MORENI, Mattia Bruno
MORENI, Mattia Bruno. – Nacque a Pavia il 12 novembre 1920 da Leonardo, capitano della regia cavalleria, e da Irene Toscano.
Nel 1940 a Torino si iscrisse all’Accademia Albertina di belle arti, dove rimase per circa un anno e mezzo frequentando i corsi di pittura di Cesare Maggi e Enrico Paulucci. L’innato anticonformismo e l’avversione nei confronti della dittatura fascista lo spinsero a richiedere, nel 1939, la tessera del partito comunista clandestino, di cui divenne un attivista; nell’inverno di quell’anno, ricercato, dovette rifugiarsi a Cotignola, in Romagna. Nel 1943, entrato a far parte della Resistenza, per sfuggire alle truppe fasciste trovò riparo a Brisighella, nelle vicinanze di Faenza. Al termine del conflitto, nel 1946, tornò a Torino e allestì la sua prima personale presso la galleria La Bussola, cui fece seguito quella alla galleria Il Milione di Milano (1947). Nel 1947 fu tra i membri del comitato promotore della mostra Arte Italiana d’oggi-Premio Torino, insieme a Piero Bargis, Umberto Mastroianni, Oscar Navarro, Ettore Sottsass jr. e Luigi Spazzapan. L’anno successivo fu invitato alla XXIV Biennale di Venezia e partecipò alla V Quadriennale nazionale d’arte di Roma.
L’esordio pittorico di Moreni conobbe un breve momento accademico (Interno della mia stanza, 1941, ripr. in M.M., 2008, p. 49), che l’artista superò aprendosi alle esperienze internazionali, soprattutto a quelle di matrice fauve ed espressionista. In contestazione con il gusto allora dominante a Torino, ovvero con lo stile di Felice Casorati e dei suoi epigoni e allievi, nel 1944 dipinse Santone (Torino, Fondazione Ettore Fico) insistendo in particolare sul valore materico del colore. Come in altri dipinti del periodo (Figura col fazzoletto rosso, 1944; La zucchettara, 1944, entrambi ripr. inM. M., 2008, pp. 52-55) propose un espressionismo di chiara matrice nordica, utilizzando colori cupi, tonalità dense e un tratto nervoso nella definizione delle figure. In Il gallo e le angurie, del 1945 (ripr. ibid., p. 57) comparve per la prima volta il tema di questo frutto che nell’immaginario moreniano ebbe sempre valenze metaforiche sessuali.
Tra il 1949 e il 1950 visse ad Antibes, in seguito si trasferì a Grado (1950-53). Nel 1950 fu invitato di nuovo alla Biennale di Venezia, dove la sua presenza fu costante fino al 1956. Nello stesso anno partecipò alla Mostra dell’Art Club a Torino e all’Antologia del disegno italiano 1900-1950 allestita prima ad Asti e poi a Torino. Nel 1952 entrò a far parte del Gruppo degli Otto, insieme a Renato Birolli, Afro, Antonio Corpora, Ennio Morlotti, Emilio Vedova, Giuseppe Santomaso e Giulio Turcato, con i quali espose alla Biennale veneziana di quell’anno e nel 1953 partecipò alla mostra itinerante (Hannover, Colonia e Berlino) organizzata da Lionello Venturi, teorico del gruppo. Nel 1953 andò ad abitare a Frascati, rimanendovi fino alla fine del 1954 senza rinunciare però ai soggiorni estivi in Romagna, diventati abituali dal 1947. Nel corso dello stesso anno ottenne la medaglia d’oro del Consiglio provinciale di Milano nell’ambito del IX premio Lissone e fu invitato alla II Biennale d’arte di San Paolo del Brasile, dove era già stato presente alla prima edizione.
Tra il 1947 e il 1948, in sintonia con la temperie culturale del momento propose una sintassi cubista di matrice picassiana informata sugli esiti della Scuola di Parigi (Natura morta con pesci, 1947, ripr. in M. M., 2001, fig. 2; Figura di donna, 1948, Reggio Emilia, coll. privata, ripr. in M. M., 2008, p. 64). Sul finire del decennio virò verso i modi dell’arte concreta cedendo alle suggestioni di un «meccanomorfismo » articolato in incastri di forme geometriche e organico-naturali, con campiture piatte di colore delimitate da spesse linee di contorno. Sul finire del decennio, tuttavia, riconoscendosi nella teorizzazione venturiana dell’astratto- concreto, scelse di evocare per via di astrazione le immagini della realtà, come appare in opere quali Nel porto di Antibes (Torino, Galleria civica d’arte moderna e contemporanea) o Storie di mare, entrambe del 1950 (Faenza, collezione Oscar Alpi, ripr. in M. M., 2008, p. 71) nelle quali riappaiono richiami referenziali inequivocabili al dato oggettivo, seppur soggetti a una forte schematizzazione. In seguito, nel 1954, risolse l’ambiguo equilibrio astratto-concreto convergendo verso l’informale e conferendo piena autonomia estetica al segno, forte e violento nella carica gestuale. Tema principale di questa nuova fase è il rapporto uomo-natura, visto come situazione dirompente. In opere come Sole sul cespuglio (1956, Roma Galleria nazionale d’arte moderna), Sterpaglia sulle rocce (1956, Torino, Civica Galleria d’arte moderna e contemporanea) scenari d’un espressionismo aspro e tormentato descrivono visioni apocalittiche di frantumazione cosmica, nelle quali il segno-gesto disgrega ogni riferimento naturalistico. Il mutare dei temi e della qualità pittorica, caratterizzata dall’ispessimento degli impasti densi e untuosi, coincide con gli spostamenti geografici di Moreni, che era solito rimarcare questo nomadismo indicando nei titoli delle opere il luogo in cui le aveva dipinte.
Nel 1954, anno in cui si sciolse il Gruppo degli Otto, Moreni fu nuovamente invitato alla Biennale di Venezia, dove ricevette il premio Perugina. Nello stesso anno vinse il premio Golfo della Spezia con Le dolci colline di Brisighella, e il premio Città di Spoleto con Paesaggio all’alba (1953, Spoleto, Galleria civica d’arte moderna). In novembre, sulla rivista Paragone (V [1954], 59, pp. 29-43), Francesco Arcangeli pubblicò il saggio Gli ultimi naturalisti includendo fra costoro anche Moreni in quanto impegnato nel rilancio estremo, vitale e drammatico insieme, dei temi romantici fondamentali come il rapporto uomo-natura. Nel 1955 venne invitato all’esposizione internazionale Documenta di Kassel e alla mostra The Pittsburgh International Exhibition of contemporary painting and sculpture presso il Carnegie Institute and Museum of art di Pittsburgh. Nel 1956, dopo aver trascorso l’inverno a Bologna, su suggerimento di Michel Tapié, conosciuto a Frascati nel 1954, decise di trasferirsi a Parigi, dove visse per un decennio senza mai rinunciare alle estati in Romagna, a San Giacomo di Russi. Nella capitale francese per alcuni mesi affittò uno studio nella centralissima rue Faubourg Saint-Honoré, di fronte all’Eliseo, ed esattamente sopra la galleria Rive Droite, dove Tapié lo propose prima in una collettiva insieme agli artisti dell’Informel e poi, nel 1957, con una mostra personale. In seguito traslocò il suo studio nella sede presso il Moulin Rouge. Nel 1956, presentando in catalogo la personale alla XXVIII Biennale di Venezia, Tapié avvicinò la poetica di Moreni all’espressionismo astratto americano di Willem de Kooning, ma anche alle esperienze di Jean Fautrier, Jean Dubuffet, Asger Jorn, Karel Appel e di altri esponenti del Gruppo CoBrA che Moreni frequentò a Parigi. Fu di nuovo il critico francese a introdurre la sala personale nell’edizione del 1960 della rassegna veneziana, dove Moreni espose nove tele tra cui Immagine penosa del 1960, riprodotta in catalogo, e Un pezzo di carne come un paesaggio (1960, Vienna, Museum moderner Kunst), per le quali ottenne il premio Giulio Einaudi. Nel 1959 partecipò con una personale alla V Biennale di San Paolo del Brasile e fu invitato a Documenta 2. Nel 1961 gli venne conferito il premio della presidenza del Consiglio dei ministri alla IV Biennale dell’incisione allestita al Museo dell’Opera Bevilacqua La Masa di Venezia e ottenne la menzione d’onore al XII premio Lissone. L’intensa attività espositiva di quegli anni, scandita dalle personali in Italia (1961, Milano; 1962, Torino, Genova, Bologna, Roma) e all’estero (1958, Bruxelles, Colonia; 1960, Londra, Parigi; 1961, Colonia; 1962, Basilea; 1963, Vienna) culminò con la prima antologica al Kunstverein di Amburgo nel 1964, che precedette di un anno quelle di Leverkusen (Museum Morsbroich) e di Bologna (Museo civico).
Nel 1966 lasciò Parigi con la sua compagna, Poupy Pratt, per stabilirsi definitivamente in Romagna, nei pressi di Brisighella, nella cascina delle «calbane vecchie» in una sorta di volontario isolamento motivato, senza dubbio, da esigenze personali, ma anche dal mutato clima culturale internazionale scaturito dal successo commerciale della pop art. L’artista, in opposizione alla crescente mercificazione dell’arte, estremizzò coraggiosamente la sua ricerca accentuandone le valenze provocatorie, sia nei contenuti sia nelle elaborazioni formali e pittoriche.
Dal 1960 nell’informale di Moreni comincia a svilupparsi un nuovo principio di figurazione, al di là dell’autoreferenzialità del gesto. Le forme si ricompongono delineando oggetti dispersi nella campagna; si tratta di immagini comuni, familiari, nelle quali, tuttavia, si avverte un crescendo di ambiguità: segnali stradali con scritte inneggianti all’amicizia (Cartello con veleno, 1961, ripr. in M. M. Mostra mista, 1991, p. 71), baracche (Baracca incalcinata, 1963, ripr., ibid., p. 74), nuvole, alberi (Un melo notturno, 1964-1965, ripr. ibid., p. 70) e infine le angurie (Un anguria come un segnale, 1965, ripr. in M.M., 2001, fig. 22; Ah! La povera anguria sul pendio come un’immagine penosa, 1967, Milano coll. privata, ripr. in M. M. Mostra mista, p. 79).
Nel 1964 M. iniziò a lavorare al ciclo delle «Angurie», al quale si dedicò per oltre 12 anni, e di cui radunò una significativa selezione nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1972. In seguito, nel 1975, nell’antologica presso la Pinacoteca comunale di Ravenna presentò l’intera serie delle «Angurie», comprese le sculture, in legno (Tavolo, 1970-72; Monumento all’anguria con frasca, 1970-74) o ferro verniciato (Un’anguria in disfacimento, 1971-1972; Un’anguria in disfacimento bruciata, 1972-1973; Un’anguria ferita, 1973-1974).
Partendo da un’iniziale rappresentazione naturalistica del frutto, intero oppure tagliato a spicchi o a fette rotonde abbandonate nei campi come a indicare una sorta di colloquio con la natura, Moreni, in breve tempo, sottopose l’anguria a un’inquietante metamorfosi, che, con crescente aggressività e provocazione le fece assumere le sembianze di un corpo organico equivalente alle cosce aperte di una donna, con al centro, drammaticamente evidenziata come una ferita, la vagina. L’anguria, della varietà chiamata «americana» dai contadini romagnoli che per accelerarne la maturazione la chiudono dentro sacchetti di plastica costringendola a una crescita accelerata e abnorme facendole assumere una forma allungata, è vista dall’artista come emblema delle alterazioni chimico-fisiche in grado di far degenerare in modo aberrante la vita umana, di cui la vagina è simbolo e origine per antonomasia. In Tragica come un’anguria americana assassinata sul campo (1970; ripr. in M. M., 2001, fig. 26) la trasfigurazione è ormai compiuta e nel dipinto non c’è la rappresentazione del frutto, come il titolo lascerebbe intendere, ma quella del sesso femminile, «membrana trasmittente messaggi che non conosciamo» – secondo le parole dell’artista (in M. M., 1975, p. 28) – che diventa un’immagine ossessiva, tragica e teatrale metafora della condizione umana, destinata a un irreversibile degrado (Le angurie non ci saranno più, come le donne non faranno più bambini, 1970; Un’anguria come monumento al disfacimento, 1973).
Nel 1972 partecipò alla X Quadriennale nazionale d’arte di Roma, nella sezione riservata alle ricerche non figurative, e continuò negli anni un’intensa attività espositiva, con numerose mostre personali sia in gallerie private sia in spazi pubblici e con la partecipazione alle maggiori esposizioni internazionali dedicate all’informale. Sviluppò la sua ricerca pittorica per cicli tematici successivi, seguendo con coerenza un personale pensiero filosofico, che volle spiegare anche a parole. Dalla metà degli anni Settanta cominciò a scrivere titoli e parole in grandi lettere direttamente sulla tela, tanto che, nella continua dialettica tra i due linguaggi, le frasi divennero in maniera sempre più invadente protagoniste del discorso pittorico al pari delle immagini. Inoltre raccolse le sue cogitazioni, in origine manoscritte su lunghi rotoli di carta, in due monologhi diffusi in copie fotostatiche: L’ignoranza fluida, dedicata alla luce demenziale dell’intelligenza (una buona condizione per capire mi sembra quella di non aver niente da difendere). Monologo n. 1 (1975-1978), e L’assurdo razionale perché necessario. L’errore come mezzo come ricerca come linguaggio o dell’errore come difetto difettoso non codificabile. Monologo n. 2 (1979-1984). Tra il 1976 e il 1984 lavorò a La mistura, una scultura installazione costituita dall’accumulazione di oggetti di vario genere tenuti insieme da una sostanza simil-organica, magmatica, a base di colla sintetica, atta a degradare le forme in una continua, rovinosa mutazione (La grande mistura, 1984).
Nel 1981 pubblicò Il principio della fine dell’umanesimo: una raccolta di pensieri preparatori alla serie composta da pittura e parola scritta «Il regressivo consapevole». Nel 1985 presentò al pubblico gli esiti di tali ricerche nella mostra allestita nella palestra olimpica di Santa Sofia di Romagna. Dal 1984 al 1988, senza lasciare lo studio delle «calbane vecchie», andò ad abitare nel borgo di Brisighella. In seguito si stabilì a Santa Sofia, sulle pendici appenniniche, dove, proseguendo nella sua personale cosmogonia della catastrofe, avviò la serie «Il regressivo consapevole» applicato alla categoria «Belle arti, asili nido asili patologici o del talento dei senza mezzi» con l’opera Santa Sofia prilla prima di esplodere (1983). Ne nacque una figurazione immaginifica, beffarda e delirante d’impronta quasi graffitista, caratterizzata dalla velocità e dalla corsività espressionistiche delle pennelate e della scrittura. Emblematica, in tal senso, la serie degli autoritratti.
Autoritratto n. 1. Mattia Moreni a 82 anni di sua età del 1985 (Santa Sofia di Romagna, galleria V. Stopponi) è il primo di una lunghissima serie di dipinti nei quali Moreni interpretò in chiave grottesca e tragica la regressione fisiologica e l’involuzione della specie umana (Autoritratto n. 27 Mathias Morenis a 18 anni di sua età laida danzatrice di flamenco punk andalusa Asburgo, 1991; Parigi, coll. privata ripr. in M. M., 2008, p. 122; Il Bambolo del NO. Moreni a tre anni di sua età, asilo nido Gorizia, 1992; ripr., ibid., p. 124). «Punk è una parola come un’altra per dire che non abbiamo niente da difendere »; è una frase che ricorre spesso a completare i titoli delle opere di questi anni, nelle quali Moreni adotta una tavolozza acida con colori che sembrano illuminati da luci al neon e propone una pellicola pittorica lucida con dense paste pittoriche distese, non di rado, con le mani o spremute direttamente dai tubetti.
Nel 1988 documentò esaurientemente la visionaria ricerca dell’ultimo periodo con la mostra alla Galleria comunale d’arte contemporanea di Arezzo. All’inizio del decennio successivo (1993-1995) riprese il mai sopito tema del sesso femminile, inteso come luogo di genesi naturale irrimediabilmente perduta, con la serie «Marilù muore…ciao» (La già Marilù alla Standa, 1994; ripr. in Crispolti, 1996, fig. 74) insistendo sull’inutilità della vita sessuale minacciata dall’ingegneria genetica; mentre il rapido progresso dell’informatica e dell’elettronica gli suggerirono le figure degli umanoidi dotati di corpo post-organico, con arti mostruosi e improbabili protesi tecnologiche: estrema tappa dell’annichilimento umano (Umanoide tutto computer, 1996; ripr. in Spadoni, 1996, p. 48). Negli stessi anni lavorò a una serie di sculture installazioni di ispirazione dadaista impostate sull’ambiguità delle forme e dei soggetti (Inginocchiatoio con femore variabile. Perché? Progetto alla Man Ray per il monumento a Duchamp; L’esibizionismo obbligatorio, o dello speleologo vaginale; La vedova del ciclista, ripr. in M. M. Mostra mista, 1991, p. 188). Con la personale del 1999 al palazzo delle Esposizioni di Faenza presentò gli ultimi dipinti, nei quali fece culminare l’anormale mutazione antropologica dell’uomo riducendolo ad un assurdo elettrodomestico ipertecnologico.
Morì a Brisighella il 29 maggio 1999.
Fonti e Bibl.: G. Di Genova, Disegni e sculture dipinte di M. M., Roma 1974;M. M. 12 anni di angurie: pitture sculture disegni (catal.), Ravenna 1975;M. M. Litografie. 4 probabili possibili esseri sconosciuti non ossigenati in una modernità che non ha ancora luogo… l’esibizionismo decadente di 4 vulve di già sterili disamorate della patria….(catal.), Napoli 1979;M. M. Il principio della fine dell’umanesimo, 1970-1985 (catal.), Santa Sofia di Romagna 1985; R. Barilli,M. M.: le “non angurie” (catal.), Milano 1988; M. M. Il regressivo consapevole 1983-1989 (catal.),Torino 1989; M. Rosci, M. M. Mostra antologica (catal.), Acqui Terme 1990; M. M. Mostra mista: oggetti e pitture, 1957-1991 (catal.), Milano 1991;M. M. La mistura questa è un ignobile splendore, 1976-1985 (catal.), Milano 1991;M. M., tutte regressive meno una. Perché? (catal.), Milano 1992; E. Crispolti, Marilù muore, ciao…perché? (catal.), Milano 1996; C. Spadoni, M. M. L’umanoide tutto computer (catal.), Ravenna 1996; L’ultimo trasalimento del dipingere… o la protostoria della modernità (catal.), a cura di M.L. Somaini, Faenza 1999; Omaggio a M. M. Le estati a palazzo S. Giacomo (1957-1966) (catal.), Ravenna 2000; M. M. «Trasgressione come regola» 1945-1995 (catal.), Torino 2001; M. M. (catal.), a cura di F. Calarota - R. Calarota, Milano 2008; R. Barilli, Informale oggetto comportamento, I, Milano 2006, pp. 220-222.