matto
Si rilevano nell'uso di questo aggettivo due diverse gradazioni d'intensità. La più forte dà m. nello stesso grave significato con cui D. usa ‛ folle ' (v.), cioè " contrario alla ragione ", che dev'essere guidata dalla grazia di Dio: così in Pg III 34 matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone. Ma il Bosco (D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 56 n. 1 e 63 n. 5) propende a credere che il termine valga semplicemente " sciocco ".
In If XI 82 matta / bestialitate, a giudizio del Boccaccio, l'aggettivo è superfluo, " perciò che bestialità e mattezza si posson dire essere una medesima cosa "; in realtà la bestialità (v.) è m. in quanto denota un atteggiamento che esula dalla natura umana che è regolata dall'intelletto: essa è caratteristica anche della compagnia malvagia e scempia che sarebbe divenuta tutta ingrata, tutta matta ed empia (Pd XVII 64) contro D. durante l'esilio.
Con il valore dispregiativo di " stolto ", " insensato ", M. ricorre in Cv II X 10 Meglio sarebbe a li miseri grandi, matti, stolti tanto infamati (v. anche MATTERIA; mattia); ugualmente in Detto 362. Con valore analogo il termine è riferito alle pecore (Pd V 80) che, prive di discernimento, agiscono ma lo 'mperché non sanno (Pg III 84; cfr. per l'immagine Cv I XI 9). D. userebbe un termine tecnico di pastorizia, ché " matte " sono definite dai mandriani le pecore affette da " cenurosi ", un disturbo nervoso che i mandriani chiamano " capostorno ", a causa di strani movimenti del capo, dei salti, ecc., che in certi casi si manifestano. Con efficace analogia D. paragona l'eccitazione disordinata delle pecore al contegno ribelle di taluni cristiani.
Interessante è l'espressione per un matto guardamento d'occhi (Rime dubbie V 15), dove l'aggettivo ha probabilmente il valore di " malizioso ", come s'intuisce dai versi seguenti, nei quali lo sguardo è paragonato a dardi e stocchi.
Il valore predominante del termine mat nel francese antico, di " afflitto ", " abbattuto ", " triste ", si può probabilmente attribuire a m. in If XXVIII 111, dove Mosca dei Lamberti è presentato nell'atto di allontanarsi come persona trista e matta avendo ripensato alla disgrazia della sua famiglia e a quella della gente tosca di cui egli stesso è responsabile. Sicché trista e matta sarebbe una dittologia; ma secondo l'interpretazione vulgata m. varrebbe " fuori di sé ". Lo stesso significato in Fiore CXXXII 4: qui l'aggettivo è accoppiato a ‛ tapino ' e riferito a Falsembiante e a Costretta Astinenza, i pellegrini che andavan sì matti e si tapini, " umili e dimessi " (Parodi).
In Detto 361 e 362 Perch'Amor m'aggia matto, / o che mi tenga a matto / Ragion, cui poco amo, / già, se Dio Piace, ad amo / ch'ell'aggia non m'ha crocco, il termine compare due volte, in rima; nel primo caso (al v. 361) m. è probabilmente participio passato di ‛ mattare ' (v. voce seguente) e vale " vinto " (Parodi), ma non si esclude che esso sia tratto dall'espressione in uso nel gioco degli scacchi (v. MATTO).
Bibl. - P. Di Mattei, Sulle " pecore matte " di D., in " Nuova Ant. ", n. 2042 (febbr. 1971) 254-258.