PEREGRINI, Matteo
PEREGRINI (Pellegrini), Matteo. – Nacque a Liano, frazione di Castel San Pietro sull’Appennino bolognese, probabilmente intorno al 1595.
I biografi antichi, infatti, non danno informazioni sull’anno di nascita, che può essere desunto dalla prefazione de I fonti dell’ingegno ridotti ad arte (1650), in cui l’autore afferma di essere giunto al «quinto anno sopra il cinquentesimo». Poco ci è giunto anche sulla famiglia, di certo non nobile: il padre Giovanni proveniva da Sassuno nei pressi di Monterenzio (Bo); ebbe un fratello, Lorenzo, che fu fra i primi gazzettieri bolognesi, autore di pubblici avvisi usciti dal 1642 a Bologna.
Laureatosi in filosofia presso lo Studio bolognese il 3 ottobre 1620 con una tesi dal titolo De contemplativae et activae vitae regimine, il 15 dicembre dello stesso anno, con una lettera di raccomandazione di Antonio Barberini (fratello del futuro papa Urbano VIII), ottenne la cattedra di logica nello Studio bolognese e la conservò per i successivi tre anni. Ricevette gli ordini sacri (non è chiaro in quale anno, ma, nominato primo segretario del Senato bolognese, le cui funzioni notarili erano vietate ai religiosi, dovette attendere la dispensa papale per accettare l’incarico) e si addottorò in teologia il 17 settembre 1622. Nel 1623 passò all’insegnamento di filosofia naturale. Nel frontespizio di alcune sue opere a stampa dal 1634 si fregia anche del titolo di dottore in ustriusque iure, sul cui conseguimento non si hanno notizie.
Divenne presto parte attiva della vivace vita intellettuale bolognese, entrando a far parte dell’Accademia dei Gelati e di quella della Notte con il nome di Errante. Di quest’ultima, Peregrini contribuì alla rinascita, ne riformulò le leggi e ne fu l’animatore. Venne così a contatto con i più insigni esponenti della cultura bolognese: Claudio Achillini, Carlo Antonio e Giovan Battista Manzini, Virgilio Malvezzi. A questi anni risalgono alcuni esercizi poetici sia latini sia volgari, pubblicati nelle raccolte degli Accademici della Notte, un Idillio epitalamico, composto in occasione delle nozze Paleotti-Malaspina ed edito a Bologna nel 1621, e una dissertazione, Perché si ami il bello, a commento di due versi di Della Casa, uscita anch’essa tra gli scritti degli Accademici della Notte. Nel 1624 pubblicò a Bologna Che al savio è convenevole il corteggiare, riapparso l’anno successivo con il titolo Il savio in corte.
L’opera, divisa in quattro libri, rinviando a una lunga tradizione che risale al Cortegiano di Castiglione, origina da una discussione sorta nell’Accademia della Notte sull’allora molto dibattuta questione del ruolo dell’intellettuale in corte. Anzitutto vengono esposte le ragioni per cui il savio è dissuaso dal servire in corte (rischio di perdere il proprio arbitrio, distacco da sapienza e intelletto, perdita di tempo), che vengono ribaltate nel corso dell’opera, dimostrando la necessità di assoggettare le genti al sapere. Il principe può condurre una giusta vita solo vivendo con i savi e con veri amici, cui concede libertà di dire, mentre il savio, da «convenevole amico» del principe, può assolvere a una funzione conveniente, degna degli «studiosi della sapienza». Sostenuto da un forte interesse per il vivere politico e per la virtù legata alla vita civile, Peregrini, opponendosi a una lunga tradizione della politica come ragion di Stato, sostiene che il governo si impernia sulla virtù. Egli risponde così positivamente al dibattito polemico sul ruolo e la condizione del cortigiano che interessò la cultura del primo Seicento, presentando un cortegiano con le qualità del filosofo stoico, il cui sapere è rivolto a fini pratici, che esercita una vita attiva, utile più di vuote parole e vana erudizione. Il savio è perciò portatore di verità, estraneo alla pratica simulatrice e dissimulatrice su cui il noto trattato di Torquato Accetto fondò in quegli anni la funzione del segretario. Custode e protettore del bene pubblico, il savio delineato da Peregrini è erede del cortegiano di Castiglione, della sua grazia e convenevolezza per la corte.
Nel 1625 la famiglia Barberini chiamò Peregrini al suo servizio, consentendogli di seguirlo nel suo intinerare tra Roma, Viterbo, Fermo, Palestrina. A Roma entrò in contatto con l’Accademia dei Desiosi, guidata da Maurizio di Savoia, dove lesse il discorso Che il dir male non è del tutto male, in cui si sostiene che, contrariamente all’uso di punire le critiche, occorre vederne l’aspetto positivo. Le satire sono sempre servite per migliorare, quindi i potenti dovrebbero premiare chi li biasima. Chi vede il vizio e non lo condanna, conclude Peregrini, lo fomenta e addormenta gli stimoli della gloria.
In questo periodo si approfondirono ancora le sue riflessioni sul tema dei rapporti tra il letterato e la corte, esposte nel Demetrio accusato e Della pratica comune a’ prencipi e servidori loro. Il primo è un discorso carnevalesco presentato all’Accademia romana degli Umoristi nel 1629 e rimasto manoscritto (Biblioteca apostolica Vaticana, Barb. lat., 3867, cc. 68r-75v), in cui l’antico retore, accusato di non aver osservato pratiche dionisiache, è difeso per rispetto del decoro, che impone coerenza con il ruolo di sacerdote della sapienza.
Nel Della pratica comune a’ principi e servidori loro (Viterbo 1634) si discutono le difficoltà che incontra chi serve in corte, le qualità di cui deve tener conto il principe nello scegliere il proprio servitore e questi nello scegliere il suo principe. Il primo dovrà considerare le virtù d’animo (franchezza nel tollerare le scelte del principe, disposizione alla soggezione e all’obbedienza, bontà d’animo e fedeltà, abilità negli affari) e di corpo (vaghezza nell’aspetto, splendore dei natali, essere facoltoso); il secondo dovrà badare all’abbondanza di beni del principe, alla liberalità nel concederli e alle facoltà di operare a proprio genio. Questione ampiamente considerata è la libertà nel parlare, che deve evitare sia l’adulazione sia la maldicenza. Innocenza, umanità e prudenza sono indicati come mezzi opportuni per ottenere la grazia del principe.
La visione etica del servire in corte proposta da Peregrini mosse a Bologna un vivace dibattito che si esplicò anche in uno scambio poetico che coinvolse Girolamo Preti. Che il potere si potesse congiungere con la virtù venne contestato da Giovan Battista Manzini (Il servire negato al savio, Bologna 1626), il quale negò ogni carattere virtuoso al servizio di corte, sostenendo che meglio fosse per il savio isolarsi e avere una funzione civile semplicemente come modello di vita saggia. Il dibattito ebbe ampia eco anche a Roma, coinvolgendo nomi illustri come Agostino Mascardi, Malvezzi, Sforza Pallavicino. Peregrini intervenne ancora con la Difesa del savio in corte (Viterbo 1634), in cui ribadì il proprio ottimistico giudizio sulla corte e sul servizio del saggio, tenendo però conto delle obiezioni di Manzini e ribadendo infine la possibilità di un buon governo, retto da un principe giusto affiancato da un’aristocrazia virtuosa, dedita all’arte del buon governo, coerente e con principi cristiani.
La Difesa del savio in corte è un’opera in forma di dialogo, poiché risponde sia alle obiezioni di Manzini (primo e secondo libro) sia a questioni postegli da un amico (Ruggiero Pesci, poeta, accademico della Notte, cui risponde nel terzo libro). Con un procedere sintetico, risolutivo, rapido, si ribadisce che il savio non opera per proprio interesse (chi così opera non è savio), ma collabora con il potente per il bene pubblico. Si afferma che il governo è dono divino e il principe è «luogotenente della Deità in terra». Particolare attenzione ha il tema della «soggezione», definita attitudine necessaria all’umanità, anche con l’inserimento di un discorso, scritto per far seguito a un intervento sul «dominio» tenuto da Tommaso Roccabella in una non specificata Accademia romana. Si dimostra, contro l’opinione universale, che la soggezione regia e sociale è buona e necessaria, perché cardine della società. Solo la servitù alla tirannia è dannosa.
Con tale difesa, che amplia di molto gli orizzonti concettuali entro cui si muoveva il dibattito a Roma, Peregrini ribadisce che il governo è consono al savio così come il sapiente è adatto al governo. Servire il bene pubblico è il solo obiettivo del sapiente che trova legittimazione della sua attività nell’impegno sociale e civile, così come il monarca, pur concentrando nelle sue mani tutto il potere, si avvale di consiglieri capaci di operare rettamente a suo nome. In questo modo si realizza l’operato di un principe cristiano savio, che coincide con quello di un ministro che voglia un margine di libertà dal potere, fidandosi della propria saggezza.
Nonostante l’indubbio successo romano e la benevolenza dei Barberini, Peregrini nel 1637 lasciò Roma per Genova, dove riprese forse l’insegnamento di filosofia morale. Nella sua prefazione a I fonti dell’ingegno sostiene di essere andato alla ricerca della tranquillità necessaria all’attività letteraria, per essere «sazio delle fatiche pubbliche». Di fatto fu chiamato a Genova come consultore del Senato della Repubblica. Divenuto molto addentro alle questioni di Stato, compose ancora un volume sul tema: Politica massima cioè declamationi politiche (Venezia 1640).
Si tratta di 17 declamazioni espresse con molto pathos e rivolte contro le forme di «malizia» umana causate dall’autorità politica male ordinata. La politica delineata è definita «massima» non per la pretesa di essere superiore, ma perché, come Aristotele e Platone hanno affermato e come Dio ha indicato, l’operazione politica è finalizzata a un sommo scopo, il bene dei governati. Per questo il principe deve provvedersi di persone che non impediscano i meritevoli e che non siano inette, specie nella giustizia. Una certa amarezza emerge da questa trattazione, che vede la negatività della corte come conseguenza di un male antropologico. L’origine divina del rapporto tra popolo e sovrano impone ai sudditi soggezione e ai principi doveri. Infatti il buon governo si esercita anche con una scelta oculata dei ministri e con il controllo sul loro operato, di cui il principe risponde a Dio.
A Genova Peregrini fu pure a servizio dei Doria, come appare dalla dedicatoria del trattato Delle acutezze, e frequentò l’Accademia degli Addormentati entrando in rapporto con i letterati genovesi più insigni del momento, Anton Giulio Brignole Sale, Giovan Vincenzo Imperiale, oltre a Mascardi, e con il dibattito che ivi si conduceva sullo stile arguto, di cui sono frutto i trattati più propriamente retorici. Da Genova vengono le lettere conservate all’Archiginnasio di Bologna (la più cospicua documentazione autografa di Peregrini), che trattano di questioni politiche e storiche, oltre che familiari. Nel 1647 tenne l’elogio funebre di Paolo Spinola presso l’Accademia degli Addormentati: L’idea del giovane di repubblica. Secondo Giovanni Fantuzzi commentò antifone e salmi dell’uffico della Beata Vergine, ma non se ne rinviene traccia. A Genova pubblicò inoltre, nel 1639, il trattato Delle acutezze, che altrimenti spiriti, vivezze, e concetti volgarmente si appellano, riedito a distanza di pochi mesi nella stessa città e a Bologna.
Qui Peregrini si oppone allo stile ‘metaforuto’ e concettista che con spregio giudica «cosa molto leggiera», quando non materia «da buffoni»; tra ammirazione per lo sfoggio d’ingegno che «brilla» nelle acutezze e disapprovazione per «l’indiscreta affettazione di questi abbellimenti» che «paiono stelle, e sono lucciole», attua pertanto una disamina attenta di ciò che definisce «corruttela della facondia prosaica». Partendo dalle scarse considerazioni espresse dai retori antichi in materia di sententiae e di facetiae, Peregrini procede alla definizione dell’acutezza, mirando alla sua essenza, che individua nel particolare «legamento entimematico di più cose in un detto per guisa che cadano l’una tanto raramente in concio dell’altra che l’ingegno del dicitore diventi oggetto d’ammirazione onde l’ascoltante resti molto gagliardamente dilettato» (p. 106). Rivelando rapporti e somiglianze, l’acutezza genera un insegnamento intuitivo, immediato, ingegnoso: è «grave» se molto insegna e commuove, «leggiadra» se molto diletta. Ne sono classificate le forme, divise in «seriose, giuocose, graziose, ridicolose, miste» e vengono proposti le fonti e i modi da cui originarle, che consistono quasi tutti in un atto gnoseologico, vera causa del diletto. Infine, ne specifica i vizi e suggerisce le cautele da seguire nel loro uso.
Per queste sue riserve, che rispettano la convenienza e il decoro, Peregrini è stato considerato fra i teorici del Barocco moderato (Franco Croce), che non rifiuta la ricerca del nuovo e del meraviglioso, ma lo inscrive in un equilibrio che evita gli eccessi. Sorprende questo interesse per lo stile concettoso, poiché è lontano da quello praticato nei trattati politici, ma Peregrini dedicò all’argomento ancora I fonti dell’ingegno ridotti ad arte (Bologna 1650). L’opera consiste in una topica o strumento per imparare facilmente ad argomentare con spirito, mettendo a disposizione concetti e materia opportuna in modo che l’ingegno non sia mai colto alle strette per non sapere che dire o pensare.
Sul tema programmò un ulteriore scritto, di cui parla ripetutamente nel Delle acutezze, assegnandogli il titolo Trattato delle moderne corruttele dell’eloquenza. Dai numerosi rimandi si deduce che l’opera dovesse essere avviata, se non già in stato avanzato, malgrado non ne siano state per ora trovate tracce.
Fatto ritorno a Bologna nel 1649, ricoprì l’incarico di primo segretario del Senato bolognese. L’ottimo servizio prestato alla Repubblica genovese aveva infatti messo in luce le sue doti e gli consentì di superare Manzini nel pubblico concorso per il ruolo di segretario. Riprese anche l’insegnamento accademico come professore di filosofia naturale, ma nel 1650, invitato tramite il cardinale Pallavicino a Roma per occupare il posto di vicebibliotecario della Vaticana, lasciò Bologna.
Peregrini raggiunse l’apice della sua carriera come primo custode della Biblioteca apostolica Vaticana nel 1651, ma non poté conservare a lungo la carica.
Morì, infatti, a Roma il 10 dicembre 1652.
Oltre al successo italiano ebbe in Baltasar Gracián un prosecutore, che si appropriò di alcune sue teorie sul parlare arguto. Nel secolo successivo Giambattista Vico nelle Institutiones oratoriae lo prese in considerazione discutendo dell’acuto dicto in rapporto alla verità, e ancora Ludovico Antonio Muratori nel Della perfetta poesia italiana considerò il Trattato delle acuteze in opposizione alla moda dei «pensieri ingegnosi che non han per fondamento il vero». Poi cadde in oblio. Soltanto con l’interesse di Benedetto Croce per l’età barocca rinacque l’attenzione per le opere retoriche. Ancora più in ombra è stata la produzione politica di Peregrini, che solo da ultimo si è cominciato a rivalutare.
Opere. Che al savio è convenevole il corteggiare (Bologna 1624); Il savio in corte (Bologna 1624); Che il dir male non è del tutto male, in Saggi accademici dati in Roma nell’Accademia del cardinal di Savoia (Venezia 1630), pp. 144-154; Della pratica comune a’ prencipi e servidori loro (Viterbo 1634); Difesa del savio in corte (Viterbo 1634); Delle acutezze, che altrimenti spiriti, vivezze, e concetti volgarmente si appellano (Genova 1639); Politica massima cioè declamationi politiche (Genova 1640); I fonti dell’ingegno ridotti ad arte (Bologna 1650). Edizioni moderne: Scritti poetici, in Molina (1992), pp. 587-599; Delle acutezze, a cura di E. Ardissino, Torino 1997; Difesa del savio in corte, a cura di G.L. Betti, Lecce 2009.
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