NIGETTI, Matteo
– Figlio di Dionigi, affermato ‘maestro di legname’, nacque a Firenze il 7 gennaio 1570 (Firenze, Arch. dell’Opera di S. Maria del Fiore, Libro dei nati maschi dal 1561 al 1571, c. 60v).
Filippo Baldinucci (1681-1728), che ne ricostruisce la vita e carriera artistica in base alle informazioni tratte da un suo memoriale autobiografico, gli attribuisce una formazione giovanile come scultore in legno che si sarebbe espressa materialmente solo nella realizzazione di modelli di architettura e in sporadici interventi di restauro ma che sarebbe stata alla base della sua straordinaria sensibilità per l’ornato plastico. Ancora secondo Baldinucci, lavorava già nel 1587 nella bottega di Bernardo Buontalenti intorno al progetto per la cappella funebre dei Medici in S. Lorenzo. Le sue competenze iniziali saranno state quelle ereditarie di «legnaiolo». È questa la qualifica con cui compare a fianco di Buontalenti (e del padre Dionigi) nel cantiere del convento e della chiesa teatina dei Ss. Michele e Gaetano, avviato sotto la direzione di Bernardo sino dal 1593. Il titolo di «legnaiolo» gli rimase cucito addosso ancora in alcuni pagamenti degli anni successivi (1594 e 1595) «per lavori fatti alla muraglia», per prestazioni cioè più impegnative e attinenti all’architettura (Chini, 1984, p. 270). Contemporaneamente Buontalenti lo volle con sé anche nel cantiere di palazzo Strozzi «non finito» da cui, secondo Baldinucci, si allontanarono insieme nel 1600, per «disgusti» con il committente. Nel 1602 Nigetti era attivo, con compiti di carattere organizzativo e con una provvigione di 16 scudi mensili, nell’opificio allestito da Ferdinando I nella Galleria degli Uffizi per la raccolta e la preparazione dei materiali pregiati destinati alla cappella funebre di S. Lorenzo. La provvigione fu rinnovata per tre anni consecutivi finché nel 1606 Nigetti venne ammesso a titolo definitivo tra i dipendenti granducali (Archivio di Stato di Firenze, Guardaroba, 254, c. 75v). Tra il 1600 e il 1602 si consumò dunque la rottura con Buontalenti e il passaggio al servizio della Corte in veste di collaboratore di don Giovanni de’ Medici, figlio naturale di Cosimo I, complessa personalità di architetto, letterato e soldato: appena in tempo per offrire un contributo decisivo al progetto e al modello ligneo della cappella laurenziana, allestito in tutta fretta da don Giovanni – tanto da essere presentato «mal terminato e mal colorito» (lettera di Nigetti a Giovanni de’ Medici, 7 dicenbre 1602, in Moreni, 1813, pp. 313) – e contrapposto a quello buontalentiano nel confronto orchestrato da Ferdinando I nel settembre 1602 . Prevalse, per decisione unanime degli artisti invitati a pronunciarsi, il progetto congiunto di Nigetti e don Giovanni, che recuperava uno spunto di Buontalenti lasciato successivamente cadere, una sorta di croce dai bracci poligonali esemplata sulla tribuna di S. Maria del Fiore, intersecandolo con il tema michelangiolesco del quadrato per angolo.
Il risultato è un impianto planimetrico di grande densità che oscilla tra la croce e l’ottagono o meglio tra la croce e due quadrati ruotati di 45 gradi. Ma l’ambiguità resta tutta chiusa, nella sua cerebrale freddezza, entro la geometria cristallina dell’impianto e non turba la continuità e l’evidenza delle superfici interne su cui si dispiega, come su un unico ininterrotto piano di appoggio, il sontuoso rivestimento di pietre pregiate che fin da prima della costruzione aveva ipotecato e monopolizzato il significato e l’identità dell’edificio e anche in seguito avrebbe continuato a prevaricare e oscurare i valori architettonici della fabbrica.
Nigetti continuò a dirigere il cantiere prima in parallelo con don Giovanni e poi da solo, dopo la scomparsa del principe nel 1626. L’équipe di collaboratori e allievi (Bastiano Lombardi, Alessandro di Neri Malevisti, Orazio Mochi e i figli Stefano e Francesco) selezionata in questa occasione lo accompagnò in tutte le opere successive.
Impossibile tracciare un confine netto tra il contributo di don Giovanni e quello di Nigetti. Se il primo potrebbe aver avuto parte decisiva nella invenzione dell’impianto planimetrico, in base alle opere successive sembra di poter attribuire a Matteo l’aspetto più inquietante della fabbrica, cioè la ciclopica massa muraria, ribadita da una corazza di piastre marmoree che fasciano i piloni e le cupole delle tribune ed esibita senza alcuna mediazione da parte degli elementi dell’ordine, nella quasi totale assenza di aggettivazione decorativa e di commenti celebrativi. Anche l’araldica medicea è dissimulata nelle quattro borchie semisferiche agli angoli delle finestre del piano terra, mentre la quinta con i gigli è nascosta nel risvolto della chiave d’arco. La smisurata, nuda massa muraria è articolata da arretramenti e profonde cavità che si alternano a ciclopici sodi di contraffortamento evocando la figura di una fortezza o di una cittadella bastionata (e qui potrebbe riemergere l’imagerie militaresca di don Giovanni) che racchiude e protegge il preziosissimo tesoro dei corpi dei principi. Una corona di volute avrebbe dovuto raccordare il piedritto alla cupola – una replica puntuale di quella di S. Maria del Fiore (sezione acuta, doppio guscio, mattoni apparecchiati a spina di pesce) – coinvolgendola in una immagine unitaria di potenza muscolare. È inoltre fuori dubbio l’autografia stilistica di Nigetti sull’insieme dell’opera. Il suo metodo di lavoro prevedeva infatti un controllo capillare di tutti gli aspetti della fabbrica attraverso il ricorso sistematico al disegno. Una parte della massa imponente di materiale grafico prodotto, per lo più bellissimi disegni di presentazione, è riunita in un volume appartenente al fondo Palatino della Biblioteca nazionale di Firenze (Pal., 3.B.1.7). Tra di essi si distingue la minuziosa sezione del progetto definitivo (c. 36) poi trasposta nell’incisione che apre la raccolta (c. 1). Numerosi anche i disegni acquerellati che prefigurano porzioni consistenti del rivestimento lapideo (cc. 42-62). Un settore questo di specifica competenza di Nigetti. Sappiamo che fu sua la scelta di adottare una griglia di fasce ortogonali di pietra di paragone entro cui le lastre di rivestimento trovarono posto senza ulteriori elaborazioni, così come erano state via via tagliate e immagazzinate. Il reticolo a maglie variabili si estendeva ovunque, sia alle pareti sia alle membrature architettoniche, con un effetto di frantumazione poi criticato da Buontalenti come «cosa tedesca» (lettera di Nigetti a Giovanni de’ Medici, 7 giugno 1603, in Moreni, 1813, p. 322) ma che di fatto favorisce l’esposizione sistematica del materiale.
Nigetti mantenne l’ incarico di «architetto della Real Cappella» sino alla morte. Dal 1642 alla provvisione di dipendente granducale fu aggiunta una prebenda di quattro scudi come riconoscimento «della lunga, fedele e onorata servitù» prestata alla guida dei lavori del mausoleo laurenziano (Ibid., Fabbriche Medicee, 141, ins.1,19).
Il ruolo di primo piano nel più importante cantiere di tutta la storia della committenza medicea favorì la sua posizione anche nella parallela vicenda del complesso teatino dei Ss. Michele e Gaetano, su cui fin dall’inizio fu forte il sostegno della Corte e in particolare di Cristina di Lorena.
Proprio grazie all’appoggio della duchessa, Nigetti ottenne ufficialmente la direzione del cantiere della chiesa in anni (1616 circa) in cui si rinnovava, nella persona del cardinale Carlo, l’impegno finanziario dei Medici. Il progetto, di cui resta una versione non autografa (Parigi, Louvre, Cabinet des dessins, n. 1373), pur tenendo conto del lascito di un precedente proposta buontalentiana, fissata in un modello ligneo eseguito da Dionigi Nigetti già nel 1597, e delle correzioni avanzate dall’architetto dell’ordine Anselmo Cangiano (aggiunta del transetto), conteneva soluzioni di grande originalità, ancora apprezzabili nella parte sicuramente eseguita sotto la direzione di Nigetti tra il 1619 e il 1630, cioè il coro e il transetto con le cappelle della famiglia Bonsi, mentre l’aula fu realizzata, con qualche modifica, da Gherardo Silvani dopo il 1630. La predilezione per una architettura muraria di masse nude, impassibili già dimostrata nella cappella di S. Lorenzo si ripropone nei quattro poderosi piloni del centrocroce e poi nei pilastri delle cappelle a cui non si addossano, secondo lo schema concatenato canonico ormai diffuso anche a Firenze, lesene o semicolonne di un ordine maggiore ma che rimangono integri e isolati, rafforzati nella loro individualità da lesene angolari unite da una formidabile trabeazione, fino ad assumere l’aspetto di una impressionante successione di tempietti o di edicole scaglionati lungo i fianchi dell’aula.
Nel 1630, dopo che precedenti dissapori erano stati faticosamente ricomposti, Nigetti venne congedato definitivamente dal cantiere della chiesa teatina. La committenza medicea continuò a non utilizzarlo al di fuori dell’incarico per la cappella di S. Lorenzo se non per lavori di oreficeria e di commesso legati al suo incarico nell’opificio, tra cui un ciborio in argento e pietre dure per la cappella della Madonna nella Ss. Annunziata (1617) e un paliotto per la S. Casa di Loreto (1621). Si fecero invece sempre più stretti i rapporti con la committenza ecclesiastica. Nigetti divenne presto l’interlocutore privilegiato di compagnie laicali e ordini monastici verso cui lo indirizzava anche una pia inclinazione personale e familiare.
Della Congregazione della dottrina cristiana, una delle compagnie fiorentine di maggior seguito, furono membri attivi e autorevoli il fratello Giovanni (1573 circa - 1652), pittore, allievo di Giovan Battista Naldini, e poi il nipote Dionigi Baldocci. La paternità del ‘disegno’ della sede della Congregazione in via Palazzuolo (iniziata nel 1602) spetta a Giovanni, come egli stesso ebbe ad affermare in una impegnativa dichiarazione testimoniale (Berti, 1950, p.158), ma la sua opera dovette limitarsi agli aspetti distributivi e dimensionali del complesso mentre sono di Matteo l’architettura della facciata e dell’aula, realizzate nel 1620 grazie all’intervento di Maria Maddalena d’Austria, nel clima di crescente fervore seguito alla morte del fondatore della compagnia, il beato Ippolito Galantini (1619), di cui Baldocci stese una importante biografia (Vita del beato servo di Dio Hippolito Galantini, Roma, presso Alessandro Zanetti, 1623).
In facciata l’austerità programmatica richiesta dal genere della compagnia laicale è rotta dall’‘a solo’ del portale che si proietta in avanti sospinto dalla lieve convessità del fronte.
Non scontato l’impaginato dell’oratorio della Concezione in via della Scala, ampliato e riconfigurato (1626-27) per volontà del vescovo Alessandro Marzi Medici, dove l’incastro tra le membrature e gli elementi plastici di arredo – altare maggiore, altari laterali, finestre ecc. - ricorda la sacrestia Nuova di Michelangelo. Le colonne tuscaniche che dividono il coro in due settori presentano alle estremità pilastri di non comuni dimensioni. Il ricorso al pilastro diventa una sigla di riconoscimento e un indizio programmatico di adesione all’ideale dell’ architettura muraria. Pilastri caratterizzano il chiostro grande meridionale del monastero di S. Maria degli Angeli (1621); pilastri anche nel portico della residenza estiva dei domenicani a Carmignanello (1610-16), che con la sua pianta a U propone una sintesi tra villa e convento, autorizzata da una lunga vicenda di intrecci e contaminazioni reciproche tra due generi uniti dalla comune pertinenza alla sfera contemplativa. Il nesso arco pilastro ricompare, trasposto a una monumentale scala urbana, nella facciata della trecentesca chiesa di S. Pier Maggiore, voluta dalla famiglia degli Albizzi (1638).
Nigetti prese spunto dalle testate laterali del portico della Ss. Annunziata (G.B. Caccini, 1605) per realizzare una loggia a tre fornici, su pilastri altissimi, che rompe con la tradizione cittadina dei loggiati a colonne. Con una brillante trovata il nodo plastico della mensola in chiave si sovrappone, in modo ostentatamente posticcio, a una lettera capitale dell’iscrizione del fregio, fino a nasconderla.
La facciata della chiesa di Ognissanti, eseguita tra il 1635 e il 1637 per i fratelli Alessandro e Antonio di Vitale dei Medici, rende omaggio a don Giovanni e al suo S. Stefano dei Cavalieri di Pisa e contiene una singolare versione della colonna alveolata di Michelangelo, racchiusa in una sorta di astuccio saturo di ombra e quindi trasformata da elemento plastico in elemento pittorico. È legata alla sua committenza più fedele – i domenicani, gli ebrei conversi Medici, il marchese Fabrizio Colloredo – la realizzazione di portici di chiese extraurbane, rispettivamente S. Domenico (1635) e S. Girolamo (1634) di Fiesole, la Madonna della Tosse (1640).
In essi ricorre il tema del semplice portico a colonne, ormai legato a edifici religiosi di impronta villereccia, che viene però sopraffatto e tormentato da una ornamentazione ipertrofica e sfrenata di cartigli tumefatti o guizzanti, di turgidi festoni di frutti, di stemmi colossali.
Furono numerosi e condotti a più riprese gli interventi nei conventi fiorentini dei serviti e dei domenicani di S. Maria Novella. Nel convento domenicano realizzò la farmacia (1612) e la nuova biblioteca (1629, distrutta nel 1848 per la creazione della piazza e della stazione ferroviaria Maria Antonia), con i relativi portali in pietra. Il portale di accesso alla farmacia è tramato, dai gradini al fastigio, sul tema della conchiglia, simbolo officinale caro a Buontalenti. Nel convento della Ss. Annunziata, di cui dal 1610 era architetto a titolo gratuito, realizzò, presso l’andito che conduce al chiostro dei Morti, la sacrestia della Madonna. Sul portale marmoreo policromo, affiancato dai monumenti funebri dei committenti Antonio e Vitale dei Medici, eseguiti (1645-46) da Francesco Mochi, volteggia un virtuosistico cartiglio apparentemente staccato dalla cornice. L’ultima opera di Nigetti, la cappella Colloredo nella chiesa della Ss. Annunziata (iniziata nel 1643, inaugurata nel 1652, realizzata con il fondamentale contributo esecutivo dello scultore Francesco Mochi), assume il valore di una ricapitolazione della sua poetica.
I due arconi laterali con archivolti estesi quanto le due fasce murarie di appoggio, appartengono alla stessa famiglia degli arconi interni della cappella di S. Lorenzo e di quello che inquadra il coro di S. Gaetano ed è l’espressione canonica della natura muraria dell’architettura. All’interno degli arconi esplode l’invenzione plastica dei due sarcofagi, avvolti in enormi cartigli e sovrastati da una composizione araldica con lo stemma Colloredo entro un cimiero dal travolgente, fluviale piumaggio.
In maniera quasi didascalica la cappella riflette il doppio registro su cui si svolge tutta l’opera di Nigetti: una architettura di masse elementari ma impreziosite dal commesso marmoreo, coniugate a una decorazione impetuosa. Il primo aspetto si riallaccia ad un filone minoritario tra Cinque e Seicento che dipende da alcuni folgoranti esempi vasariani, soprattutto il tratto lungofiume del corridoio degli Uffizi e le logge di Arezzo. Il secondo esaspera ed estremizza temi del repertorio buontalentiano.
Morì a Firenze il 13 dicembre 1649 (Archivio di Stato di Firenze, Medici e speziali, 258, c. 270).
L’architettura di Nigetti è una delle più significative espressioni del travaglio della cultura architettonica fiorentina postmichelangiolesca e postbuontalentiana, capace di invenzioni personali mirabolanti ma fatalmente sempre più solipsistiche, non suscettibili di ripresa e di sviluppo perchè fondate sul rifiuto del linguaggio degli ordini e dello studio dell’antico da cui dipende invece anche il più audace sperimentalismo barocco. Per quanto di qualità altissima, la sua proposta era per questo destinata a richiudersi su se stessa, senza offrire alcuno sbocco alla crisi dell’architettura fiorentina.
Altre opere: campanile della chiesa del convento di S. Domenico a Fiesole (1612-13); cappella di S. Rita in S. Nicola a Pisa (1612) ; cappelle Bombeni (1629-35) e Ronconi (1640-42) in S. Trinita a Firenze; progetto per una cappella Falconieri nel convento di Montesenario a Vaglia (1640); portale della compagnia di S. Giuseppe a Firenze (in F. Ruggeri, Studio d’architettura civile..., Firenze 1722, I, tav.66); palazzo Tempi, via dei Bardi n. 25 a Firenze (attr.); villa di Poggio alla Scaglia, già Tempi a Pozzolatico, Impruneta (attr.).
Fonti e Bibl.: F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno … (1681-1728), a cura di F. Ranalli, III, Firenze 1846, pp. 669-677; A. Zobi, Notizie storiche riguardanti l’imperiale e reale stabilimento dei lavori di commesso in pietre dure di Firenze Firenze, 1841, pp. 220-226; A. Venturi, Storia dell’arte italiana, XI, 2, Milano 1939, pp. 617-624; L. Ginori Lisci, Carmignanello. Una costruzione ignorata di M. N., Firenze 1950; L. Berti, M. N., in Rivista d’arte, XXVI (1950), pp.157-184; XXVII (1951-52), pp. 93-106; Un episodio del Seicento fiorentino. L’architetto M. N. e la cappella Colloredo, a cura di M. Falciani Prunai - G. Orefice, Firenze 1981; E. Chini, La chiesa e il convento dei Ss. Michele e Gaetano, Firenze 1984; M.C. Fabbri, Cappella Colloredo nella Ss. Annunziata, in Cappelle barocche a Firenze, a cura di M. Gregori, Cinisello Balsamo 1990, pp. 80-98; A. Rinaldi, La cappella dei Principi e le retrovie del barocco, in Centri e periferie del barocco. Il Barocco romano e l’Europa, a cura di M. Fagiolo - M.L. Madonna, Roma 1992, pp. 321-347; L. Ippolito, La cupola della cappella dei Principi a Firenze, in Rassegna di architettura e urbanistica, XXXII (1998), 94, pp. 35-43; M. Bietti, Giovanni Nigetti, in La morte e la gloria. Apparati funebri medicei per Filippo II di Spagna e Margherita d’Austria, a cura di M. Bietti, Livorno 1999, p. 199; M. Marandola, La cappella dei Principi: un cantiere secolare, in Architettura e tecnologia: acque, tecniche e cantieri nell’architettura rinascimentale e barocca, a cura di C. Conforti - A. Hopkins, Roma 2002, pp. 77-95; Firenze e Roma alle soglie del barocco. Paradossi e aberrazioni dell’architettura fiorentina tra XVI e XVII secolo, in Bernini e la Toscana, Roma 2002, pp. 3-20; A. Rinaldi, M.N. architetto e il suo doppio, in Architetti e costruttori del barocco in Toscana. Opere, tecniche, materiali, a cura di M. Bevilacqua, Roma 2010, pp. 89-109.