DI CAPUA, Matteo
Figlio cadetto di Fabrizio della famiglia dei conti di Altavilla e di Covella Gesualdo, nacque nella prima metà del sec. XV - comunque prima del 1427, quando è menzionato nel testamento paterno - probabilmente in Lombardia. Qui infatti si era trasferito il padre dopo la morte di re Ladislao di Napoli (1414) e del fratello Giulio Cesare, giustiziato all'inizio del 1416 come autore di una congiura contro la regina Giovanna II, entrando al servizio del duca di Milano. Per volontà paterna, il D. fu indirizzato al mestiere delle armi e, grazie al suo valore e alle cognizioni nell'arte della guerra, acquistò grande fama.
Il D. trascorse la giovinezza combattendo al soldo di Venezia. Teatro delle sue gesta fu la guerra che la Repubblica condusse in Lombardia dopo la morte di Filippo Maria Visconti (1447), cercando di trarre profitto dalla particolare congiuntura politica di Milano. Contro le truppe della Serenissima, che avevano occupato buona parte del territorio del Ducato milanese, mosse Francesco Sforza, capitano generale della nuova Repubblica Ambrosiana, riuscendo a riportare importanti vittorie. L'esercito dello Sforza si accampò alle porte di Caravaggio, che rimaneva ancora in mano veneziana. Allora il D., al comando di settecento cavalieri e ottocento fanti, fu inviato a dare man forte agli assediati. In quella circostanza, egli diede prova di una notevole spregiudicatezza: vistosi a mal partito, meditò infatti di passare al campo avversario e a tale scopo ebbe un abboccamento con Cicco Simonetta, uomo di fiducia di Francesco Sforza; ma un improvviso prevalere dei Veneziani indusse il D. a mutare nuovamente parere, cosicché le trattative con l'emissario milanese furono interrotte. L'evolversi degli eventi non favorì il suo opportunismo: Caravaggio cadde sotto i colpi degli assedianti e lo stesso D. fu fatto prigioniero (1448).
Liberato dopo un breve periodo - non sappiamo se grazie alla magnanimità dello Sforza o in virtù di accordi fra le parti avverse - il D. poté continuare il suo servizio per la Repubblica di S. Marco. Questa volta, però, si trovò a combattere a fianco dello Sforza, che si era accordato con Venezia contro la Repubblica Ambrosiana, e da lui ebbe l'incarico di porre l'assedio a Monza, allo scopo di intralciare il commercio milanese con Vercelli (1449). L'impresa si concluse con una sconfitta. Le strade del D. e dello Sforza tornarono ben presto a dividersi: quest'ultimo, insediatosi come duca in Milano, riprese le ostilità con la Serenissima, alla quale il D. restò fedele. Anche gli anni successivi (1451-54) lo videro costantemente impegnato sul piano militare e numerosi furono gli episodi bellici ai quali partecipò in una posizione di rilievo. Fra gli altri, possiamo ricordare l'audace attraversamento notturno dell'Adda (1451): il D., inviato contro Crema insieme a Carlo Fortebraccio e a un forte manipolo di uomini, costruì nottetempo un ponte di barche sul fiume, lo varcò e dopo averne fortificato entrambe le rive, si lanciò in scorrerie devastatrici nel territorio di Lodi. Combatté ancora a Piscione, a Bassano, a Soncino.
La pace fra il duca e i Veneziani (1454) - pace in seguito sottoscritta anche da Firenze, dal papa e da Alfonso d'Aragona - colse il D. probabilmente di sorpresa. Il nuovo clima politico che ne seguì indusse la Serenissima a ridurre gli effettivi del suo esercito di terra e il D., come molti altri uomini d'arme, si ritrovò senza stipendio. Fu probabilmente l'assenza di concrete prospettive per un nuovo ingaggio che lo indusse a legare la sua sorte a quella dell'irrequieto Jacopo Piccinino. Nell'autunno del 1454 i due capitani oltrepassarono il Po e si diressero alla volta delle Romagne; non a caso, giacché nell'Italia centrale i rapporti di forza apparivano ancora fluidi ed iniziative militari arrischiate avrebbero potuto essere coronate dal successo. Da Cesena, dove in un primo tempo gli ex soldati veneziani avevano posto il campo, il D. si trasferì in Toscana e penetrò, al seguito del Piccinino, nel territorio senese che fu messo a ferro e a fuoco. Cetona ed altri borghi fortificati preferirono arrendersi senza combattere, per scongiurare più gravi disastri; Sarteano, invece, sopportò un cruento assedio, durante il quale lo stesso D. fu ferito da una freccia. Un intervento dello Sforza valse a vanificare tutte le vittorie che il D. e i suoi compagni avevano conseguito. Il Piccinino rinunciò, per il momento, ad agire in piena libertà e si pose nuovamente al servizio di un sovrano, Alfonso d'Aragona, che lo inviò contro Sigismondo Malatesta. Non è certo che il D. ne seguisse anche questa volta le orme. Tuttavia è probabile, poiché nel 1458 lo ritroviamo nelle file dell'esercito napoletano. Per il successore di Alfonso, Ferrante d'Aragona, militava ancora il Piccinino; ben presto, però, i due condottieri si sarebbero ritrovati in opposti schieramenti.
Ferrante, appena insediato sul trono, si trovò a dover affrontare la sollevazione di alcuni dei potenti baroni che avevano inalberato il vessillo angioino, offrendo la corona del Regno di Napoli a Giovanni d'Angiò. Uno dei principali focolai di rivolta era in Abruzzo, dove aveva i suoi feudi Giosia d'Acquaviva, duca d'Atri, oppositore dell'Aragonese. Fallito un estremo tentativo di pacificazione, Giosia levò le armi contro il sovrano. Il D., che già dall'ottobre 1458 si trovava in Amatrice con quattrocento fanti e tre squadre, per tenere a bada l'Acquaviva, fu nominato capitano delle armi, vicere e governatore delle due province abruzzesi con piena potestà non solo in campo militare, ma anche in quello civile. I suoi tentativi di conservare la provincia all'obbedienza aragonese non sortirono però l'effetto sperato, soprattutto a causa della sua inferiorità militare. Nel gennaio 1460 strinse d'assedio Moscuso, ma l'arrivo all'Aquila del figlio del conte di Aversa con fanti e cavalli lo costrinse a desistere dall'impresa e a ritirarsi a Chieti. Ormai il partito angioino aveva sottomesso buona parte dell'Abruzzo e a Ferrante restavano solo pochi centri fortificati.
Ancora peggiore divenne per gli Aragonesi la situazione quando, nella primavera di quell'anno, alle forze di Giosia si unì un'armata assoldata dal principe di Taranto e comandata dal Piccinino. Insieme, essi mossero contro Chieti difesa dal D. il quale, non avendo forze sufficienti, si limitò a contrastare alla meglio gli assalitori, molestandoli con continue scaramucce. Chieti rimase nelle mani del D. e, nonostante la vittoria riportata a Castel San Flaviano, il Piccinino non riuscì ad ottenere il completo dominio della regione. I feudatari ribelli non risparmiarono tentativi per trarre dalla loro parte il D. e a tale scopo, già nel giugno 1459, il principe di Taranto gli aveva offerto del denaro. Il D. però restò fedele al sovrano, sia pure per un semplice calcolo opportunistico. Egli infatti aveva strappato al re la promessa di una futura concessione dei feudi di Giosia d'Acquaviva, perciò era quest'ultimo l'avversario che egli aveva interesse a debellare. Come tutti i condottieri del tempo, il D. conduceva dunque la guerra in modo da ricavarne il maggiore profitto personale. Ignorò però gli ordini di Ferrante, che avrebbe voluto impegnarlo nell'inseguimento dei seguaci di Antonio Caldora, altro campione del partito angioino, per impedire che essi si unissero in Terra di Lavoro alle truppe del principe di Rossano, e si volse contro il Caldora soltanto dopo aver liquidato la partita con Giosia. Non appena Marc'Antonio Torello, inviato in soccorso di Ferrante dal duca di Milano, entrò in Abruzzo, da dove nel frattempo era partito per la Puglia il Piccinino, il D. si mosse da Chieti (17 nov. 1461), pose a sacco San Flaviano, occupò Teramo e conquistò Atri (gennaio 1462). Il 27 gennaio Ferrante gli concesse perciò il ducato di Atri e il contado di San Flaviano. L'Acquaviva si asserragliò quindi nella fortezza di Cellino che il D. strinse dassedio, finché lo stesso Acquaviva morì di peste (22 ag. 1462). Solo allora il D. diresse i suoi attacchi contro i caldoreschi. Nel frattempo però Giulio Antonio, figlio di Giosia si era riavvicinato a Ferrante, ricevendone l'impegno a restituirgli i beni paterni. Ne derivò una grave tensione nei rapporti fra il re e il D., il quale si rifiutò di abbandonare le terre appena conquistate. Per il momento egli ebbe la meglio: a Giulio Antonio furono resi soltanto alcuni possedimenti minori, mentre Atri e San Flaviano restarono nelle mani del Di Capua. Infatti, nonostante il deciso prevalere dello schieramento aragonese, la guerra continuava. Nel 1463 Giovanni d'Angiò e il Piccinino, tornati in Abruzzo, vi raccolsero nuove truppe ed occorreva quindi evitare pericolose diserzioni. Il D. però sembrava preoccuparsi soprattutto di sfruttare al meglio la gabella delle pecore, e si curò poco di contrastare gli avversari. L'anno successivo la situazione mutò, questa volta a suo sfavore. Spenta ormai la fiammata della ribellione, egli fu costretto a riconsegnare i feudi di Atri e San Flaviano nelle mani dell'erede di Giosia e ad accontentarsi della semplice promessa di un indennizzo.
Mantenne invece, ancora per qualche tempo, la carica di governatore generale e di viceré dei due Abruzzi. Poiché in tale veste egli aveva amministrato la giustizia, esatto le imposizioni spettanti alla regia corte e venduto i beni dei ribelli, Ferrante il 17 ott. 1464 ne ratificò tutte le disposizioni prese e - forse per indurlo ad una maggiore docilità nella questione dei feudi dell'Acquaviva - lo esentò per l'avvenire dall'obbligo di rendere conto del suo operato. Inoltre, per una volta, l'Aragonese non venne meno agli impegni assunti. Il 17 maggio 1467 concesse al D. le terre di Palena, Lama, Letto, Montenegro, Pizzo e Forca di Palena, già appartenenti ad Antonio Caldora, con il titolo di conte e quella di Conca in Terra di Lavoro che era stata di un altro ribelle, il principe di Rossano; l'anno successivo il D. ottenne anche Gisso. Il sovrano concesse ancora al D. l'esenzione dal pagamento di una rata di adoa (18 apr. 1468), e infine il 13 maggio 1470 il nuovo conte di Palena fu integrato nei suoi feudi. Come membro dell'alta nobiltà del Regno il D. fu anche insignito dell'Ordine dell'ermellino e della stola, con il quale Ferrante usava decorare i suoi più illustri servitori e il 26 sett. 1472 presenziò alla stipulazione del contratto di matrimonio fra Isabella d'Aragona e Gian Galeazzo Sforza. In quella data egli rivestiva la dignità di regio consigliere.
Questa parentesi di tranquillità fu ben presto interrotta dall'accendersi della guerra che Sisto IV e Ferrante mossero contro Firenze (1479). Le milizie pontificie furono poste sotto il comando supremo del D., prescelto per la sua lunga esperienza e il suo discernimento. In verità, la prova che diede di sé non fu, in questa occasione, all'altezza della sua fama. Stando alla narrazione di Sigismondo dei Conti, quando affrontò nei pressi di Passignano l'esercito fiorentino, capitanato da Roberto Malatesta, commise gravi errori tattici che determinarono la disfatta delle sue truppe. Nonostante l'imperizia del D., il conflitto volse favorevolmente per i nemici di Firenze. Sappiamo anche che nel luglio 1480 l'occupazione turca di Otranto costrinse Ferrante a richiamare gli uomini che, malgrado gli accordi intervenuti con il Magnifico, ancora militavano in Toscana.
In Puglia, il D. ebbe nuovamente una posizione di comando. Anche ad Otranto, tuttavia, il suo operato non fu esente da critiche. Il 5 luglio 1481 scrisse infatti al re per riferire sull andamento di uno scontro e per giustificare la condotta da lui tenuta in questa occasione. Va peraltro considerato che il D., e con lui gli altri comandanti napoletani, erano profondamente disorientati nell'affrontare un nemico che si avvaleva nel combattimento di una strategia ad essi completamente sconosciuta. L'impreparazione costò la vita a molti. Nel febbraio 1481 cadde Giulio Acquaviva, che insieme con il D. aveva affrontato una schiera di turchi.
Quella volta il D. si salvò con la fuga; ma non sopravvisse a lungo. Già il 24 dic . 1481, infatti, il primogenito Bernardino fu investito dei feudi paterni di Palena, Conca e Gisso.
Dal matrimonio con Raimondella Del Balzo il D. aveva avuto un altro figlio maschio, Giulio Cesare, divenuto anch'egli, in prosieguo di tempo, conte di Palena, e due figlie: Lucrezia, maritata a Camillo Pandone, ambasciatore di Ferrante, e Griselda, andata sposa a Bosio Sforza.
Masuccio Salernitano dedicò al D. una novella del suo Novellino (n. XLIX), salutandolo come "eccellente e strenuo signore".
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