GRANERI, Maurizio Ignazio
Nacque a Torino tra il dicembre del 1663 e il gennaio del 1664, figlio del sovrintendente generale alle Finanze Tomaso (1628-96), dal 1681 marchese di La Roche, e di Girolama Caterina Morozzo (morta nel 1696). Il 10 giugno 1683, nonostante fosse ancora nella "minorità", fu nominato consigliere di Stato e referendario della Camera dei conti. Dieci anni più tardi, in seguito alla morte del fratello Carlo Emanuele (1642-94), primogenito ed erede di Tomaso, il G. ne rilevò il posto in Senato (patenti del 25 marzo 1694).
Nel 1698 il G. fu scelto dal duca Vittorio Amedeo II per far parte, insieme con il presidente del Senato Giambattista Garagno di Roccabigliera, della delegazione incaricata di "accertare ed applicare proportionatamente le debiture ducali e militari alle città di Mondovì e terre del suo mandamento".
Mondovì e il Monregalese erano state teatro, in coincidenza con l'inizio del conflitto tra Piemonte e Francia (1690-96), di una vasta rivolta fiscale, nota come "guerra del sale". Dopo la pace di Ryswick, Vittorio Amedeo II aveva deciso di mettere ordine nella provincia, rompendo il legame amministrativo-fiscale che univa Mondovì a diversi comuni del suo mandamento. Le istruzioni inviate a Garagno e al G. il 19 luglio 1698 ordinavano ai due di "accertare il registro della città di Mondovì e di caduna delle comunità del suo mandamento". Tale provvedimento fu interpretato dalla popolazione come la premessa di nuove e più rigorose imposizioni fiscali. La conseguenza fu una ripresa della ribellione - la cosiddetta "seconda guerra del sale" -, seguita da una durissima repressione.
Rientrato a Torino, il G., nel giugno 1700, fu inviato da Vittorio Amedeo II a Roma, per sostituire il conte Girolamo Marcello De Gubernatis come residente sabaudo e trattare la complessa controversia con Roma in materia di immunità e di benefici. Alla base della scelta era la non comune competenza giuridica del G., che aveva pubblicato in forma anonima le Cinque lettere del signor N. ad un cavaliere della corte di Torino sopra le concessioni fatte da' papi a i duchi di Savoia intorno a' i beneficii de' loro Stati (Torino 1698).
Sin dal suo arrivo, il G. prese atto che la Curia era fortemente ostile alle pretese di Torino. Alla metà di settembre il G. seppe dal cardinale Fabrizio Spada che la congregazione preposta alla questione si era riunita senza informarlo, impedendogli così di presentare i documenti preparati a Torino. I prelati si erano pronunciati contro il Piemonte, ma tutto era stato tenuto nascosto a causa della malattia del papa, Innocenzo XII, la cui morte, il 27 settembre, riaprì inopinatamente la questione. Quando dal conclave uscì eletto il cardinale Albani (Clemente XI), il G. in un primo momento sperò che il nuovo pontefice fosse favorevole alla causa sabauda. Al contrario, il cardinale Francesco Barberini gli fece subito sapere che il papa non solo non era affatto ben disposto verso le richieste piemontesi ma che, anzi, se il governo di Torino non fosse venuto a più miti consigli, si sarebbe indotto a qualche "determinazione estrema".
Clemente XI ribadì tale scelta al G. nella prima udienza accordatagli, il 23 dicembre. Nel volgere di pochi mesi i rapporti fra il G. e la Curia si fecero estremamente tesi: "di me parlano con molta bile, sono arrivati a dire che le mie massime, perché non aggiustate ai loro interessi, sono poco cattoliche" (lettera del G. a Vittorio Amedeo II, 26 maggio 1701).
I rapporti fra Roma e Torino erano ormai giunti alla rottura: a provocarla fu la decisione di Vittorio Amedeo II di non accogliere un nuovo nunzio, se prima il papa non avesse accettato le sue richieste. A questo punto, il cardinale Fabrizio Paolucci, probabilmente d'intesa con lo stesso Clemente XI, provocò un incidente diplomatico con il G., che si vide improvvisamente negato il consueto trattamento nel cerimoniale pontificio per gli ambasciatori. Il 28 giugno 1701 il duca ordinò al G. di far immediatamente ritorno a Torino. Di lì a poco il governo sabaudo fece pubblicare una relazione sullo scontro che aveva opposto il G. a Paolucci.
Rientrato in patria, il 9 ott. 1702 il G. sposò Elena Margherita Valperga di Rivara, figlia di Gaspare e di Anna Francesca Valperga di Mazzé.
La sposa era al suo secondo matrimonio, essendo rimasta vedova nel 1698 di don Carlo Umberto, appartenente a un ramo naturale di casa Savoia (era figlio naturale ma riconosciuto di don Carlo Umberto, figlio del duca Carlo Emanuele I). Il matrimonio con il G. era stato deciso prima della partenza di questo per Roma, ma si era potuto celebrare solo al suo ritorno. Ultima esponente del ramo, Elena portava in dote al marito tutti i beni allodiali (quelli feudali erano passati a un altro ramo dei Valperga di Rivara).
Sebbene fosse ancora saltuariamente impiegato in missioni diplomatiche, dopo la missione romana il G. divenne uno dei principali collaboratori del duca nelle controversie con Roma. Il rilevante numero di pareri, memorie e consulti stesi per il duca mostra come le competenze del G. in materie giurisdizionali fossero quanto mai apprezzate. Il 24 sett. 1713 Vittorio Amedeo II, da poco divenuto re di Sicilia, promosse il G. a secondo presidente del Senato, nel 1715 lo incaricò di occuparsi della complessa questione della bolla Unigenitus e, fra il 1716 e il 1717, lo chiamò a far parte del Supremo Consiglio di Sicilia in qualità di reggente.
È infondata la notizia secondo cui il G. sarebbe andato in Sicilia, tornando solo nel 1719: l'attività nel Supremo Consiglio fu un impegno secondario rispetto a quello del Senato; le sue lettere di questi anni, infatti, sono tutte datate da Torino. Da esse, tra l'altro, emerge il conflitto fra il G. e il primo presidente Guglielmo Leone, con il quale i rapporti erano ormai fortemente deteriorati, tanto che in una lettera al sovrano del 15 sett. 1718 il G. raccontava di esser "stato attaccato, anzi insultato" dal suo superiore, che era "trascorso" contro di lui "in escandescenze non tollerabili". Nonostante i loro rapporti restassero tesi anche negli anni successivi, la caduta di Leone fu strettamente legata a quella del Graneri.
Fra il 1722 e il 1723 il Senato di Piemonte rifiutò di interinare una condanna a morte emanata da Vittorio Amedeo II, giudicandola eccessiva e giuridicamente non fondata. Il sovrano, che attendeva da tempo un'occasione per procedere all'epurazione di una magistratura che non riteneva sufficientemente docile, fece arrestare e mandare al confino il presidente Leone e due funzionari. Il G., che non era stato direttamente coinvolto dalla vicenda ma che aveva condiviso la posizione del Senato, si lasciò andare in privato a espressioni molto dure verso Vittorio Amedeo II, accusandolo di aver solo cercato "un pretesto per disfarsi del Senato". Queste parole furono riferite al re, che decise di sbarazzarsi del G. nominandolo primo presidente del Senato di Nizza. Il G. rifiutò, provocando la reazione di Vittorio Amedeo II, che il 25 ott. 1723 lo fece arrestare, sospendere da tutte le funzioni pubbliche e condannare al confino a Cherasco. Il G. restò al confino almeno sino all'8 apr. 1725, data alla quale risale un parere dell'avvocato fiscale Berterini, che consigliava il sovrano di farlo tornare a Torino, ma privandolo di tutte le cariche, dei relativi stipendi e, inoltre, di proibirgli "di scrivere o consultare" anche per privati. Liberato dal confino, il G. tornò a Torino, dove si ritirò a vita privata. L'11 febbr. 1728 Elena Margherita Valperga morì e, pochi giorni dopo, il G. si accordò per la divisione dell'eredità con il conte Renato Birago di Borgaro (fratello uterino della Valperga, poiché figlio del secondo marito di sua madre), che Elena aveva nominato proprio erede nel testamento stilato il 3 luglio 1714. Il 6 nov. 1728 il G. fece testamento, lasciando erede il nipote marchese Gaspare, nel palazzo del quale era tornato ad abitare.
Non sembrerebbe, quindi, confermabile la notizia (riportata anche da D. Carutti) che la Valperga sarebbe morta nei giorni in cui il G. veniva condannato al confino e che Pietro Mellarlde e il re, con gratuita crudeltà, avrebbero impedito al G. di assisterla.
In questi anni il G. agì spesso da consulente legale in cause particolarmente delicate e nel 1732 risulta esser stato richiesto di un arbitrato dalla segreteria agli Interni: era una fonte di guadagno che gli consentì di continuare a coltivare la sua passione per il collezionismo di opere d'arte. Nel 1737 eresse una commenda mauriziana per il nipote ex fratre, Pietro Giuseppe.
Il G. morì a Torino il 29 febbr. 1740. A causa dei numerosi lasciti stabiliti dal G. nel testamento e dei debiti contratti, il marchese Gaspare Graneri accettò l'eredità con il beneficio d'inventario e, fra settembre e ottobre, vendette all'asta tutti i beni dello zio, fra cui la biblioteca e la quadreria, che andarono quindi disperse.
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