PERTSCH, Matteo
(Matthäus). – Nacque nel 1769 (o 1770) a Buchhorn, sul lago di Costanza (cittadina rifondata poi nel 1811 da Federico I del Württemberg col nome di Friedrichshafen), da Peter, «probabilmente muratore e scalpellino [...] proveniente da una famiglia (Bärtz-Bertsch-Pertsch) residente sin dal 1452 a Buchhorn» (Bensch, 1976, p. 20). Ignoto è il nome della madre.
Architetto di formazione neoclassica, alla sua opera professionale, svolta per la quasi totalità nella città di Trieste, va ascritto il merito di aver dato origine e di aver contribuito in modo determinante alla conformazione della nuova immagine della città (appunto di chiara impronta neoclassica) nel periodo del suo frenetico sviluppo di primo Ottocento.
Nel 1790 Pertsch si trasferì a Milano per frequentare l’Accademia di Brera sotto la guida di Pietro Taglioretti (Lugano, 1757 - Milano, 1823), poliedrico artista formatosi all’Accademia di belle arti di Parma e divenuto a Milano collaboratore di un altro ticinese, Giocondo Albertolli (Bedano, 1742 - Milano, 1839), anch’egli formatosi a Parma. Quest'ultimo fu a sua volta collaboratore di Giuseppe Piermarini, che dapprima lo aveva coinvolto nei disegni delle fastose decorazioni interne del palazzo reale di Milano (1774), per affidargli poi il compito di strutturare quella che sarebbe diventata la rinomata scuola di ornato all’Accademia di belle arti di Brera, istituita nel 1776 per volontà dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria.
Componente del gruppo dei primi docenti di Brera, «chiamato a insegnar l’ornato, tratto dagli antichi ma anche dai Cinquecentisti [...] l’Albertolli imperò in quel genere diffondendo, con le tavole dei suoi Principii, il “gusto” come si diceva allora in assoluto, il gusto cioè neo classico che pareva seppellire per sempre le “licenziosità” del barocco, le sue “deturpazioni”; e le sue tavole furono tenute in conto di Vangelo infallibile. Il Piermarini sovraccarico di lavori disertava spesso le lezioni di architettura superiore a Brera, e lo suppliva, coll’altro luganese Pietro Taglioretti, l’amico Albertolli che trovava anche il modo di progettar in proprio». Questa citazione da Giuseppe Martinola («Studiò a Brera», in Scuola ticinese, s. 3, XI (1982), 102, pp. 54-56) aiuta forse a chiarire le liaisons tra Pertsch, l’Accademia di Brera e Piermarini, ma soprattutto la sua formazione neoclassica, di chiara impronta franco-milanese, sotto la guida diretta di Taglioretti e Albertolli e, per contiguità, di Piermarini.
Le recenti indagini sui trascorsi di Pertsch all’Accademia di Brera non hanno dato risposte che attestino inequivocabilmente la sua frequentazione, in veste di studente prima e di aspirante docente poi; aspirazione, questa, interrotta e frustrata dall’occupazione di Milano da parte dei francesi (1796), con Pertsch (cui gli occupanti erano invisi) costretto a rifugiarsi a Bergamo. Gli unici documenti utili risultano in proposito un’informativa della polizia di Trieste (1798), che lo definisce «supplente di professori a Milano», e una successiva lettera di Pertsch (1821) alla stessa Accademia in cui si autodefinisce «avventuroso alunno quale io mi sono dell’Architettonica Italiana per gli studi da me fattivi in gioventù nella Vostra Accademia di Brera» (Barillari, 2009, pp. 349 s.).
Che Pertsch fosse allievo di Pietro Taglioretti lo attestano i verbali dell’Accademia di belle arti di Parma che, attribuendogli nel 1794 il primo premio del concorso annuale di architettura, lo definiscono «scolaro del Sig. Taglioretti»; tuttavia anche questi non figura ufficialmente tra i componenti del corpo docente di Brera: con tutta probabilità ne fecero parte entrambi ma solo come collaboratori volontari, aspiranti al ruolo.
L’aggiudicazione di quel primo premio di architettura, nel concorso annuale dell’Accademia di Parma, sul tema del progetto della «Fabbrica di una Zecca reale», costituì il viatico professionale per i successivi e fortunati sviluppi della sua carriera.
Nel 1797 fu invitato a trasferirsi a Trieste da Demetrio Carciotti, intraprendente commerciante di origine greca che, avendo fatto fortuna nell’emporio triestino, intendeva erigere un edificio rappresentativo, per forme e dimensioni, del suo successo imprenditoriale e sociale. Nonostante qualche condizionamento da parte del committente, Pertsch riuscì a realizzare, sul fronte mare della città (scelto come lato per il prospetto principale), il suo capodopera architettonico, paradigmatico per la successiva caratterizzazione formale delle nuove espansioni ottocentesche. Gli esiti compositivi di questo primo ed eccezionale incarico, inusitati nell’ambiente triestino e immediatamente percepiti come un capolavoro, suscitarono il plauso della città che intravide nel suo autore l’artefice capace di dare adeguata veste architettonica alle aspirazioni della borghesia locale, che iniziava a strutturare le sue fortune commerciali e imprenditoriali nella realtà dell’emporio triestino in rapida espansione.
L’originalità della soluzione formale e decorativa di questo prospetto che ripropone la tripartizione (verticale e orizzontale) tipica del linguaggio neoclassico, è tutta addensata nell’avancorpo, staccato con evidenza dalla retrostante (e leggermente più estesa) parte centrale della tripartizione orizzontale e risolto con l’ordine gigante esastilo a colonne ioniche, snelle e scanalate, nettamente distinte dalla muratura, a sottolinearne la funzione portante, in ossequio ai dettami dei primi fautori e teorici del neoclassico: Claude Perrault (1684) e Jacques-François Blondel (1771). Pur nel rigore compositivo, l’avancorpo del palazzo Carciotti, grazie all’equilibrio dei rapporti proporzionali degli elementi, alle profonde nicchie scavate nello zoccolo al pianoterra, ai trafori nel fregio (mascherature delle retrostanti aperture del terzo piano), alla soprastante balaustra di sommità (sormontata dalle sei sculture allegoriche di Antonio Bosa) e alla sua uniformità cromatica (della pietra d’Istria), appare arioso e leggiadro, quasi proteso verso l’orizzonte del golfo. L’alto tamburo e la cupola, che sovrastano (assialmente e in secondo piano) il corpo dell’edificio, rendono poi esplicite all’esterno le spazialità interne retrostanti al prospetto, quelle degli stessi volumi di sommità e quelle sottostanti: l’ampio salone rotondo al piano nobile e il vano dell’ingresso principale al pianterreno. Una soluzione compositiva originale e innovativa, nelle forme, nei materiali e nell’orientamento: non verso l’ambito urbano o sulla riva del canale che lo fiancheggia, ma verso la riva del mare, distante allora solo 15 m circa dall’edificio.
Ancor prima della conclusione dei lavori di costruzione del palazzo Carciotti (1805) – un intero isolato (m 40x100) sulla prima fila della scacchiera del borgo Teresiano – nel marzo del 1799 Pertsch ebbe l’incarico, dal governo austriaco della città, di sostituire Gianantonio Selva (l’architetto del teatro La Fenice di Venezia), al quale era stato affidato il progetto per il teatro Nuovo di Trieste (l’odierno teatro Verdi), per le carenze progettuali di questo, individuate dalla direzione delle Fabbriche «nell’aspetto esterno dell’edificio e nelle zone propriamente destinate al teatro», e per il rifiuto del suo autore ad apportarvi modifiche (Ugolini, 1990, p. 158). Dovendo intervenire sull’opera già in fase di costruzione, e con indicazioni distributive interne ben definite dal governo centrale di Vienna, grazie ad alcune modifiche (vestibolo e sala da ballo), ispirandosi in parte al teatro alla Scala di Piermarini e con l’adozione di un avancorpo con quattro semicolonne ioniche, estese poi in forma di lesene a nobilitare i risvolti laterali del fronte principale e tutto quello postico, sul fronte mare, trascurato invece da Selva, Pertsch riuscì a cogliere un secondo successo su un edificio pubblico, unanimemente apprezzato dai contemporanei, negli esiti formali e funzionali.
Grazie a questi primi due interventi, si può affermare che Pertsch non ebbe quasi più competitori a Trieste, ciononostante non riuscì ad aggiudicarsi un terzo importante incarico in cui era stato inizialmente coinvolto: la nuova sede per il palazzo della «Borsa, ossia Loggia Mercantile di Trieste», per il quale, avendo predisposto il progetto preliminare utile ai fini dell’autorizzazione del governo centrale, forse a causa dei due impegni già in essere, non si peritò di modificare l’elaborato progettuale adeguandolo alle dimensioni del lotto a disposizione, ampliate con l’approvazione. Su indicazione dell’Accademia di Parma (coinvolta nel giudizio finale) venne così scelto il progetto di Antonio Mollari, architetto di Macerata, che ne aveva invece tenuto ben conto, e a nulla valsero le sue rimostranze per la disomogeneità dei due progetti.
Ebbe modo, nel 1803, di rifarsi dello smacco con il suo secondo capodopera, «la Casa del Consigliere Magistratuale Domenico Pancera, in Contrada del fontanone» (Bensch, p. 33), all’incrocio tra le odierne via Felice Venezian e via della Rotonda, sul colle di S. Vito: il miglior esito della genialità e della modernità compositiva di Pertsch che riuscì a trasformare l’infelice figura planimetrica del lotto a disposizione (un trapezio scaleno, quasi un cuneo) nella soluzione architettonica qualificante dell’edificio.
Il suo fronte principale arcuato, ricavato nell’angolo più angusto (poco più di 45°) della costruzione, oltre a esplicitare il gran salone rotondo retrostante, per quasi un secolo divenne il modello compositivo per la valorizzazione formale del punto di raccordo tra le facciate degli edifici urbani, quando i lati su cui queste insistono non siano tra loro ortogonali e siano anche privi, assialmente, di adeguato spazio percettivo anteriore.
Questo primo decennio triestino (nel quale svolse anche l’attività di estimatore di stabili e di pubblico perito delle costruzioni) si chiuse con il progetto per la casa Fontana in via Roma, un complesso pregevole (come del resto tutte le sue opere), destinato ad abitazione e albergo, edificato poi durante le tre successive occupazioni di Trieste da parte dei francesi, con il Pertsch autoesiliatosi a Graz (1808-18) con tutta la famiglia, da lui costituita nel 1802 sposando Maddalena Vogel, dalla quale ebbe sette figli, tre femmine e quattro maschi (Bensch, p. 49). Sempre Wolfgang Bensch ci informa che anche dopo il ritorno a Trieste Pertsch mantenne «i contatti con le autorità e i privati [...] della Stiria e della Carniola», dove ebbe modo di operare durante l’esilio «guadagnando buona fama».
L’ultimo periodo triestino lo vide nuovamente attivo come progettista (con numerosi interventi pubblici e privati), come insegnante alla cattedra di architettura civile presso la scuola reale di nautica, e concorrere inoltre a diversi bandi per la realizzazione di opere pubbliche di significativa valenza urbana: la facciata della chiesa di S. Nicolò dei Greci (1819); la «Lanterna di Trieste» (che sostituì il precedente primo faro della città), per la quale dovette predisporre diverse soluzioni progettuali (1822-31) per ottenere l’approvazione dell’architetto Pietro Nobile (consigliere aulico edile del governo di Vienna); la sistemazione (ingresso e casa del guardiano) del cimitero cattolico di S. Anna (1822), dove anch’egli è sepolto; la chiesa di S. Antonio Nuovo (1823), concorso vinto poi da Pietro Nobile; oltre a diversi e successivi interventi per la deputazione di Borsa (1822-31).
A questo secondo periodo risale anche il progetto (1824) di un intervento privato che costituisce il suo terzo capodopera architettonico: la casa Czeicke (detta anche Steiner) di corso Italia 4, in cui Pertsch, adottato l’ordine gigante corinzio per le quattro paraste scanalate dell’avancorpo (estese a ben tre piani in altezza), al fine di ridurre la sporgenza verso il marciapiede dello zoccolo dell’avancorpo, inserì coppie di mensole sporgenti sotto alla balconata del primo piano come elementi portanti delle paraste soprastanti. Una soluzione che aveva già anticipato (1821) nella casa Mauroner-Stock di via Torino, ma con le paraste estese in altezza a due soli piani.
Nella casa Czeicke alle novità formali (ordine gigante corinzio, esteso a tre piani) si accompagnano anche l’originalità e la maestria della soluzione strutturale adottata: consapevole che l’aumentato numero dei piani (ben sette fuori terra previsti) avrebbe comportato un considerevole aggravio di carico sulle murature interne e sul terreno di fondazione, nella tessitura strutturale della pianta Pertsch sostituì l’usuale muro di spina singolo con una coppia di murature parallele (in entrambe le direzioni, larghezza e profondità del lotto), conferendo così una maggior articolazione e capacità portante all’organismo strutturale interno dell’edificio, alleggerendo al contempo il carico unitario gravante sul terreno insidioso delle ex saline bonificate. Per compiutezza del messaggio progettuale innovativo, nella sezione trasversale dell’edificio disegnò con precisione anche il sistema costruttivo delle fondazioni, impostate su un doppio impalcato di travi e tavolame di legno, di spessore consistente, cui è demandata la funzione di trasferimento dei carichi statici al terreno sottostante.
In quegli stessi anni si dedicò anche alla traduzione del Saggio sulle proprietà e sugli effetti delle volte dell’ingegnere civile Carl Friedrich Meerwein (Trieste 1825), con dedica al conte Gabriele di Porcia (Bensch, p. 49).
In virtù delle sue capacità creative, oltre al modello guida (il palazzo Carciotti), con cui «influenzò la successione di scelte formali nel processo di riedificazione e di espansione del Borgo Teresiano, fu l’intera sua produzione professionale, unita a quella di altri architetti e capomastri, da lui formatisi, ad improntare il gusto e il clima di scuola di architettura nel quale l’immagine urbana di Trieste si caratterizzò in tutto l’800» (Coppo, 1990, p. 145).
Stimato e apprezzato in vita, venne accolto quale membro d’onore (o consigliere corrispondente) in diverse accademie dell’Italia preunitaria: l’Accademia di S. Luca a Roma e quella di belle arti di Firenze (1825), Venezia (1826), Parma, Bologna e Napoli (1827). Continuò a essere riconosciuto e onorato anche dopo la morte, che lo colse a Trieste l’11 aprile 1834, attraverso le citazioni dei suoi stilemi compositivi, presenti nei progetti dei suoi epigoni dell’Ottocento e ravvisabili anche nelle interpretazioni postmoderne della seconda metà del Novecento.
Fonti e Bibl.: G. Righetti, Cenni storici, biografici e critici degli artisti ed ingegneri di Trieste..., Trieste 1865; W. Bensch, L’architetto M. P. a Trieste. Nuove considerazioni sulla sua vita e sulla sua opera, in L’Archeografo Triestino, s. 4, XXXVI (1976), pp. 19-50; D. Coppo, Individuazione di strutturazioni edilizie e modelli formali ricorrenti nello sviluppo ottocentesco del Borgo Teresiano, in Neoclassico, la ragione, la memoria, una città: Trieste, a cura di F. Caputo - R. Masiero, Venezia 1990, pp. 140-147; P. Ugolini, La sala da ballo del Teatro «G. Verdi» di Trieste, ibid., pp. 158-162; D. Barillari, Neoclassico in riva al mare: storia e fortuna di palazzo Carciotti a Trieste, in Palazzo Carciotti e il neoclassicismo a Trieste. Atti della giornata di studio... Trieste 2007, a cura di M. De Grassi, in AFAT. Arte in Friuli Arte a Trieste, 2009, n. 28, pp. 347- 362; G. Ceiner, Demetrio Carciotti, Matteo Pertsch e l’Accademia di Parma, ibid., pp. 335-346.