VILLANI, Matteo
– Nacque a Firenze, ultimo dei quattro figli maschi di Villano da Stoldo di Bellincia, verso il 1290 o poco dopo.
La data si può desumere dal passo della Cronica relativo alla carestia del 1353; Villani scrive «in LV anni di nostra ricordanza» (III, 76, M. Villani, Cronica..., a cura di G. Porta, 1995, I, p. 416), ma il cenno non è facile da decifrare perché non è chiaro se si riferisce a cinquantacinque anni dalla sua nascita o da quando ha cominciato a conservare i ricordi, e neppure se i cinquantacinque anni sono da considerare in relazione al momento dello svolgimento dei fatti narrati o a quello della loro registrazione nella cronaca che deve essere di poco posteriore.
Il padre apparteneva a una famiglia originaria di Borgo San Lorenzo nel Mugello, era immatricolato nell’arte della lana e nel 1300 ricoprì il priorato. La madre era Fia di Ugolino da Coldaia, membro di una famiglia proveniente anch’essa dal Mugello e di tradizione signorile (e legata agli Ubaldini, i quali nella Cronica ricevono notevole rilievo).
Poche le notizie sulla vita: solo secondo Domenico Maria Manni contrasse un primo matrimonio con Taddea di Domenico Ciampelli; si ricordano poi le nozze con Luisa di Monte Buondelmonti che fu incarcerata tra il 1343 e il 1344, quando Villani venne coinvolto nel fallimento della compagnia Buonaccorsi. Il numero dei suoi figli non è certo: Franca Ragone (1998, p. 224) ricorda Filippo, Alberto e Lena; Francesco Gherardi Dragomanni (in M. Villani, Cronica..., 1846, I, pp. 535 s.) menziona anche Talana, Eusebio e Giovanni; studi più recenti (Albanese - Figliuolo - Pontari, 2019, p. 345) aggiungono due figlie illegittime, Antonia e Bona. Della sua attività professionale sappiamo che fu associato, come il fratello Giovanni, alla compagnia Buonaccorsi, della quale diresse tra il 1319 e il 1325 la filiale di Napoli, e tra il 1333 e il 1335 quella di Avignone (dove si ricorda presente in VII, 2, Cronica..., cit., II, p. 15). In seguito fu di nuovo a Napoli; ivi si trovava quando fallì la compagnia dei Buonaccorsi, nel 1341. Dopo quella data pare sia rimasto stabilmente a Firenze, restando ai margini della vita pubblica; in precedenza aveva ricoperto alcuni uffici cittadini.
Fu nel 1330 dei sei ufficiali del Biado, nel 1336 tra i Dieci per Venezia e, dopo il fallimento dei Buonaccorsi, scriba e ragioniere del Monte dove la sua famiglia aveva fatto grandi investimenti; per questa istituzione egli ha parole di lode (IV, 83, Cronica..., cit., I, p. 596).
Le conseguenze del fallimento dei Buonaccorsi si sentivano ancora nel 1357, quando Villani fu chiamato a rispondere davanti al tribunale fiorentino della Mercanzia per una truffa a danno di Sibilla de Cabris e di suo figlio Annibal de Moustiers. Nel 1363 fu interdetto dagli uffici pubblici cittadini, dopo che l’anno prima era uscito assolto dall’accusa di ghibellinismo in un processo, all’origine del quale si è ipotizzato stessero anche le critiche al governo di Firenze contenute nella Cronica (Brucker, 1960).
Morì durante la pestilenza del 1363, a Firenze il 12 luglio.
Né nel prologo al primo libro né in altri luoghi della Cronica Villani indica il momento in cui, accettando l’invito di non meglio indicati amici, decise di continuare l’opera di suo fratello Giovanni, morto nella pestilenza del 1348. Ma due capitoli del terzo libro (III, 15-16, Cronica..., cit., I, pp. 347-349) fanno supporre che probabilmente egli abbia cominciato a scrivere solo dopo il 1356. Se infatti alcune anticipazioni apparse nelle pagine precedenti hanno l’aspetto di inserti, magari scivolati nel testo dai margini (così I, 59, ibid., p. 113, o VII, 45, ibid., II, pp. 65 s., che sembra una bozza), oppure di aggiunte posteriori (VI, 47, ibid., I, p. 767, dove si rimanda al libro undicesimo), nei capitoli dedicati alla reliquia di Santa Reparata donata a Firenze nel 1351 egli avverte «contro a l’ordine del nostro annuale trattato» che la si sarebbe scoperta falsa nel 1356.
In seguito, giunto al 1357, dopo avere dedicato molte pagine all’esperienza pavese di frate Giacomo Bussolari, Villani preannuncia quanto sarebbe avvenuto nel 1359, quando Pavia entrò nei domini viscontei (VIII, 4, ibid., II, p. 141). È lecito comunque supporre che verso il 1358 egli avesse già portato molto avanti la sua opera e che stesse registrando i fatti a poca distanza dal loro svolgimento: nelle note di quell’anno, infatti, si presta fede alla notizia secondo cui Rodolfo IV d’Asburgo sarebbe stato incoronato re di Lombardia da Carlo IV; più avanti, registrando fatti relativi al 1361, la stessa informazione è detta infondata (VIII, 98, ibid., p. 258, e X, 78, ibid., p. 542). Dal 1361 al 1363 Matteo sembra aggiornare via via la sua opera, annotando le vicende a breve distanza dal loro svolgimento visto che, giunto al 1362, si giustificava di non avere che notizie sui luoghi più vicini (XI, 17, ibid., pp. 608 s.), e soprattutto perché l’ultima nota di sua mano risale al 1° luglio 1363, solo pochi giorni prima della sua morte.
Conclusa con note sulla peste del 1363, la Cronica si apre con un resoconto dell’epidemia del 1348 che Villani ritiene un momento di frattura nella storia, e quindi un buon punto d’inizio per il resoconto delle vicende coeve fondato sulle osservazioni dell’autore e di testimoni degni di fede.
Già nei primi capitoli l’opera assume l’aspetto che la caratterizza nella sua interezza, e procede offrendo informazioni su vari luoghi d’Italia e d’Europa esponendole cronologicamente in un testo segnato da innumerevoli fratture e riprese del filo del discorso. Anche l’orizzonte della Cronica è definito sin dal primo libro e si mantiene largo come era stato nella Nuova cronica di Giovanni, ma non sarebbe rimasto nella cronachistica fiorentina del secondo Trecento: centrale è la posizione di Firenze e delle altre città della Toscana (con la definizione «Comuni toscani» – talvolta indicati come soggetto collettivo dell’azione – di norma Villani intende Firenze, Siena e Perugia), seguono la Romagna di cui fa parte anche Bologna e che Matteo considera la regione più prossima alla Toscana (VIII, 93, Cronica..., cit., II, p. 252), quindi la Milano dei Visconti, poi il Regno di Napoli durante il travagliato governo della regina Giovanna I d’Angiò e di suo marito Luigi di Taranto, e la Sicilia martoriata da interminabili scontri. Fuori d’Italia la maggiore attenzione va a Francia e Inghilterra, contrapposte in quella che sarebbe stata la guerra dei Cento anni, dopo viene la Spagna, mentre meno rilievo ricevono altre parti d’Europa come la Germania e l’Austria (dell’imperatore Carlo IV si parla solo quando il sovrano è in Italia). Ma anche alcune regioni italiane, quelle nordorientali, restano al margine del racconto: a Venezia si dedica poco rilievo (tranne che per le sue guerre con Ludovico d’Ungheria e con Genova), mentre le signorie cittadine del Veneto e il Patriarcato d’Aquileia sono quasi assenti dall’orizzonte di Matteo.
La prassi di lavoro di Villani appare ormai definita nel secondo libro e trova non solo conferma ma anche una sorta di elaborazione teorica nel prosieguo dell’opera (cfr. per un esempio tra moltissimi IV, 27, Cronica..., cit., I, p. 512). Altro aspetto che caratterizza la Cronica sin dal principio è il legame che si forma tra tema su cui Villani si sofferma nel prologo e materia trattata nel medesimo libro o almeno nei suoi capitoli introduttivi, come si vede bene nell’incipit del libro terzo in cui il richiamo alla tradizionale libertà municipale che in Italia risalirebbe ai tempi di Roma antica – come l’autore avrebbe ribadito anche in altre occasioni (per esempio IV, 77, ibid., pp. 586 s.) – precede una pagina dedicata all’espansionismo dei tiranni Visconti. Dal terzo libro entra nella Cronica un altro tema destinato a essere trattato con rilievo nel resto dell’opera, quello della «gran tempesta» causata dalla presenza in Italia delle compagnie di ventura, prima fra tutte la Grande compagnia di fra Moriale (III, 99, ibid., p. 437). Dal quarto libro il testo accoglie un numero sempre più rilevante di note dedicate a criticare le scelte dei reggitori di Firenze, formulate talvolta in modo esplicito e con toni assai severi («alla matta ignoranza del vario reggimento della nostra città fu licito di così fare»: IV, 43, ibid., p. 537), e sempre più aspre via via che si procede nel racconto, come nel caso del duro attacco alla riorganizzazione del Comune del 1357 (VIII, 24, ibid., II, pp. 162-166, ripreso in VIII, 32, pp. 177 s.), ma che Villani afferma di stendere con imbarazzo (IV, 73, ibid., I, p. 580). Nel prologo del quinto libro è richiamato un tema su cui Matteo si era già soffermato e sul quale sarebbe tornato a più riprese: i tedeschi non sono capaci di governare l’Impero romano e in particolare le città italiane (V, 36, ibid., p. 657).
Il racconto procede con la consueta carrellata di fatti intrecciati sino a divenire così confuso che l’autore sente il bisogno di ricapitolare (V, 31, ibid., p. 647). Ma Villani non pare cogliere i limiti connessi alla sua esposizione, anzi, dopo molte e molte pagine in cui si fa fatica a seguire il filo del racconto, egli vanta i meriti di questo tipo di scrittura che, a suo parere, non rischia di annoiare il lettore (IX, 82, ibid., II, p. 403; IX, 98, pp. 433 s.). Però l’autore è anche consapevole che talvolta le registrazioni sono incomprensibili a chi non conosce gli antecedenti e, mentre si accinge a spiegare quanto stava avvenendo nelle Fiandre e nel Ducato di Brabante, decide di riproporre alcune notizie ricorrendo alla cronaca di Giovanni (VI, 42, ibid., I, p. 761). Allo stesso modo si sarebbe comportato più avanti, quando nel prologo al settimo libro, dopo avere ammesso che in alcuni casi non basta annotare solo i fatti recenti, riprendendo ancora la cronaca di Giovanni, introduce le molte pagine dedicate alla battaglia di Poitiers, l’avvenimento che ha il maggior risalto tra tutti quelli narrati nella Cronica (VII, 5-22), ripercorrendo un ventennio di storia.
Nello svolgimento dell’opera lo stile di Matteo si affina: lo mostrano alcuni ritratti come, tra i vari, quello dedicato a Ludovico d’Ungheria che il cronista ammira (VI, 63, ibid., p. 788, e soprattutto 67, p. 792), mentre non risparmia critiche agli Angioini di Napoli, indegni eredi del re Roberto (per un elogio del quale vedi VII, 39, ibid., II, p. 59, il severo giudizio su Luigi di Taranto si legge in X, 100, ibid., pp. 578-580). Diventano anche più frequenti le noterelle in cui Villani spiega al lettore il significato dei fatti che sta narrando (VII, 66, ibid., p. 90; VII, 74, p. 100; vedi anche VIII, 37, p. 184). Questa maggiore ambizione culturale si palesa nel prologo del libro ottavo in cui Villani ripropone brevemente l’esempio di alcuni personaggi del passato che trova tutti nel De casibus virorum illustrium di Giovanni Boccaccio, e ricompare ancora più evidente in quello del decimo, dove il cronista cita esplicitamente gli scritti del Certaldese, opere appena entrate in circolazione.
La Cronica è l’unica fonte di cui disponiamo per ricostruire la cultura di Villani. In essa le topiche dichiarazioni di modestia – di particolare rilievo quella proposta in VIII, 81, Cronica..., cit., II, p. 236, dove Villani si dice digiuno di retorica, mentre propone un parallelo tra ars dictaminis e storiografia – trovano posto accanto ad alcuni rimandi alle letture che stava conducendo (lettore di storie egli si ricorda in VIII, 82, ibid., p. 240; dalla Nuova cronica deriva la notizia della morte di papa Stefano IX a Firenze nel 1058: VII, 91, ibid., p. 118) e che lo mostrano a conoscenza della più recente produzione letteraria. È probabilmente un’inserzione dovuta al figlio Filippo il capitolo della Cronica dedicato all’incoronazione poetica di Zanobi da Strada in cui si menziona anche Francesco Petrarca (V, 26, ibid., I, pp. 641 s.). Ma Matteo dichiara di avere letto il De casibus virorum illustrium e il De mulieribus claris di Boccaccio (X, 1, ibid., II, p. 458): sono questi rimandi che rivelano l’idea della storia di Villani. A suo avviso ricordare il passato ha una finalità didattica esplicitamente connessa con il governo della cosa pubblica e, così come è educativo richiamare l’esempio degli antichi Romani, è anche utile segnalare gli errori dei contemporanei (si vedano, tra i tanti, i seguenti esempi: IV, 78, ibid., I, pp. 587-589; V, 74, pp. 697 s.; VIII, 62, ibid., II, p. 211; VIII, 78, pp. 230-234; VIII, 103, pp. 266 s.).
In quest’ottica rientrano alcune pagine esemplari della Cronica, come i molti capitoli dell’opera dedicati a elogiare Cia Ubaldini, moglie di Francesco Ordelaffi, la quale aveva virtù tali da meritare di essere ricordata da uno scrittore come quelli vissuti nell’antichità (VII, 69, ibid., p. 94). L’attenzione a questa nobildonna che, con la corazza indosso, guidava la difesa di Cesena assediata dal legato pontificio, forse dipende anche dal legame dei Villani con la famiglia Ubaldini, di cui tanti membri compaiono nella Cronica, ma può essere pure accostata al gusto per l’episodio di tono novellistico riscontrabile in molti capitoli dell’opera – si veda, per esempio, la bella pagina dedicata ai costumi dei cavalieri ungheresi al seguito del re Ludovico (VI, 54, ibid., I, pp. 773-777) – a proposito dei quali talvolta l’autore specifica che si tratta di fatti irrilevanti di cui nemmeno meriterebbe conservare memoria (IV, 37, ibid., pp. 526 s.; IX, 97, ibid., II, pp. 423-426). Simile atteggiamento è alla base delle numerose registrazioni di eventi mirabili legati a fenomeni naturali, quali apparizioni di comete, sciagure climatiche o nascite mostruose, che forse Matteo ha annotato con tanta cura pensando di seguire la prassi diffusa tra gli storici di Roma antica (IV, 65, ibid., I, p. 566).
Dalla Cronica, oltre a un profondo pessimismo – Villani propone di intitolare la sua opera «il libro della tribulazione e delle nuove» (IX, 38, ibid., II, p. 338) –, emerge anche l’ideologia politica di Matteo, interprete di un ceto cittadino guelfo, radicato da più generazioni a Firenze che guardava con aperta ostilità tanto le famiglie dell’oligarchia urbana che volevano escluderlo dal governo, quanto i ceti inferiori che miravano ad accedere a posizioni di potere sia con movimenti di piazza (criticati anche quando si svolgono a Parigi o nelle Fiandre), sia con brillanti carriere individuali (le cui cadute il cronista registra con soddisfazione: II, 71, ibid., I, pp. 312-314), sia dando vita in qualche caso – come per esempio a Siena (V, 55, ibid., pp. 679 s.) – a forme di reggimento di più larga partecipazione.
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