Matrimonio
Sposarsi, vivere in coppia, 'metter su famiglia' sono comportamenti individuali dettati da una naturale tendenza del genere umano all'aggregazione e alla costituzione di nuclei sociali elementari fondati su legami affettivi, sull'attrazione sessuale, ma anche su istintuali pulsioni riproduttive e su fattori di convenienza economica e sociale. Significato e forme della vita coniugale sono profondamente cambiati in Italia come nella maggior parte dei Paesi occidentali (Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003). Fino alla metà del 20° sec. il m., definito come la sanzione del legame affettivo e sessuale tra un uomo e una donna, è stata la modalità prevalente di vita di coppia e l'atto fondante della quasi totalità dei nuclei familiari, raggiungendo in Italia la sua massima affermazione negli anni Sessanta, durante il periodo del boom economico. All'inizio del 21° sec. il m. sembra invece aver perso la propria posizione di monopolio nell'organizzazione delle relazioni tanto sessuali quanto affettive, nei rapporti tra uomo e donna, nella definizione dei diritti sociali ed economici dei congiunti, e persino nella legittimazione dei legami di discendenza. Ciò non testimonia necessariamente una crisi del desiderio e dell'esigenza di vivere in coppia, ma, piuttosto, mette in luce le diverse modalità di costituzione di una famiglia. Il maggiore livello di istruzione, l'inserimento della donna nel mercato del lavoro, le modifiche delle relazioni di genere, l'evoluzione in senso postmaterialista del sistema di valori hanno profondamente trasformato il m., indebolendone al contempo il significato istituzionale ed esaltandone la natura di relazione fondata sull'amore e sul rispetto reciproco. Tali fattori sono anche alla base del ritardo del m., dell'aumento delle libere unioni e dei single, del più frequente ricorso alla separazione oppure al divorzio, fino alla crescente accettazione sociale delle unioni di tipo coniugale tra due individui dello stesso sesso.
Fattori culturali e scelte politico-istituzionali determinano il diverso livello di diffusione dei 'nuovi' comportamenti in tema di vita di coppia tra i Paesi occidentali. L'Italia, in particolare, si distingue per una persistenza delle modalità tradizionali di formazione della famiglia. Tuttavia, le tendenze in atto sono chiaramente rintracciabili in numerosi segnali lanciati dalle generazioni più giovani. Un primo indicatore del declino della nuzialità è la riduzione del numero di m. celebrati: 258.580 nel 2003, oltre 20.000 in meno rispetto a 5 anni prima. Relativamente alla popolazione, la nuzialità ha raggiunto il minimo storico scendendo al di sotto di 5 m. ogni 1000 abitanti. È anche fortemente diminuita la quota di celebrazioni con rito religioso, passata dalla quasi totalità all'inizio del 20° sec. a poco più del 70% all'inizio del 21°secolo. Al calo del numero di m. è associato l'innalzamento dell'età coniugale: nel 2002, infatti, gli uomini celibi hanno contratto m. in media a 30,5 anni contro i 25,9 anni del 1991 e le donne a 27,6 contro i 24,1 del decennio precedente. Le generazioni più giovani tendono a sposarsi, se si sposano, sempre più tardi. Se, infatti, 40 donne su 100 tra le nate negli anni Cinquanta del 20° sec. erano già coniugate prima dei 24 anni, per la generazione nata negli anni Settanta tale proporzione scende a poco più del 10%. Per gli uomini si osserva un'analoga evoluzione: nella generazione degli anni Cinquanta oltre il 50% dei giovani tra i 25 e i 29 anni erano già sposati; la proporzione scende al 20% per i nati negli anni Settanta. Il ritardo del m. è soltanto una delle manifestazioni della tendenza a rinviare tutte le tappe della vita adulta, che caratterizza i nati dagli anni Sessanta in poi: sempre più tardi, infatti, si terminano gli studi, si entra nel mercato del lavoro, si inizia una relazione stabile di coppia, si esce dalla famiglia; di conseguenza, più tardi ci si sposa e più tardi si mettono al mondo figli. Il m. rimane dunque la modalità privilegiata per iniziare la vita di coppia, quella che riceve il più ampio consenso da parte dei genitori, che in gran parte ne sostengono i costi organizzativi. Non soltanto il m. nel suo significato simbolico, ma anche gli aspetti rituali più vistosi dello sposalizio, quali l'allestimento della chiesa, il pranzo di nozze, la luna di miele, rivestono ancora una forte rilevanza e, piuttosto che rinunziarvi, si rimandano le nozze e si accetta l'aiuto dei genitori (Barbagli, Castiglioni, Dalla Zuanna 2003). Anche la soluzione abitativa dopo le nozze è fortemente vincolata al permanere dei legami con la famiglia di origine: in circa il 70% dei m. celebrati alla fine del 20° sec. il nuovo nucleo si stabilisce vicino (a meno di un chilometro) alla casa dei genitori di uno dei due sposi e il costo dell'abitazione, molto spesso l'acquisto, è sostenuto almeno parzialmente dai genitori stessi. Secondo gli studiosi il persistere di vincoli familiari forti contribuisce a scoraggiare o quantomeno a ritardare in Italia l'assunzione del ruolo adulto, sommandosi a fattori strutturali legati al prolungamento della scolarità, al lento assorbimento da parte del mercato del lavoro e alla difficoltà di trovare un alloggio indipendente. Ciò costituisce uno dei tratti distintivi dei giovani italiani rispetto ai coetanei dei Paesi dell'Europa centro-settentrionale, dove, pur con un'analoga tendenza a ritardare le tappe, i giovani escono mediamente prima dalla famiglia di origine. Inoltre, negli altri Paesi europei quando un giovane esce di casa, difficilmente lo fa con il fine immediato del m., ma, piuttosto, per dare inizio a una vita indipendente come single o per sperimentare una convivenza (tab. 1). Un'indagine comparativa a livello europeo (UNECE 2002) ha rilevato che all'età di 20-24 anni, mentre nessun giovane in Italia convive, ben il 45% dei giovani danesi della medesima età e il 25% dei francesi vive un'unione di fatto. La percentuale di conviventi tende a salire un po' nella fascia di età successiva, ma rimane comunque quasi irrilevante, al di sotto persino di quella registrata negli altri Paesi dell'Europa meridionale.
Anche la convivenza precedentemente al m. è un costume ancora poco diffuso in Italia rispetto ad altri Paesi europei: il 91% delle donne tra i 35 e i 39 anni alla fine del 20° sec. contraeva direttamente m. una volta uscite dalla famiglia, e soltanto 4 donne su 100 avevano convissuto prima di sposarsi. Fuorché in Spagna, dove le donne sembrano comportarsi in modo molto simile a quello delle italiane, in qualunque altro Paese europeo le percentuali tanto di donne in unione non coniugale stabile quanto di m. preceduti da un periodo di convivenza raggiungono cifre molto più elevate (tab. 2).
All'inizio del Duemila la diffusione dei 'nuovi' comportamenti sembra assumere maggior dinamismo. Innanzitutto, nelle giovani generazioni cresce in maniera sensibile la percentuale di coloro che considerano accettabile la convivenza fuori dal m.: l'87% dei giovani nati tra il 1976 e il 1985 (Giovani del nuovo secolo, 2002). Inoltre, il 12,4% delle ragazze e il 10,7% dei ragazzi nati tra il 1974 e il 1978 sono usciti dalla famiglia di origine per convivere e, ormai, oltre il 10% dei m. è preceduto da un periodo di vita in comune. Più in generale, il trend delle coppie conviventi è in continuo aumento: le unioni di fatto sono passate dall'1,8% nel biennio 1994-95 al 3,6% del totale delle coppie, pari a 510.000 unità, nel 2001. L'indagine campionaria sulle famiglie che è stata condotta dall'ISTAT relativa al biennio 2002-03 rileva 564.000 unioni di fatto.
Il fenomeno delle unioni libere sembra, dunque, in espansione, ma ancora non del tutto generalizzato. Ciò è provato, in parte, dalla non omogenea distribuzione territoriale: le convivenze si sono diffuse prima nei grandi centri urbani e nelle regioni più industrializzate, e in seguito altrove. Ancora nel 2001 nelle regioni centro-settentrionali la percentuale di persone che vivono in unioni di fatto è più del doppio rispetto a quella registrata nelle regioni meridionali.
Persistono, inoltre, differenze interessanti tra conviventi e coniugati rispetto a numerose caratteristiche demografiche e socioeconomiche. Innanzitutto, sebbene il fenomeno non sia esclusivamente giovanile, ma riguardi in larga parte l'età compresa tra i 35 e i 45 anni, l'età media dei conviventi risulta nettamente più bassa di quella dei coniugati, a dimostrazione del fatto che si tratta di un costume che non ha toccato le generazioni più anziane.
Le libere unioni, inoltre, sono meno prolifiche (il 54% delle coppie di conviventi è senza figli), e ciò sia per un diverso sistema di valori che caratterizza i comportamenti dei non coniugati rispetto alle scelte riproduttive, sia perché, soprattutto in Italia, molte coppie, specie di giovani, si sposano quando sono in attesa di un bambino.
Infine, i conviventi sono mediamente più istruiti e più inseriti nel mercato del lavoro, e la differenza è nettissima per le donne: mentre tra le coniugate la quota di casalinghe è ancora molto elevata, la grande maggioranza delle donne che vivono in unione libera ha un'occupazione retribuita, e più spesso di quanto non accada tra gli sposati la donna ha un titolo di studio più elevato del marito.
Questi dati confermano l'ipotesi che tra le donne lavoratrici con titolo di studio medio-alto vi sia una maggiore propensione verso l'unione di fatto, considerata come uno stile di vita che, più del m., consente loro di superare i ruoli tradizionali e di negoziare con il partner una relazione più paritaria (Zanatta 20032). Diverse rispetto a quelle dei coniugati, le coppie di fatto sono anche molto eterogenee. Infatti, accanto alle coppie di celibi senza figli che decidono di iniziare una vita in comune senza sancire con il m. il proprio legame, ma che conducono un percorso familiare del tutto assimilabile a quello seguito da una coppia di coniugi, esistono forme di unioni la cui origine è molto diversa e comunque più complessa. Tra queste, la situazione più frequente è quella in cui uno dei due partner ha già vissuto una precedente unione o un m., finito per vedovanza o per separazione. Le famiglie che hanno tale origine vengono definite famiglie ricostituite oppure, con un termine anglosassone che è ormai entrato nell'uso corrente, stepfamilies.
Nei Paesi a sviluppo avanzato, nei quali il livello di sopravvivenza degli individui è molto elevato e l'eventuale vedovanza sopraggiunge in tarda età - allorquando la probabilità di riformarsi una famiglia è ormai molto bassa - le stepfamilies sono tanto più numerose quanto più è elevato il tasso di separazione o di divorzio. Nel biennio 2002-03 circa il 47% delle unioni di fatto erano costituite da almeno un partner separato o divorziato. Le stepfamilies si formano anche in seguito a un nuovo m., ma, poiché la propensione a risposarsi da parte di vedovi e divorziati è in netto calo, una quota crescente di queste nuove famiglie si fonda su una convivenza. Nel biennio 2002-03 le famiglie ricostituite rilevate dall'ISTAT sono state 697.000 (pari al 4,8% del totale delle coppie), di cui 397.000 originate da un nuovo m. e 300.000 basate su un'unione di fatto. Il fenomeno è ancora piuttosto contenuto, anche grazie alla frequenza relativamente modesta di separazioni e ancor più di divorzi, ai quali, secondo la normativa italiana, si arriva eventualmente e soltanto dopo almeno tre anni di separazione. Mentre, infatti, nell'Europa nord-occidentale la frequenza di m. che si sciolgono è molto elevata - in Svezia raggiunge anche il 40% -, in Italia non supera il 10%, sebbene il numero degli eventi stia rapidamente aumentando: se nel 2000 le separazioni sono state 71.969 e i divorzi 37.573, nel 2003 le separazioni sono salite a 81.744 e i divorzi a 43.856, valori che acquistano un peso crescente su un numero di m. in costante diminuzione.
Anche le unioni informali non sono immuni dal rischio di scioglimento. Numerosi studi condotti sull'argomento in Italia e in altri Paesi occidentali dimostrano che la propensione alla separazione risulta più alta nelle coppie di fatto e persino tra i m. preceduti da una convivenza rispetto a quelli 'tradizionali'. Se, dunque, un numero crescente di coppie pensa di 'collaudare' la vita insieme prima del m., sperando in una sua maggiore solidità, le statistiche sembrano smentire tale convinzione e, in caso, testimoniano il diverso atteggiamento con cui si avvicina al legame di coppia chi sceglie di convivere piuttosto che sposarsi.
In seguito alla diffusione delle nuove forme di vita familiare si assiste, nella globalità dei Paesi occidentali, a una crescente domanda di riconoscimento dei diritti della famiglia di fatto, specie se stabile, di lunga durata e con figli. Già tra gli anni Sessanta e Settanta del 20° sec., tutti i Paesi, compresa l'Italia, hanno varato norme legislative a tutela dei figli nati fuori dal m., equiparando la loro posizione a quella dei figli legittimi; tutto ciò ha contribuito a indebolire la supremazia dell'istituzione matrimoniale nella regolamentazione dei rapporti tra le generazioni. Nei Paesi scandinavi, all'avanguardia nel riconoscimento dei diritti civili, già dagli anni Ottanta l'unione di fatto gode di uno status giuridico molto simile al m., sia nel campo fiscale e della sicurezza sociale, sia in quello patrimoniale. Nell'Europa continentale si è puntato più che a regolamentare la famiglia di fatto in quanto istituzione, ad assicurare ai partner conviventi diritti e doveri reciproci analoghi a quelli dei coniugi. Il caso più emblematico è quello della Francia, dove nel 1999 sono stati introdotti i Patti civili di solidarietà (Pacs), contratti di diritto privato conclusi tra due individui maggiorenni che decidono di organizzare la loro vita in comune in piena libertà, ma per i quali sono previste norme fiscali, regole per la successione patrimoniale e per l'alloggio in caso di morte di uno dei due, congedi per l'assistenza del partner o dei figli, e infine regole anche in caso della fine dello scioglimento dell'unione. In quasi tutti i restanti Paesi europei, anche in ottemperanza all'art. 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, approvata a Nizza nel 2000 e recepita nel Trattato costituzionale europeo, che espressamente riconosce il diritto al m. e il diritto a costituire una famiglia come diritti distinti, si stanno compiendo passi importanti verso il riconoscimento pubblico della famiglia di fatto e la sua equiparazione giuridica alla famiglia di diritto, ossia fondata sul matrimonio. Soltanto pochi Paesi - tra cui l'Austria, la Grecia e l'Italia - sono ancora indietro in questo cammino.
In Italia, sebbene il dibattito sia molto acceso, manca ancora una normativa sistematica della materia e la regolamentazione delle famiglie di fatto e dei diritti-doveri dei suoi componenti appare ancora lacunosa e ambigua. Una certa dose di ambiguità si ritrova del resto nella Costituzione italiana dove, da un lato, si afferma che "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità […]" (art. 2), principio al quale si appellano i sostenitori del riconoscimento delle unioni di fatto; dall'altro lato, si attribuisce lo status di famiglia soltanto a quelle nate da un m.: "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio" (art. 29). Pertanto, senza m. (preferibilmente celebrato con rito religioso) non c'è famiglia, e quindi non si pone la questione del riconoscimento delle famiglie di fatto semplicemente perché non esistono. In assenza di una normativa di quadro, la giurisprudenza si sta intanto arricchendo di sentenze con le quali sempre più spesso il giudice interviene a definire i numerosi aspetti problematici o conflittuali di natura patrimoniale o legati al mantenimento e all'educazione di figli, che insorgono in caso di morte di uno dei partner o di rottura della convivenza (Mucciconi Albi 2002).
Quando si parla di famiglie di fatto nonché del loro riconoscimento giuridico molte di tali considerazioni vanno estese anche alle unioni tra omosessuali. Appare opportuno soffermarsi ad analizzare tale realtà non tanto per la rilevanza statistica del fenomeno - secondo una stima prudente basata su ricerche svolte in altri Paesi (Black, Gates, Sanders et al. 2000), la percentuale di omosessuali rilevata tra la popolazione adulta non supererebbe tra gli uomini il 2,5% e tra le donne l'1,4%, corrispondenti in Italia a un totale inferiore al milione di individui - quanto per le sue implicazioni culturali, sociali e, conseguentemente, politico-istituzionali. Fino agli anni Novanta del 20° sec. parlare di famiglia in relazione alla convivenza tra persone dello stesso sesso sarebbe andato contro il significato attribuito al termine famiglia, che evoca nella nostra cultura un sistema di relazioni fondate sulle differenze di genere e sulla funzione riproduttiva. Molti degli stereotipi e dei pregiudizi sugli omosessuali ormai stanno cadendo grazie anche a una maggiore conoscenza scientifica sui loro stili di vita e comportamenti.
Gli 'omosessuali moderni', come sono stati definiti da due sociologi che hanno condotto per la prima volta un'approfondita indagine sulle coppie di omosessuali in Italia, mostrano comportamenti molto diversi dal passato, e comunque ben al di là dei luoghi comuni (Barbagli, Colombo 2001).
Gran parte degli omosessuali vive un rapporto di coppia: tra i 35 e i 39 anni si dichiarano in unione stabile il 47% dei gay e il 70% delle lesbiche. Nella vita a due, inoltre, gli omosessuali mostrano le stesse esigenze affettive e di sostegno degli eterosessuali, vogliono instaurare relazioni durature e allevare figli. In questa situazione di crescente emersione della condizione omosessuale, sia per un sempre più disinvolto coming out sia per una maggiore accettazione sociale, cresce anche la richiesta esplicita di diritti, che vanno dalle unioni civili, alle adozioni di figli, fino alla fecondazione assistita. Si tratta di terreni di scontro ancora molto aspri in Italia, ma almeno parzialmente risolti altrove.
Dopo l'approvazione (apr. 2005) da parte del Parlamento spagnolo di alcune modifiche al Codice civile, dove si sostituiscono i termini 'marito e moglie' e 'padre e madre' rispettivamente con le parole 'coniugi' e 'genitori', sono saliti a tre i Paesi nei quali la possibilità di contrarre m. e avere figli è estesa a coppie di omosessuali. Olanda e Belgio, infatti, già hanno approvato una normativa in tal senso; la maggior parte dei Paesi europei, pur non prevedendo l'istituto del m. tra gay, hanno in qualche modo ottemperato alla risoluzione del Parlamento europeo del 1994 che esortava tutti gli Stati a porre fine agli ostacoli frapposti al m. di coppie omosessuali ovvero a un istituto giuridico equivalente, garantendo pienamente diritti e vantaggi del m. e consentendo la registrazione delle unioni. Nei Pacs francesi, per es., sono comprese le unioni tra omosessuali; così pure nel Civil partnership bill approvato in Gran Bretagna nel 2004. Il legislatore italiano, invece, pur escludendo in linea di principio costituzionale ogni discriminazione basata sull'orientamento sessuale, tarda ad avviare una discussione serena sull'argomento, in ciò accomunando i destini delle coppie omosessuali a quelli delle unioni di fatto. Ma, la strada legislativa è preceduta da quella amministrativa: diversi Comuni, infatti, tra cui Bologna, Firenze, Pisa, Ferrara, Perugia e Bagheria, hanno istituito il Registro per le unioni civili; i nuovi Statuti delle Regioni Toscana, Umbria ed Emilia Romagna, inoltre, affermano esplicitamente il riconoscimento della pari dignità sociale della persona, senza alcuna discriminazione sulla base dell'orientamento sessuale.
Se appare lontana e forse, considerate le condizioni sociali e culturali, neanche opportuna l'introduzione di istituti 'sconvolgenti' come il m. tra gay - il quale peraltro è richiesto in una minoranza di casi anche nei Paesi a più antica tradizione liberale come i Paesi Bassi, dove l'ufficio nazionale di statistica ha stimato che alla fine del 2002 meno del 10% delle coppie gay 'aventi diritto' hanno contratto m. -, sembra invece più vicina la prospettiva del riconoscimento giuridico e della tutela per due persone che scelgono di condividere una parte importante della loro vita senza sposarsi. Senza intaccare in alcun modo l'istituto del m. e riconoscendo il principio del favor matrimonii, la concessione di diritti quali l'assistenza reciproca e libera anche nelle strutture pubbliche in caso di malattia, la possibilità di ereditare reciprocamente anche senza testamento e ricevere la pensione di reversibilità, la tutela in caso di separazione, il godimento di tutti i diritti e le agevolazioni previste per le coppie eterosessuali e sposate, non risponde soltanto alle richieste di un minoritario, sia pure in espansione, gruppo selezionato di cittadini, ma piuttosto all'esigenza di garantire anche in tale materia, in uno Stato laico e democratico, i basilari principi di equità sociale.
bibliografia
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La famiglia in Europa, a cura di G. Rossi, Roma 2003.