimostra, tuttavia, una propria autonomia, trasferendo nello sguardo del protagonista una forte tensione emotiva. Medesimo soggetto fu ripetuto l’anno successivo in una tavola già a Poznań, nella collezione Raczynski (Zeri, p. 64).
Nel 1504 veniva anche licenziata da Filippo la Conversione di s. Paolo (Parma, Galleria nazionale) da identificare con quella eseguita per il convento di S. Francesco sempre a Cortemaggiore, forse ancora su committenza della famiglia Pallavicino.
Filippo morí verosimilmente a Parma nel 1505 a causa di un’epidemia di peste.
Pier Ilario nacque anch’egli con ogni probabilità a Borgo dell’Asse in una data convenzionalmente fissata dalla storiografia attorno al 1476 (Testi, p. 52), ma più estesamente riconducibile all’ottavo decennio del Quattrocento, dal momento che risulta già sposato nel 1496 con tale Antonia de’ Banzi, mentre la sua emancipazione ufficiale dalla bottega paterna avvenne nell’ottobre del 1504.
Michele, ritenuto dalla storiografia il minore, è per la prima volta documentato solo nel 1503, quando presenzia come testimone con il fratello Pier Ilario al testamento del cognato Andrea Guidorossi, marito della sorella Masina (ibid.).
Nel 1514 Michele si sposò con Criseide Sforza, nipote di Bosio Sforza, morto a Parma nel 1476 e fratellastro del duca di Milano Francesco I, nonché capostipite degli Sforza di Santafiora. Tale matrimonio dovette garantire un notevole rafforzamento dello status dell’artista, anche perché la nobildonna nel gennaio 1515 acquistò dei terreni per garantire al marito una rendita propria (Dall’Acqua, 2002). Alla Sforza apparteneva anche un palazzo in vicinia S. Ulderico, dove probabilmente la coppia si trasferì dopo il matrimonio.
Anche Pier Ilario dovette comunque contrarre un ulteriore matrimonio economicamente vantaggioso, in quanto la dote della seconda moglie Caterina, figlia del fu Franco Magnani, venne più volte utilizzata per una serie di transazioni finanziarie (ibid.).
La prima opera documentata che è possibile riferire ai due artisti risale al 1514, quando licenziarono la grande pala raffigurante la Vergine con Bambino, s. Ilario e s. Antonio abate per la parrocchiale di Scurano, dove ancora si conserva, su committenza di Antonio di Bominelli (Ghidiglia Quintavalle).
Firmata «Petrus Hilarius et frater Mazola», forse a indicare una preminenza del primo nell’ambito comunque di una bottega di stampo tradizionale, che si distingue per un dignitoso mestiere. Allo stato attuale non risulta possibile effettuare una chiara distinzione nella loro produzione.
Nella pala emerge una cultura figurativa meno aggiornata rispetto a quella del fratello Filippo, che affonda le proprie radici nella tradizione padana tardoquattrocentesca, parzialmente aggiornata sulla conoscenza di Piero della Francesca filtrata però attraverso Cristoforo Genesini da Lendinara riguardo la resa plastica delle figure, nonché sui moduli veneti introdotti da Giovanni Battista Cima da Conegliano per l’elegante baldacchino. La ferma piramidalità compositiva della tavola principale diventa più spontanea e narrativa nella predella, che per l’ambientazione delle scene riecheggia esempi ferraresi soprattutto ispirati a Francesco Del Cossa.
Maggiore ampiezza nell’impostazione spaziale si ritrova invece nell’altra pala da loro firmata, di cui però non si conosce la datazione, che ha per soggetto la Vergine con Bambino, s. Giovanni Battista, s. Giuseppe e s. Ulderico, prescelto dalla titolazione del monastero in cui era originariamente collocata.
Pregevole il trattamento dei monocromi nel basamento del trono della Vergine, con raffigurazioni probabilmente a carattere veterotestamentario. Tale motivo a finto rilievo sembra ispirarsi a opere di ambito parmense come la Pala di S. Quintino (Parigi, Louvre) di Francesco Marmitta datata all’inizio del Cinquecento e altri esempi bolognesi.
Il 27 febbr. 1515 i due fratelli ricevettero da Nicolò Zangrandi un anticipo per la decorazione della propria cappella gentilizia in S. Giovanni Evangelista, che però venne successivamente eseguita da Michelangelo Anselmi.
Il 5 marzo 1518 fu allogata al solo Pier Ilario la tavola raffigurante la Vergine col Bambino, s. Pietro e s. Lucia (Parigi, chiesa di St-Étienne du Monot), per la chiesa di S. Lucia a Parma, rimossa dall’altare nel 1730 (Bacchi - De Marchi, p. 287), nella quale vengono ancora una volta desunti elementi dalla già citata pala di Francesco Marmitta.
L’anno successivo Michele eseguì alcuni lavori non specificati nella cappella Bairadi di S. Giovanni Evangelista, perduti almeno dal XVIII secolo, ma certamente di scarsa consistenza in considerazione dell’esiguità della cifra che gli fu corrisposta, la quale ammontava a 14 lire imperiali (Testi, pp. 54 s.).
Nel 1524 Pier Ilario appare nell’insolita funzione di collettore di denaro per Antonia Palmia della vicinia S. Cecilia e per Antonia Quinzani, che cercavano di costituire un fondo patrimoniale per il minorenne Giuseppe Sanquilico.
Tale coinvolgimento in un’attività d’investimento di ingenti somme di denaro, che dai documenti appare tutt’altro che sporadica, delinea una caratterizzazione più specificamente imprenditoriale di Pier Ilario, giustificando l’effettivo benessere di cui godeva la famiglia M., spiegando anche perché l’attività artistica sembri effettivamente relegata a un ruolo marginale.
Nell’estate dello stesso anno Pier Ilario accompagnò il nipote Francesco nel suo soggiorno a Roma, dalla quale si allontanarono a seguito dell’occupazione della capitale pontificia da parte delle truppe imperiali nel 1527.
Da Vasari sappiamo infatti che dopo la morte di Filippo i due fratelli minori si incaricarono di allevare il figlio di questi, Francesco, e fornirgli un’adeguata educazione, riponendo notevoli aspettative nel nipote, non appena ne compresero il genio precoce. Ragionevolmente quindi Michele e Pier Ilario spendavano il credito e le conoscenze che avevano acquisito nel corso degli anni per agevolare la carriera del talentuoso rampollo.
Ulteriori notizie sull’attività di Michele risalgono al 1526 quando effettuò la decorazione pittorica e la doratura di alcuni rosoni scolpiti da Gian Giacomo Bicocco, mentre nel 1529 viene citato per l’ultima volta in un documento, che lo indica residente nella vicinia S. Ulderico (Testi, pp. 54 s.).
Almeno a partire dal 1530 sembra probabile una rottura dei rapporti tra Francesco Mazzola e la famiglia. Pier Ilario così sembra offrire il proprio talento imprenditoriale al pittore Girolamo Bedoli, che ne aveva sposato la figlia Caterina Elena. Infatti nel 1533 è associato al genero, probabilmente solo nel ruolo di garante, nel contratto per la realizzazione della pala con l’Immacolata Concezione (Parma, Galleria nazionale), già nell’oratorio omonimo presso S. Francesco del Prato in Parma.
La data di morte di Pier Ilario è sicuramente posteriore al marzo del 1545, quando è ancora ricordato in un pagamento per il restauro di una Pietà nella cattedrale di Parma (Testi, p. 54).
Zaccaria nacque probabilmente durante il soggiorno cremonese del padre, in quanto, come già ricordato, la madre Maria era figlia del pittore Francesco Tacconi (Vaccaro). Da un atto notarile del 23 sett. 1517 si deduce che aveva ormai raggiunto la maggiore età, allora corrispondente ai venticinque anni, pertanto la data di nascita dovrebbe essere precedente al 1492. In tale documento infatti Zaccaria procede alla sistemazione di alcune questioni patrimoniali lasciate in sospeso con lo zio Pier Ilario ed esprime ufficialmente la propria volontà di «se absentare a civitate et episcopatu Parme et stare absens ab eo pro aliquid tempo» (Fornari Schianchi, 2002, p. 50).
Alla luce delle recenti scoperte che ne attestano l’attività d’intagliatore in Umbria almeno a partire dal 1525, si è ipotizzato che Zaccaria si fosse ricavato uno specifico ruolo all’interno della bottega familiare, specializzandosi soprattutto nei lavori di ebanisteria scolpita e dipinta.
È possibile un suo intervento nella realizzazione della cornice per la tavola di Scurano eseguita dagli zii Pier Ilario e Michele nel 1514, dalla ricca rilegatura architettonica, completata dal tipico intreccio di elementi plastico-decorativi e pittorici che caratterizzano le opere finora emerse dell’artista (ibid., p. 53).
Sulla base di tale ipotesi attributiva la sua attività parmense potrebbe essere estesa ad altre opere come per esempio alla cosiddetta «ancona del Bono» (Parma, Galleria nazionale), dall’interessante impianto decorativo che presenta due diversi interventi pittorici raffiguranti l’Annunciazione a metà delle paraste e un clipeo col Cristo al centro della cimasa (ibid., p. 54).
Le prime laconiche notizie relative alla presenza di Zaccaria in Umbria riguardano la decorazione e la doratura della perduta cornice che racchiudeva l’Assunzione della Vergine eseguita da Giulio Romano e Gianfrancesco Penni entro il 1525 per il monastero delle clarisse di S. Maria di Monteluce a Perugia, ora conservata nella Pinacoteca Vaticana.
I consistenti pagamenti che riguardano Zaccaria hanno suggerito che con la dicitura riportata nel contratto «pittura della cassa della tavola d’altare» si potesse intendere anche la predella con quattro Storie della Vergine attribuita tradizionalmente a Berto di Giovanni (ibid., pp. 55 s.).
Un documento del 12 giugno 1525 riporta il saldo di 20 scudi che il pittore doveva ricevere per la decorazione della cappella di S. Anna nella chiesa di S. Francesco a Foligno, commissionatagli da Giovan Francesco Conti.
Nonostante la scomparsa di tale opera, il documento ci fornisce importanti indizi su ulteriori rapporti intrecciati da Zaccaria non soltanto con maestri affermati, ma anche con committenti influenti strettamente legati agli ambienti culturali e politici romani. Infatti Giovan Francesco Conti, proveniente da una delle famiglie più importanti della città, era figlio di Sigismondo, diplomatico pontificio che commissionò a Raffaello la Madonna di Foligno (1511-12). L’indicazione potrebbe aprire ulteriori terreni d’indagine in rapporto al viaggio che Zaccaria effettuò a Roma, come si evince dal graffito senza data nella volta della Domus Aurea che riporta l’iscrizione «Zacaria Mazola da Parma» (Vaccaro).
Il 23 ott. 1525 Zaccaria è documentato a Spello, per la decorazione della cappella situata esternamente alla piccola chiesa di S. Croce, annessa all’omonimo ospedale e gestita dalla Confraternita di S. Maria della Misericordia. Ma l’opera, che avrebbe dovuto raffigurare il Miracolo dell’apparizione della Croce, fu successivamente affidata a Bartolomeo Coda.
Alla fine del medesimo anno dovette eseguire la decorazione pittorica dell’organo e dell’annessa cantoria lignea della collegiata di S. Maria Maggiore a Spello, come si evince da una memoria del 1749, che ricorda un pagamento per questa committenza a tale «maestro Zaccheria pittore».
Dell’originale struttura, smontata e smembrata nel Seicento, si conservano ancora undici tavole incorniciate con Cristo Benedicente e dieci Apostoli (Fornari Schianchi, Parmigianino e il manierismo…, 2003, p. 356).
Non si conoscono il luogo e la data di morte di Zaccaria.
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