GAZZOTTO, Matteo
Nacque intorno al 1533-34 a Spezzano (frazione di Fiorano Modenese), nel territorio di Sassuolo, dominio della famiglia Pio. Contadino e praticante di medicina popolare ("conzaossi"), fu processato nel 1599 dall'Inquisizione di Modena.
L'inchiesta era sorta in seguito alla trasmissione delle testimonianze, rese il 25 marzo 1599, della moglie Lucrezia da Magreda e della figlia Camilla che avevano rivelato le reiterate infrazioni del G. alle rigide norme sul consumo dei cibi proibiti nei giorni di magro e la costante propensione alla pratica della bestemmia. Fra Leandro Capugnano, il predicatore quaresimale che raccolse le parole delle due donne e le inviò a Modena, denunciava la pericolosità del G. e ne metteva in risalto le risorse economiche e le doti intellettuali ("ha del suo comodamente et per quello che intendo ragiona molto bene").
Dopo due giorni l'inquisitore di Modena, il domenicano Giovanni da Montefalcone, dispose l'arresto dell'imputato che venne rinchiuso nelle prigioni di Sassuolo (località che proprio in quell'anno 1599 passò dal controllo della famiglia Pio a quello degli Estensi). Dopo una pausa di alcune settimane comparve come teste Girolamo de Pizzoliis, rettore della chiesa di Spezzano, a dar conto dell'assai scarsa pratica religiosa del G., individuo quanto mai "sollitario" e "retirato", che si mostrava solo quando era sollecitato per la sua attività terapeutica ("quando è chiamato a conzar le ossa di quelli che per accidente si slogano"), e della carcerazione a Sassuolo che aveva già subito, ad opera delle autorità civili, per concubinato; nell'occasione il figlio aveva dovuto vendere una castellata d'uva per ottenere la liberazione del padre. Il 19 maggio 1599 toccò al G. a essere interrogato: sulle infrazioni ai divieti alimentari dichiarò di non avere visto in casa propria carne da almeno tre anni né di avere fritto funghi nel grasso - come risultava dalle accuse - non avendo a disposizione né una padella né lo stesso grasso, mentre riconosceva che poteva essersi nutrito di uova cotte nel fuoco; quanto alle bestemmie indirizzate verso Dio, la Vergine e i santi, fece alcune ammissioni pur rigettando di aver proferito le espressioni più insultanti e intrise di oscenità, nonché quelle di sapore ereticale.
Le successive testimonianze del 22 maggio della moglie e della figlia di fronte all'inquisitore diedero ampia esemplificazione del lessico blasfematorio diretto dal G. contro Dio, lo Spirito Santo e la Vergine, e aggiunsero nuovi elementi sul carattere violento dell'uomo (l'una e l'altra erano state minacciate con coltello e archibugio, e percosse); diversamente, gli altri due figli nati da un precedente matrimonio, Caterina che stava come "massara" in Sassuolo e Giovanni Antonio, non vennero chiamati a testimoniare. Emerse che il G. non aveva esitato a convivere nella casa coniugale con un'altra donna, tale Maddalena da Maranello; anzi gli sbirri li avevano sorpresi a letto insieme "in cantina ove stan li tinazzi". Un'altra teste, una donna che si era ferita cadendo da un carro ed era stata ospitata e curata in casa del G., diede invece un'immagine non del tutto negativa dell'uomo, sostenendo che era "da bene quanto al mondo", ma non ne tacque la fervida fantasia blasfematoria ricordando che tra l'altro faceva frequente ricorso all'espressione: "sia maledetto quel cane prete becco scornato". Il G. fu sottoposto a nuovi più stringenti interrogatori tra maggio e giugno 1599 e si impiegò anche la tortura, per appurare la fondatezza delle accuse formulate e per chiarire l'eventuale natura ereticale delle bestemmie che era accusato di aver proferito.
Egli fornì alcune informazioni su di sé: la terra che possedeva gli aveva reso per l'anno precedente un raccolto di 7 mine di frumento e 3 di veccia oltre a 2 castellate e mezzo d'uva, raccolto che fu in parte destinato all'autoconsumo e in parte venduto per estinguere i debiti contratti; per i servizi di conzaossi si faceva retribuire con 2-3 libbre di farina o con 2-3 carlini oppure non chiedeva nulla "per l'amor di Dio principalmente". Venne dunque corretta sia l'ipotesi del frate che aveva informato l'Inquisizione, accreditando una presunta ricchezza dell'accusato, sia di riflesso la dichiarazione di estrema povertà del G. che aveva affermato di non avere avuto i mezzi per cibarsi di carne negli ultimi tre anni. Inoltre egli cercò di giustificare le ripetute assenze dalle cerimonie religiose con gli impegni della sua attività di terapeuta e con la vergogna che provava per la modestia dei suoi abiti, ma, anche in seguito al supplizio della corda, fece significative ammissioni sul consumo di carne in tempi proibiti.
L'8 agosto l'inquisitore pronunciò, congiuntamente al vicario vescovile Ercole Simoncelli, la sentenza contro il G. che, "vehementemente sospetto di heresia", fu condannato a recitare l'abiura dai suoi errori, al bando dalla diocesi di Modena per cinque anni e ad altre pene spirituali (obbligo della confessione e comunione mensili per un periodo di tre anni), infamanti (restare, dopo l'abiura, a capo scoperto, piedi scalzi "et con la mordacchia alla bocca per castigo, benché leggiero, delle horende bestemmie che tu con la propria lingua proferte hai") e speculari alle colpe di cui si era macchiato (impegno al digiuno a pane e acqua per lo spazio di un anno in tutti i sabati e i mercoledì delle Quattro Tempora nei quali aveva trasgredito alle regole alimentari). Dopo la lettura della sentenza avvenuta nella chiesa di S. Domenico alla presenza di un folto pubblico, il G. recitò la sua abiura riconoscendo i suoi errori sulla santità e bontà di Dio e sulla verginità della Madonna - errori che emergevano dal contenuto delle bestemmie che era solito pronunciare -, il suo rifiuto dei precetti alimentari imposti dalla Chiesa romana, la sua trascuratezza nei confronti delle pratiche religiose.
Poco meno di un anno dopo, nel maggio 1600, il G. tornò a esser oggetto dell'attenzione del S. Uffizio modenese e fu nuovamente carcerato in quanto sospetto di non aver assolto le penitenze assegnate. Nei due interrogatori a cui fu sottoposto, e che egli siglò con un segno di croce non sapendo firmare, riconobbe di aver mancato all'osservanza dei sacramenti e di aver disatteso il bando portandosi più volte a Spezzano e dintorni oltre che a Modena. Qui era entrato al servizio di un nobile bolognese che soggiornava nella stessa casa ove aveva la sua abitazione Maddalena da Maranello, la donna già incarcerata con il G. e da cui aveva avuto un figlio.
Il 3 giugno 1600 il tribunale condannò il G. all'osservanza delle pene già inflitte con la precedente sentenza, al bando per dieci anni dalla città e dalla diocesi e infine alla pubblica fustigazione in Modena. Dopo questa data non se ne hanno più notizie.
Fonti e Bibl.: Le carte processuali in Arch. di Stato di Modena, Inquisizione, b. 10, fasc. I.10 (si veda in proposito M.-J. Piozza-Donati, Procès contre M. G. modénais soupçonné d'hérésie à la fin du XVIe siècle, in Mélanges de l'École française de Rome. Moyen Âge. Temps modernes, 1977, n. 89, pp. 945-982); sulla presenza della famiglia Gazzotto a Spezzano, Ibid., Arch. notarile di Sassuolo, Rogiti di Bartolomeo e Tommaso Benedetti, filze 97, 99. Vedi inoltre G. Tiraboschi, Dizionario topografico-storico degli Stati estensi, II, Modena 1825, pp. 356-359; L. Amorth, Modena capitale. Storia di Modena e dei suoi duchi dal 1598 al 1860, Milano 1967, pp. 34-36, 51; A. Biondi, Streghe ed eretici nei domini estensi all'epoca dell'Ariosto, in Il Rinascimento nelle corti padane. Società e cultura, Bari 1977, pp. 165-198; S. Peyronel, I conventi maschili e il problema della predicazione nella Modena di Giovanni Morone, ibid., pp. 239-256; Id., Speranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Morone, Milano 1979; J. Delumeau, Cristianità e cristianizzazione. Un itinerario storico, Genova 1983, pp. 48 s., 204 s.; M.R. O'Neill, Sacerdote ovvero strione: Ecclesiastical and superstitious remedies in 16th century Italy, in Understanding popular culture. Europe from the Middle Ages to the nineteenth century, a cura di S.L. Kaplan, Berlin-New York-Amsterdam 1984, pp. 53-83; L. Marini, Lo Stato estense, Torino 1987, pp. 29, 36, 45 s.; P. Burke, Insulti e bestemmie, in Id., Scene di vita quotidiana nell'Italia moderna, Roma-Bari 1988, pp. 11-38; O. Christin, Le statut ambigu du blasphème au XVIe siècle, in Ethnologie française, XXII (1992), pp. 337-343; A Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996, pp. 356-358.