MATTEO da Bascio
MATTEO da Bascio (al secolo Matteo Serafini). – Nacque all’incirca nel 1495 nel Montefeltro nei pressi del castello di Bascio, oggi nel Comune di Pennabilli (Pesaro), da Paolo e da Francesca Clavari della Castellaccia di Carpegna, che ebbero almeno altri due figli, Persia e Giovanni Antonio.
Il nome del padre, senza l’indicazione del cognome, è già in un documento cinquecentesco, ma l’appartenenza alla famiglia Serafini è asserita solo nel Novecento senza però citare alcuna fonte (Tani, p. 193). Secondo i cronisti cappuccini del XVI secolo, i genitori di M. erano umili contadini. M. aveva anche un nipote, figlio del fratello Giovanni Antonio, di nome Gian Battista, che faceva il romito e che fu coinvolto nel 1553 in un processo per furto a Bologna.
In un manoscritto che raccoglie antiche notizie del convento veneziano di S. Francesco della Vigna, si legge che M. era «di statura alta, di viso lungo e magro, di pochissimo riso, com’anco di poca allegrezza» (Del beato padre M. da Bassi della Marcha 1552. Notitie cavate da squarzi vecchi ritrovati nel convento della Vigna di Venezia, in I frati cappuccini, II, p. 111); e un cronista cappuccino, il quale lo aveva conosciuto di persona nel 1543, affermò che «era più ruvido a maneggiarsi, anzi non punto sociabile e di proprio parere; e questo nasceva da un certo suo proprio e naturale che ’l piegava alla malinconia» (Mario [Fabiani] da Mercato Saraceno, p. 231).
Intorno al 1515, M. entrò tra i francescani osservanti nel convento di Montefiorentino, presso Frontino, dove apprese i primi rudimenti della grammatica e della teologia e fu ordinato sacerdote.
Secondo i principali cronisti cappuccini, s’impegnò da subito nell’evangelizzazione dei borghi del Montefeltro con una predicazione dal tono apocalittico e penitenziale che lo rese noto nella zona. In particolare riproponeva il rispetto della regola francescana e frequentemente si lamentava per la sua mancata osservanza da parte dei confratelli del convento di Montefalcone Appennino, nei pressi di Fermo, dove si era trasferito.
Nel gennaio 1525, a causa della sua crescente insoddisfazione e irrequietezza, decise di abbandonare il convento di residenza per recarsi a Roma e chiedere a Clemente VII il permesso di seguire l’esempio di s. Francesco nella vita di povertà e nella predicazione itinerante.
Grazie all’intermediazione di un imprecisato gentiluomo introdotto negli ambienti curiali romani e probabilmente vicino alla nipote del papa, la duchessa di Camerino Caterina Cibo, ottenne da Clemente VII l’autorizzazione a condurre vita eremitica fuori dai conventi, seguendo la regola di S. Francesco alla lettera, e a predicare senza fissa dimora con una nuova foggia di abito con il cappuccio aguzzo cucito alla tunica senza lunetta né scapolare. L’unico obbligo sarebbe stato quello di presentarsi ogni anno in occasione del capitolo davanti al ministro provinciale degli osservanti in segno di obbedienza.
L’ultima settimana dell’aprile 1525 i francescani osservanti della provincia della Marca tennero il loro capitolo a Jesi e M. vi si recò per fare l’atto di sottomissione prescrittogli dal papa, ma fu arrestato come apostata per volontà del ministro provinciale Giovanni Pili da Fano e imprigionato nel convento di Forano. Liberato dal carcere per l’intervento di Caterina Cibo, riprese la sua predicazione itinerante e in estate si recò all’eremo di S. Giacomo, nei pressi di Matelica, dove incontrò l’osservante Francesco da Cartoceto e il giovane terziario Pacifico da Fano, che chiedevano entrambi, come M., il ritorno degli osservanti al rispetto della primitiva regola.
Nell’autunno 1525 altri due frati osservanti, i fratelli Ludovico e Raffaele Tenaglia da Fossombrone, lasciarono l’Ordine e si unirono a M., con il quale si rifugiarono a Cingoli, nell’eremo di S. Angelo di Monte Acuto, per dare vita a una casa di recollezione sotto la giurisdizione dei francescani conventuali. Nei mesi successivi altri confratelli li raggiunsero nell’eremo di proprietà comunale secondo quanto attesta una delibera del Consiglio di Cingoli del 24 febbr. 1526 con cui la Comunità si impegnò all’unanimità a proteggere il piccolo gruppo di eremiti dalle molestie degli osservanti. Tuttavia l’8 marzo Clemente VII emanò un breve con cui ordinava ai fratelli Tenaglia e a M., dichiarati apostati e scomunicati, di rientrare nell’Osservanza, anche con l’aiuto del braccio secolare. I tre si salvarono dal carcere conventuale con la fuga.
Ludovico e Raffaele Tenaglia trovarono asilo e consiglio presso la Congregazione camaldolese degli eremiti di Monte Corona e furono ricevuti da Paolo Giustiniani che li protesse dalle pretese del braccio secolare e dallo stesso ministro provinciale Giovanni da Fano, che avrebbe voluto ricondurli all’obbedienza. Ludovico, sul quale gravava ancora la scomunica, si diresse a Roma e presentò una supplica alla Penitenzieria apostolica. Il 18 maggio 1526, con l’appoggio di Caterina Cibo, ottenne un’autorizzazione della Penitenzieria a condurre insieme con il fratello e M. vita eremitica nella piena osservanza della regola francescana, dopo averne chiesto il permesso ai propri superiori. Potevano, inoltre, ricevere elemosine e impiegarle per il loro sostentamento. Infine, furono sottoposti alla giurisdizione del vescovo della diocesi in cui avrebbero scelto di dimorare.
Nel frattempo M. si era separato dai due fratelli Tenaglia per rifugiarsi presso Cerreto d’Esi, dove, insieme con Paolo (Barbieri) da Chioggia, visse fino al 1528 nella chiesa di S. Martino. Da una lettera dell’11 ag. 1582 di Vincenzo Lori, il quale riferiva lontane testimonianze oculari dei contadini del luogo, si evince che Paolo da Chioggia «vi stesse più assiduo che fr. Matteo perché fr. Matteo era più vagabondo. E celebrarono la messa e predicorno in questo mio castello più volte» (I frati cappuccini, II, p. 342). Secondo una tradizione riferita dai cronisti di San Severino sembra che, nello stesso periodo, M. dimorasse anche presso la chiesa di S. Maria delle Vergini di quella città, nella via della Pinturetta. Comunque, nel 1527 M. e Paolo da Chioggia si distinsero per la loro attività di assistenza in favore degli appestati nel territorio di Fabriano. Nel febbraio 1528 M. si trovava certamente in quel Comune per assistere i malati: una delibera comunale lo autorizzava a servire un pasto agli affamati e, mentre il Consiglio discuteva se consentire questa adunanza pubblica per evitare ulteriori contagi, M., secondo quanto annotato dal cancelliere, «iam vocat eos [i poveri] ad nuptias» (in Urbanelli, III, 1, p. 47).
La sua fama di predicatore e di uomo integerrimo si diffuse vieppiù nel Montefeltro, e in un altro atto ufficiale del 2 ott. 1529 era definito «vir Dei devotissimus», in quanto aveva indotto le autorità di Fabriano a proibire il gioco delle carte e a promulgare una legge contro i fabbricanti delle medesime «ad placandam iram Dei» (ibid., pp. 52 s.).
Grazie alla rinnovata protezione della duchessa Cibo e ai suoi buoni uffici con il pontefice regnante, il 3 luglio 1528 i fratelli Tenaglia ottennero con la bolla Religionis zelus il riconoscimento della nuova Congregazione dei frati eremiti minori di S. Francesco, un nuovo ramo della famiglia francescana che fu sottoposto ai conventuali. M. non era nominato nella bolla perché non ebbe mai l’intenzione di fondare una nuova famiglia religiosa, al contrario dei Tenaglia, che avevano subito l’influenza eremitica dei camaldolesi, tra i quali vanamente tentarono di essere accolti. Nel primo capitolo della nuova Congregazione, svoltosi ad Albacina nell’aprile 1529, M. fu eletto fra i quattro definitori generali e subito dopo fu scelto per acclamazione primo superiore generale, nonostante la sua riluttanza. Tuttavia, ritenendosi inadeguato alla carica, si dimise ben presto per riprendere la vita peripatetica, rimanendo fra gli eremiti francescani fino al 1536. In quell’anno e fra alterne vicende si consumò la drammatica crisi di Ludovico da Fossombrone, caduto in disgrazia presso il nuovo papa Paolo III insieme con Caterina Cibo, che fu sostituita dalla nobildonna Vittoria Colonna nella funzione informale, ma determinante, di protettrice dell’Ordine. Della nobildonna, duramente ostile a Ludovico da Fossombrone, si è conservata una lettera al cardinale Gasparo Contarini dell’agosto 1536 in cui elogiava M. definendolo «sanctissimo huomo che cominciò questa riforma» (I frati cappuccini, II, p. 222). Il 25 ag. 1536 il papa con la bolla Exponi nobis approvò l’elezione a vicario generale di Bernardino d’Asti e trasferì a lui e ai suoi successori i contenuti della bolla Religionis zelus.
La storia di questa profonda crisi istituzionale, conclusasi con l’allontanamento dall’Ordine degli eremitani francescani di Ludovico da Fossombrone e con un radicale cambiamento dell’ispirazione di fondo della Congregazione religiosa da lui fondata, è ancora oscura. Si trattò di un rivolgimento iniziato nel 1534, in coincidenza con l’ingresso nell’Ordine di alcuni frati dell’Osservanza, fra cui il celebre predicatore Bernardino Ochino e l’antico avversario Giovanni (Pili) da Fano, che ne mutarono progressivamente l’indirizzo spirituale e, rispetto all’impostazione eremitico-contemplativa voluta da Ludovico, promossero un maggiore impegno negli studi e nella predicazione.
Nel dicembre 1536 Ludovico da Fossombrone abbandonò l’Ordine e pochi giorni dopo lo seguì anche M., che era sempre stato restio a inserirsi nella vita comunitaria. Tuttavia, una «lettera obbidenziale» del ministro generale degli osservanti, Vincenzo Lunel, del 15 maggio 1536 (di cui a tutt’oggi si discute l’autenticità) dimostrerebbe che M. uscì dagli eremitani prima di Ludovico e autonomamente da lui. È assai probabile che la ragione dell’all0ntanamento volontario di M. risiedesse nel tentativo compiuto da Bernardino d’Asti di limitarne la libertà di predicazione, tanto più se si considera che proprio in quel periodo egli aveva destato notevole scandalo inveendo contro i cardinali e i prelati che uscivano dalla basilica di S. Pietro: «et in piedi ad alta voce diceva: All’inferno i superbi et ambitiosi, all’inferno i vitiosi» (Marco da Lisbona, 1606, c. 297v).
Dopo l’uscita dagli eremitani francescani iniziò un secondo periodo della vita di M. di cui si hanno scarse notizie. Non si ha la certezza che rientrasse nell’Osservanza, sebbene una serie di indizi induca a crederlo. Di certo, egli continuò la sua vita itinerante di predicatore penitenziale, recalcitrante a ogni modello di disciplina istituzionale.
L’unica fonte disponibile per ricostruire la biografia di M. viene dai cronisti cappuccini, impegnati dal 1543 con Mario da Mercato Saraceno (dopo la fuga a Ginevra di Ochino e la caduta in disgrazia di Ludovico da Fossombrone) a ridefinire le origini del proprio Ordine religioso, ormai privo di un padre fondatore che potesse essere proposto come modello di fede. Una raffinata operazione di carattere revisionistico tendente ad assorbire senza alcuna discontinuità la storia degli eremitani francescani in quella dei cappuccini e a riscoprire un nuovo fondatore nella figura di M., presentato, con una forte coloritura agiografica, come antesignano della riforma. Il primo che attribuì a M., in un testo a stampa, il titolo di fondatore fu Paolo Morigia nel 1569, seguito da Marco da Lisbona nel 1570 e da Pietro Ridolfi da Tossignano nel 1586. Al contrario, contestarono questo titolo Giuseppe Zarlino nel 1579 e, nei loro manoscritti pubblicati solo nel Novecento, Mario da Mercato Saraceno e Bernardino (Croli) da Colpetrazzo.
Dal 1536 M. iniziò un’incessante attività di predicazione parenetica con caratteri profetico-penitenziali in tutta la penisola, dal Montefeltro a Manfredonia, passando per Ferrara, Mantova, Roma e andando più volte a Venezia, dove certamente risiedette nel 1538 e nel 1542.
Egli usava semplici frasi ritmate così che potessero essere facilmente comprese anche dagli illetterati, faceva cantare canzonette devote, «predicava il crocefisso» e concludeva gridando «All’inferno i peccatori», rifiutando ogni retribuzione (I frati cappuccini, III, 1, p. 2107). Una volta, a Città di Castello, alcuni giovani lo gettarono nel Tevere perché non avevano gradito i suoi rimproveri. Una vivida testimonianza dei toni apocalittici usati da M. è contenuta in un rarissimo opuscoletto di Montegiano da Pesaro, dato alle stampe nel 1552 all’indomani della sua morte. L’opera è una requisitoria dei vizi dominanti tra le diverse categorie di persone e professioni, minacciate di essere condannate all’inferno: le donne vanitose, gli ipocriti, gli ubriachi, i fannulloni, gli invidiosi, i potenti che spadroneggiano, gli avvocati, i notai e i procuratori, i medici e i mercanti, i ricchi contadini e i padroni sfruttatori, i coloni ingannatori, gli artigiani, i mugnai e i fornai, i sarti, gli osti e infine gli indifferenti e gli spensierati.
Un testimone, nel corso di un’inchiesta sui presunti miracoli di M., ricordò che egli si recò in Germania al seguito delle truppe imperiali, senza però indicare una data precisa (I frati cappuccini, II, pp. 111 s.). Ciò dovrebbe essere avvenuto nel biennio 1546-47, quando M. prestò assistenza spirituale alle truppe pontificie inviate in Germania da Paolo III sotto il comando di Ottavio Farnese contro i protestanti della Lega di Smalcalda.
Colpito, verso la fine del luglio 1552, da una grave infermità mentre si trovava a Venezia, M. morì il 6 ag. 1552, mentre riposava in un angolo del campanile della chiesa di S. Moisè, che gli era stato offerto dal parroco per trascorrervi la notte.
Fu tumulato in una sepoltura comune, ma il 3 ottobre il suo corpo fu riesumato e trasferito nella chiesa degli Osservanti di S. Francesco della Vigna dove cominciò a essere visitato da numerosi fedeli che lo veneravano come un santo. Il 9 ott. 1552 i francescani del luogo cominciarono un’inchiesta sui presunti miracoli avvenuti intorno al sepolcro. Ma l’opposizione del nunzio pontificio Ludovico Beccadelli e degli ambienti inquisitoriali romani, segretamente tenuti al corrente dall’informatore laico Girolamo Muzio, pregiudicò il successo dell’operazione della canonizzazione, e la riforma cappuccina rimase senza un santo fondatore.
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