MATTIOLI, Matteolo (Matheolus Perusinus). – Figlio del pittore Baldassarre, nacque a Perugia, probabilmente nel primo decennio del XV secolo. Poco è noto dei suoi primi studi, che si dovettero svolgere a Perugia dove il M., pur essendo solo magister in artibus, diede inizio alla carriera universitaria insegnando medicina almeno dal 1427, l’anno in cui gli fu offerta una cattedra di medicina dall’Università di Siena. Le autorità perugine apprezzavano tanto la sua attività da indurlo a rinunciare all’insegnamento senese concedendogli un aumento dello stipendio, ulteriormente incrementato nel 1429. Questa prima fase della vita professionale del M. si concluse nel 1430, quando si trasferì a Padova dove, terminati gli studi, conseguì, l’8 dic. 1432, la laurea dottorale (cfr. Acta graduum…, p. 294)
, subito seguita da un incarico di docenza nel medesimo Studio.
L’insegnamento padovano del M. è testimoniato anche per gli anni 1437-39, quando tenne alcune orazioni inaugurali degli studi in qualità di professore di medicina ordinaria (cfr. Pesenti, pp. 135 s.). Tuttavia la sua posizione professionale dovette essere piuttosto complessa poiché negli stessi anni compare anche tra i salariati della Camera apostolica per lo Studio di Perugia dove, come magister medicus, percepiva uno stipendio di 75 fiorini l’anno. Un’analoga incertezza sulla posizione accademica del M. si presenta per gli anni successivi: nel 1443-47 insegnava medicina a Ferrara, ma al contempo risultava ancora tra i magistri medici attivi nella città natale (con un salario asceso a 100 fiorini), dove presenziò all’inaugurazione dei due anni accademici. Chiusa la parentesi ferrarese, il M. tornò allo Studio patavino, ma nel 1452 il suo nome compare nei rotuli dell’Università di Bologna; l’anno successivo risulta di nuovo tra i professori di Padova, città dove restò sino al gennaio 1454.
A Padova il M. si inserì nel mondo della cultura umanistica, un coinvolgimento attestato soprattutto da quattro lettere di Francesco Filelfo, due indirizzate direttamente al M., due al medico Pietro Tommasi. La prima missiva, datata 1446, fa riferimento a un attrito tra i due, che si accusavano reciprocamente di negligenza e di cupidigia; ciononostante nelle missive successive emerge, oltre a una conoscenza personale, la stima del Filelfo nei confronti del M., definito «vir non philosophus solum, sed etiam disertus» (c. 78). Allo stesso Filelfo sembra si debba attribuire l’approccio del M. con i testi ippocratici. Filelfo, infatti, nelle sue lettere richiese più volte la restituzione di due libri di Ippocrate da lui stesso tradotti in latino e dati in prestito al Mattioli.
Forse furono proprio questi i testi utilizzati dal M. per comporre la sua Expositio super aforismos Hippocratis, un’opera risalente al 1466 e nata probabilmente come orazione o come lectio universitaria (cfr. Kibre - Siraisi, pp. 421-428; una recente edizione in Matheolus Perusinus, Commento a «Gli aforismi di Ippocrate», a cura di G.R. Levi-Donati - M. Concetti, Perugia 2007). In essa il M. offre un’introduzione al testo ippocratico volta essenzialmente a chiarirne la struttura e l’utilità; l’opera dunque presenta una partizione tipica e piuttosto consolidata: titulus libri, autoris intencio, utilitas, ordo, via doctrinae e infine divisio. Al corpo principale del testo segue una breve appendice nella quale il M. affronta il problema dell’ancora incerto statuto della medicina, nei suoi aspetti sia pratici sia teorici. La medicina, infatti, può essere appresa tanto attraverso l’esperienza, quanto attraverso lo studio, ma per il M. lo studio risulta un metodo irrinunciabile, anche perché la brevità della vita umana non consente all’esperienza personale un apprendimento sufficiente della complessa arte medica.
Cedendo infine ai reiterati tentativi perugini di riaverlo come docente, nel 1454 il M. tornò a insegnare a Perugia, ma vi restò pochi mesi, poiché fu coinvolto in una sgradevole disputa. Sembra che egli avesse offeso e denigrato un altro docente di medicina, Nicola Rainaldi da Sulmona, accusandolo di non aver ottemperato ai suoi doveri. La questione sfociò in una contesa letteraria, di cui s’ignora l’argomento; stando a quanto narrato in una sua lettera da Giovanni Antonio Campano, amico di Nicola da Sulmona, il M. ne uscì sconfitto in modo tanto eclatante da non voler più mostrarsi in pubblico e da decidere di lasciare la città e fare ritorno a Padova, dove assunse la cattedra di medicina teorica ordinaria.
A Padova il M. incontrò i suoi più noti studenti, Ludovico Podocataro, futuro archiatra di Innocenzo VIII, e Hartmann Schedel; quest’ultimo ebbe, nell’aprile 1466, proprio il M. come promotore per la sua laurea e poi divenne il più importante costruttore della fama del maestro. Buona parte delle opere del M. sono note solo grazie alle trascrizioni fatte da Schedel e sono attualmente conservate tra le sue carte presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (Clm., 252). Schedel, inoltre, nel suo Liber chronicarum presenta un ritratto del M. cui si sono rifatti tutti i biografi successivi.
Non si hanno altre notizie sul M.: tradizionalmente si è ritenuto che morì tra il 1479 e il 1480, tuttavia recenti ricerche hanno anticipato la morte, avvenuta probabilmente a Padova prima del 1473, anno in cui la moglie, Lucia Boglioni (o Boggioni) da Fano, risulta vedova (Pesenti, p. 134).
Da questo matrimonio il M. ebbe due figlie: Marsilia, andata sposa a un nobile padovano, Giacomo Capodivacca, e Giovanna, sposatasi con un tedesco.
Opere. L’incondizionata ammirazione di Schedel, le note critiche del Campano e la duplicità del giudizio espresso da Filelfo hanno contribuito al perdurare di valutazioni sul M. assolutamente divergenti, che spaziano dall’accusa di impostura agli elogi per la sua cultura e i suoi interessi enciclopedici. La maggioranza delle sue opere risale agli anni del suo insegnamento patavino e sono pervenute tutte manoscritte (ibid., pp. 135-138), con l’unica eccezione del breve trattato De memoria, che ebbe una discreta fortuna e fu dato alle stampe per la prima volta a Lipsia nel 1470 e poi riedito da stampatori d’area sia italiana sia tedesca fino ai primi decenni del XVI secolo (ibid., pp. 139 s.); in Matheolus Perusinus, Tractatus de memoria, a cura di G.R. Levi Donati - L. Sacillotto, Perugia 2006, è presente una riproduzione fotografica dell’edizione napoletana del 1474 (Indice generale degli incunaboli, 6277) affiancata da traduzione in italiano e in inglese.
Nel De memoria il M. distingue, in primo luogo e nel rispetto della tradizione, tra memoria e reminiscenza, ossia tra l’atto di conservare nella mente traccia di cose e nozioni e quello, successivo, di richiamarle alla coscienza. Per il M. entrambe le attività mentali possono essere coadiuvate da strumenti artificiali, classificati in due categorie che, a loro volta, determinano la divisione del trattato in due capitoli. Il primo è riservato a una disamina delle «regole» elaborate dalla retorica nel corso dei secoli per aiutare la memoria, una delle cinque parti in cui era articolata la retorica stessa; le fonti dichiarate di M. spaziano dai classici – Aristotele, Platone e Cicerone – sino a Ugo da San Vittore e Averroè e gli permettono di accennare alle principali regole della mnemotecnica e della topica. Il secondo capitolo presenta gli strumenti medici che possono coadiuvare la memoria e rivela come il M. fosse partecipe di quell’atteggiamento umanistico che aveva progressivamente svalutato la mnemotecnica nella retorica per convogliarla nell’alveo della filosofia naturale (Zappacosta). L’acquisizione e il potenziamento della memoria divengono oggetto della medicina che può offrire consigli dietetici e farmaci. La memoria, infatti, si giova, in primo luogo, di uno stile di vita moderato tanto nel cibo, quanto nei comportamenti; inoltre trae beneficio dall’assunzione di pochi e semplici rimedi.
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