Matelda
Nome (Pg XXXIII 119) della donna soletta incontrata da D. nel Paradiso terrestre, che va e cantando e scegliendo fior da fiore (XXVIII 41) sulle rive del Lete. Interrogata dal poeta, M. spiega la sua letizia con un riferimento al salmo Delectasti (v. 80); risolve poi i dubbi di D. sulle acque e i venti della divina foresta (XXVIII 85-133), aggiungendo come corollario che quello è il luogo sognato dagli antichi poeti quando dipinsero l'età dell'oro (vv. 134-144). Quindi, cantando il salmo 31 (Pg XXIX 3), conduce D. lungo il fiume incontro ai sette candelabri che aprono una splendida processione (vv. 15 ss.), esortandolo a guardare attentamente anche ciò che vien di retro (vv. 61-63); fa attraversare al poeta il Lete e gliene fa bere l'acqua (XXXI 92-102), poi lo conduce fra le quattro belle, ancelle di Beatrice (vv. 103-104). Resta accanto al poeta quando egli si assonna (XXXII 64-69); assicura Beatrice di aver già parlato a D. dei due fiumi dell'Eden (XXXIII 119-123) e infine esegue il comando di lei conducendo il poeta a bere l'acqua dell'Eunoè (vv. 130-135).
L'identificazione di M. deve necessariamente affidarsi a tali dati e a pochi elementi strutturali, giacché questa figura è del tutto priva di quei tratti emblematici che favoriscono il riconoscimento di altri personaggi del poema. Di qui le controversie sia riguardo alla persona storica, sia riguardo al significato simbolico di M., mentre è generale l'ammirazione per la soave immagine poetica collocata da D. sullo sfondo del Paradiso terrestre.
La persona. - È nozione comune che gli antichi commentatori siano concordi nel riconoscere nella M. dantesca - per essi simbolo della vita attiva - la famosa contessa Matilde di Canossa (1046 - 1115), grande fautrice della Chiesa durante la lotta delle investiture. " Questa fu la contessa Matelda, proba, savia e vertudiosa ", è la chiosa del Lana all'apparizione della donna soletta (Pg XXVIII 37 ss.); e Pietro Alighieri allo stesso luogo: " Fingendo se invenire umbram comitissae Matheldae magnificentissimae dominae, quae viguit anno 1060, quae probissima fuit mulier et infinitas construxit, de suo dotando, basilicas. Ac etiam adeo suo tempore potens extitit, quod imperatori bellum ingessit et quae dum ad mortem adpropinquaret totum suum patrimonium super altare Sancti Petri in Roma obtulit, quod adhuc hodie dicitur ‛ patrimonium Ecclesiae ' ". Gli altri antichi ripetono le stesse cose, salvo l'Anonimo fiorentino che attento, come sempre, ai cronisti (cfr. G. Villani Cron. IV 21), in chiosa a Pg XXXIII 119 scrive: " fu per madre nipote dello imperadore di Gostantinopoli, la quale, morto il padre e la madre, rimase ereda di molte castella in Lombardia et in Toscana, e maritossi a Gulfo duca di Savoia, et da lui si partì perché non potea generare figliuoli; et poi sua vita menò senza uso carnale, attendendo ad opere piatose. Molte chiese, monasteri et spedali et ponti fece fare; et due fiate in soccorso della Chiesa potentemente venne, l'una contro alli Normandi, li quali violentemente alla Chiesa avean tolto, al tempo di papa Alessandro secondo; l'altra contro Arrigo terzo di Baviera, et poi contro Arrigo quarto per la Chiesa in Lombardia combatté, et vinselo al tempo di papa Calisto secondo. Fece testamento et il suo patrimonio offerse a Santo Piero. Morì nel MCXV ". Questa è la nota di più larga informazione; lo stesso Benvenuto, infatti, si limita ad aggiungere alle solite vaghe notizie un elogio del Petrarca alla contessa (chiosa a Pg XXXIII 119). Si suol citare come unica eccezione tra gli antichi l'autore dell'Ottimo, il quale identifica M. con Lia, che la prefigura nel sogno del poeta (XXVII 94-108), e Lia chiama la donna soletta anche nella chiosa al verso che porta il nome di M. (XXXIII 119); è da ricordare, però, che anche il Serravalle, nella chiosa a Pg XXIX 1, riconosce Lia in M., e polemizza apertamente su ciò col suo maestro Benvenuto. Anche se non esplicitamente fondata sulle ragioni dei moderni, un'incrinatura c'è, dunque, nella compattezza degli antichi; tuttavia per secoli l'identificazione di M. con Matilde di Canossa fu accolta senza riserve. Solo nel Settecento il Venturi insinuò un dubbio nella prima edizione del suo commento (1732), così annotando una donna soletta: " Questa è Matelda, di cui il poeta aspetta a palesare il nome al v. 119 del canto XXXIII di questa cantica, di essa quasi del continuo in tutti i canti ragionando. Per essa è certo che il poeta intende la vita attiva: chi poi ella sia è difficile il risaperlo. I commentatori tirando a indovinare suppongono essere la gloriosa e tanto della Chiesa e dell'Italia benemerita contessa Matilde... ". Da allora la contessa non ebbe più pace: il Lombardi e il Cesari ridussero l'identificazione a un'ipotesi più o meno probabile; l'Ottocento storicista e patriottico, incline a foggiarsi un D. ghibellino, trovò nei motivi stessi che avevano suggerito ai primi commentatori il nome di Matilde di Canossa - l'ostinata difesa della Chiesa contro l'Impero e la famosa donazione a S. Pietro - gli ostacoli maggiori a riconoscere nella donna dell'Eden la gran contessa. Attraverso i commenti del Costa, del Fraticelli, del Bianchi si formò una corrente avversa a Matilde di Canossa destinata a sfociare nella recisa sentenza del D'Ovidio: " Una sola cosa è certissima: Matelda non è la contessa ".
Il rifiuto di Matilde portava a un bivio: o trovare un'altra identificazione storica o conferire al personaggio un puro valore simbolico. Fin dal 1842 il Goeschel avanzò l'ipotesi che il nome di M. indicasse la Donna gentile della Vita Nuova e del Convivio e fu seguito da molti che, fondandosi sulla familiarità della misteriosa creatura con Beatrice, accettarono l'indicazione della Donna gentile o cercarono nel libro giovanile di D. altre immagini femminili secondo loro meglio rispondenti a M.: il Minich pensò all'amica di Beatrice alla cui morte si accenna al cap. VIII della Vita Nuova; il Bastiani a Monna Vanna; lo Scartazzini, con minuta discussione delle tesi precedenti, alla donna dietro la quale D. schermì " per alquanti mesi ed anni " il suo amore per Beatrice; il Borgognoni alla donna che nel capitolo XVIII del libello giovanile chiede al poeta quale sia lo scopo del suo amore.
Altri studiosi si rivolsero a personaggi di maggior rilievo storico. Michelangelo Caetani pensò a s. Matilde, moglie di Arrigo I e madre di Ottone il grande, ma la pia regina tedesca, morta ottantenne nel 968, non convinse molti. Antonio Lubin attirò l'attenzione su s. Matilde di Hackenborn, benedettina nel convento di Helfta presso Eisleben in Sassonia, morta nel 1298 a 57 anni, protagonista di visioni raccolte dalla compagna di chiostro s. Gertrude in un ascetico Liber gratiae spiritualis, che offre qualche riscontro strutturale col Purgatorio dantesco. In seguito però E. Boehmer accostò alla precedente una Matilde di Magdeburgo, poco più anziana e vissuta nel medesimo chiostro, autrice di un poemetto in basso tedesco Fliessendes Licht der Gottheit, del quale circolarono molte versioni latine, che ha vaghe rassomiglianze con l'oltretomba della Commedia, e suppose che D. per ignoranza avesse fuso le due suore in una sola persona. Infine W. Preger giunse a escludere del tutto la Matelda di Hackenborn a favore di quella di Magdeburgo, ritenendo la prima morta nel 1310 e quindi troppo tardi rispetto all'elaborazione della Commedia; ma L. Paquelin dimostrò che la morte della Hackenborn andava fissata al 1299 e riportò la discussione al punto di partenza. Intanto lo Scherillo trovava, riferite da Dionigi il Certosino (1403-71), certe visioni di una beata Mechtildis che lo inducevano a pubblicare un saggio intitolato Matelda svelata; ma subito A. Mancini dimostrò che il capitolo dionisiano (31) " riassume e interpreta il capitolo IX del libro V delle rivelazioni di Matilde di Hackenborn ".
Tale convergenza e la data stabilita dal Paquelin rafforzarono la posizione della Hackenborn, e il D'Ovidio (Nuovi studii..., pp. 486 ss.) riassunse vigorosamente le ragioni dell'identificazione. Ma la candidatura della gran contessa, che si era nel frattempo affievolita (solo il Cornoldi, nel suo commento, teneva ferma l'indicazione tradizionale, anzi riferiva proprio a Matilde di Canossa la lauda di donna Matelda ricordata dal Boccaccio [Dec. VII 1 5] che era stata tirata in ballo a favore delle beate vergini sassoni), riprendeva forza proprio per contrapposizione: il Rocca (1898) e soprattutto il Picciola (1901) ridettero vigore all'antica identificazione con nuovi riscontri sulla fama di bellezza, sulla tradizione iconografica e sulle leggende di verginità fiorite intorno alla contessa. Si sviluppò in quegli anni una polemica erudita in cui al D'Ovidio, allo Scherillo, al Mancini, sostenitori di Matilde di Hackenborn, si opposero il Bertoldi, lo Zuccante, il Busnelli che confermarono il riferimento alla contessa. A questi ultimi si affiancò il Pascoli con un saggio insolitamente asciutto, fondato sull'esame del poema di Donizone. Non mancarono, ai margini, proposte nuove, come quella di Carmelo Cazzato che pensò a Maria Maddalena, e si formularono ipotesi talvolta cervellotiche sulla struttura del nome.
Queste ultime inclinavano all'altra via interpretativa, quella che vedeva in M. un mero simbolo, soluzione già prospettata da V. Barelli, da H. Grieben, da M. Mandalari, dal Poletto, nel suo commento al poema, e ripresa dal Porena e dallo Zingarelli nel suo Dante della collezione vallardiana (2a ediz.1944); mentre il D'Ancona (" Rass. Bibl. della Lett. Ital. " VII [1899] 1067) e il Parodi (" Bull. " VI [1899] 153 ss.) propendevano verso una delle fanciulle che fan coro a Beatrice nella Vita Nuova. Nessuna delle parti contendenti però riuscì a trovare argomenti capaci di ridurre al silenzio gli oppositori; e così ancor oggi i commentatori lasciano sospesa l'identificazione (Steiner, Mattalia) o inclinano con più o meno convinzione verso l'una o l'altra delle ipotesi maggiori: la contessa (Del Lungo, Sapegno, Fallani), una donna della Vita Nuova (Casini, Chimenz), un mero simbolo (Mestica, Pietrobono, Grabher, Momigliano, Porena): solo le monache sassoni che tanti consensi avevano suscitato sulle prime (cfr. anche G. Salvadori) hanno perso terreno, specialmente dopo la serrata confutazione del Bertoldi (cfr. però J. Ancelet-Hustace).
Più di recente la questione ha ricevuto un contributo nuovo dal Nardi, che si è soffermato su una nota di Cino da Pistoia alla glossa accursiana a proposito del divieto di arbitrato imposto alle donne dal codice giustinianeo (Cod. II, tit. 56,l.6), divieto cui si sottrassero, attesta la glossa, solo due donne eccezionali: Maria di Champagne e Matilde di Canossa. Cino chiosa: " Comitissa Matilda... fuit filia regis Italiae et successit in regno et gessit omnia tamquam rex ". Se così vaghe erano le notizie del poeta giurista amico di D. intorno alla gran contessa e convergenti a sottolineare l'eccezionalità del suo potere sovrano e della sua attività giusdicente, è lecito supporre che D. potesse non saperne molto di più: verrebbero quindi a cadere le obiezioni sollevate contro la fiera nemica dell'Impero. In tal caso, però, l'identificazione viene a poggiare sul presupposto della totale ignoranza da parte del poeta della personalità storica di Matilde, il che non finisce di persuadere perché pare strano che D. abbia assegnato una parte di tanto rilievo senza una vera motivazione. D'altronde Pietro Alighieri e altri commentatori antichi ricordano l'azione antimperiale di Matilde e la sua donazione alla Chiesa; perciò sono più coerenti quegli interpreti che cercano ragioni positive per quella scelta, come il Koenen e il Barbi, i quali vedono in M. la gran contessa perché personaggio conveniente a introdurre il poeta alla processione che mostra i dolorosi rapporti fra Chiesa e Impero. Lo stesso Nardi, d'altra parte, non nasconde che l'identificazione tradizionale non supera la difficoltà opposta da chi obietta che per le funzioni rituali a lei affidate M. dovrebbe trovarsi nell'Eden dal tempo della redenzione. A tale aporia cerca una via d'uscita il Contini riprendendo la tesi " non di necessità falsa per esser corrente, dell'ordinata corrispondenza di Matelda e Beatrice a Lia e Rachele "; tesi che " importa probabilmente altrettanta solidarietà onomastica nella prima quanto nella seconda coppia: in altri termini, che qualunque fosse l'etimo dantesco dei due nomi (e su Matelda per il momento è da confessare solo ignoranza) Matelda come Beatrice deve essere estratta dalla privata biografia di Dante. Questa argomentazione di carattere strutturale viene certamente a suffragare l'opinione di chi tende a ravvisare in Matelda una delle amate subalterne di Dante, verisimilmente una di quelle della Vita nuova ". Coerentemente il Contini affronta l'interpretazione del se' usa di Pg XXXIII 128, che potrebbe intendersi " già praticasti ", a norma di deponente, come ‛ fu nato ', ‛ fu morto ' per ‛ nacque ', ‛ morì '; ciò darebbe un decisivo apporto all'identificazione con la Donna gentile della Vita Nuova, già riproposta con chiarezza e misura dal Natali. Nella nota del Contini è implicito un richiamo metodico: l'importanza preliminare dell'interpretazione testuale. Infatti l'identificazione storica, a ben guardare, è condizionata dalla diversa lettura di almeno due passi fondamentali: l'incontro di D. con la donna e l'accenno di Beatrice come tu se' usa. D. ha già conosciuto la donna soletta oppure no? E la donna che Beatrice chiama M. è usa a ravvivare la ‛ virtù ' di D. oppure di tutti gli spiriti? È chiaro che se D. non conosce la misteriosa donna, cade l'ipotesi di una fanciulla tratta dalla biografia del poeta, ed è chiaro che se M. deve compiere per tutti gli spiriti il suo ufficio catartico, cade non solo l'ipotesi delle " fiorentinelle ", come le chiamò il Barbi, ma anche quella della gran contessa. Da più di un secolo studiosi stimabili giurano per le opposte interpretazioni, ma nessuno ha ancora trovato un argomento che escluda la tesi opposta ed è lecito sospettare che il testo dantesco non offra un appiglio incontrovertibile. Perciò si è rafforzata l'ipotesi del mero simbolo (cfr. D. Bianchi), la quale urta però contro il generale ‛ sistema ' rappresentativo dantesco: tutti i compagni di viaggio del poeta, Virgilio, Stazio, Beatrice, s. Bernardo, sono personaggi storici o mitologici, e tali sono tutti i personaggi che hanno, come M., un nome. Per superare la difficoltà si fa appello alla libertà del poeta; ma, nell'incertezza, pare più prudente non attribuire a D. contraddizioni in un mondo fantastico che tutti riconoscono di eccezionale coerenza; M. ha un nome e s'inserisce nella serie Virgilio, M., Beatrice, s. Bernardo: sarebbe dunque strano che non corrispondesse a una persona reale. D'altra parte Virgilio, Beatrice, s. Bernardo adempiono il loro ufficio soltanto rispetto a D. e al suo viaggio; non sarebbe dunque eccezionale che M. lo compisse solo per lui. Se l'inciso se' usa è riferito al poeta, da un lato vien meno la necessità teologica di far corrispondere a M. una donna morta prima della redenzione e la difficoltà di distrarre stabilmente dal Paradiso celeste una beata; d'altro lato si stringe il rapporto tra Beatrice e M., entrambe ausiliarie del poeta. Tali considerazioni naturalmente fanno gravitare l'identificazione su qualche donna, come Beatrice, già presente nella poesia di Dante. Ma non va taciuto che anche quei commentatori che propendono per una M. fiorentina non affrontano, nella chiosa, il problema del necessario riconoscimento di D.: gli stessi saggisti lo risolvono con troppa facilità fondandosi sul fatto che D. non esita al nome pronunciato alla fine da Beatrice, oppure con assai dubitabili considerazioni sull'immediato vagheggiamento del poeta all'apparire della bella donna: e poi con molta disinvoltura attribuiscono a questa ipotetica fiorentina un ufficio rituale verso tutti gli spiriti destinati al Paradiso. L'interpretazione letterale del se' usa è la difficoltà maggiore per risolvere l'enigma di M. nel senso che sorrise al Goeschel, al Minich, allo Scartazzini, al Borgognoni, al D'Ancona, al Parodi e, da ultimo, al Contini. A minori ostacoli, apparentemente, vanno incontro i sostenitori del mero simbolo, cui non si parano innanzi difficoltà testuali o teologiche; eppure la loro soluzione è minata in profondo da una ragione di coerenza strutturale che tutti avvertono e che essi stessi trascurano solo per non arrendersi a identificazioni poco persuasive. Meno convincenti ancora le soluzioni di compromesso, come quella proposta da Paolo Chiti: " Matelda è una creazione della fantasia poetica di Dante, nella cui formazione egli ha tenuto presente, e con la scelta del nome ha inteso esaltare, la famosa contessa di Toscana "; tesi che va incontro a una doppia serie di ostacoli.
Non hanno avuto seguito alcune proposte stravaganti, come quella di C. Schloss, che vide in M. la moglie del poeta, Gemma Donati; quella del Maruffi, che sulla base di congetture etimologiche sul nome di M., ricondotto a matrici ebraiche, pensò che la bella donna fosse figura di Raab; quella del Walsch, che nella " bella donna " vede donna Bella, la madre del poeta, suggerita anche dal nome M., che varrebbe Mater Da[ntis].
Il simbolo. - Anche riguardo al valore simbolico gli antichi interpreti appaiono abbastanza concordi: il Lana, infatti, fa seguire all'identificazione di M. con la " vertudiosa " contessa di Toscana, la dichiarazione: " qual pone per la vita activa ", e Pietro Alighieri chiude la chiosa sopra citata asserendo: " Sub allegoria A. eam accipit pro vita activa, quae habet nos ad terrestrem felicitatem ducere, hoc est ad paradisum quemdam terrestrem, ut contemplativa ad coelestem ", e così tutti gli altri. Il Buti però, dopo aver affermato anch'egli (Pg XXVIII 37) che M. rappresenta la " vita attiva ", aggiunge: " figura questa donna ancora tutta la pratica de la Santa Chiesa "; poi, chiosando le spiegazioni di M. (vv. 88 ss.), afferma che la donna rappresenta " la dottrina de la Santa Chiesa, la quale o si legge da li studiosi letterati, o si comprende e impara da non letterati quando in pubblico si predica "; in seguito, oscillando fra la dottrina e il ministero della Chiesa, inclina alla prima interpretazione nelle chiose a XXVIII 148 e a XXIX 97; e alla seconda nella dichiarazione del come tu se' usa (XXXIII 128) e nella chiosa a XXXI 92, importante perché inaugura l'analisi onomastica: " intese che... Matelda, che significa l'autorità sacerdotale (imperò che Matelda si può interpretare ‛ mathesim laudans ', cioè ‛ lodante la divinazione ', o vero la ‛ scienza di Dio '), l'assolvesse ". L'interpretazione dottrinale prende poi spicco col Landino, che afferma: " ... a Mathelda, idest alla doctrina theologica, la quale discrive la felicità della vita activa, come Beatrice contiene la doctrina della contemplativa " (chiosa a Pg XXVIII 148), e chiarisce: " pone Mathelda per la Teologia practica, el cui officio è predicare, amaestrare, baptezare, e simil cose " (chiosa a Pg XXXIII 118).
Vengono in tal modo a delinearsi tre fondamentali linee interpretative del simbolo di M., le quali in sostanza si distinguono perché pongono in particolare evidenza uno fra i dati testuali citati in principio: o l'andar cogliendo fiori, che accosta la donna soletta a Lia, figura della vita attiva; oppure i riti lustrali, che fanno pensare alla " pratica della Chiesa "; o, infine, le dichiarazioni della bella donna, che le attribuiscono funzione di guida, nel silenzio di Virgilio e prima che Beatrice assuma il posto del poeta latino. Tali agganci al testo hanno mantenuto in vita tutte e tre le interpretazioni, e in primo luogo quella che fa di M. la figura della perfetta vita attiva. Essa si appoggia non solo al sogno profetico del canto XXVII del Purgatorio, ma anche, e nel modo più semplice, a un rilevante aspetto strutturale del poema, cioè il parallelismo fra vita attiva e contemplativa, Lia e Rachele, Marta e Maria, sul quale il pensiero del poeta torna più volte anche altrove (Cv II IV 10, IV XVII 8-12, XXXI 10-12; Mn III XV 7). La chiarezza di questa interpretazione, la quale, come accennammo, giunge con l'Ottimo e il Serravalle all'identificazione personale di M. con Lia (identificazione ripresa modernamente dal Negri), si oscura un poco presso quei moderni che vogliono precisare con più sottigliezza il simbolo per stringerlo in modo più intimo ai valori cristiani. Accanto ai molti che si attengono alla definizione tradizionale (fra i commentatori: Volpi, Venturi, Costa, Tommaseo, Bianchi, Filalete, Witte; fra i saggisti H.C. Barlow, E. Moore, G. Zuccante [Fra il pensiero...] e A. Bertoldi), o che vogliono soltanto renderla filosoficamente più precisa (come il Busnelli: " A nostro avviso Matelda significa la pratica del libero arbitrio diritto e sano, ossia l'operazione perfetta secondo virtù "; o il Flamini, per cui M. significa " la buona abituale elezione, o abito di buona elezione ") ecco infatti il Lombardi accennare all'attivo " amore della Chiesa ", interpretazione cui si accostano il Cesari, il Fraticelli, l'Andreoli e molti altri fra coloro che pensano a Matilde di Canossa. Ma attraverso il Barelli, che accenna alla " carità operosa ", l'interpretazione finisce col trapassare nell'altra di chi, ricollegandosi alle oscillanti chiose del Buti, pensa, come lo Scartazzini, figurato in M. il ministero stesso della Chiesa, tesi ripresa di recente da I. Jacchia che in M.-Matilde, posta tra Catone, l'umanità giusta, e Bernardo, la Chiesa trionfante, vede " la Chiesa militante (sposa di Cristo) nel suo magistero terreno indispensabile a raggiungere la beatitudine celeste ". È avvertibile in tali interpretazioni uno spostamento del simbolo dal pratico al teoretico - già avvenuto con le ipotesi del Bastiani, " la religione ", o del Botta, " la dottrina cristiana " - parallelo all'inclinazione a vedere in M. una mera allegoria, o una delle monache sassoni, come il Preger che, ispirandosi ai suggerimenti del Landino, pensa alla " mistica pratica ", affiancata come minore sorella a Beatrice " mistica speculativa ".
Ma in modo ancor più nitido si staccano dalla tradizione coloro che non riconoscono in M. il simbolo della mera vita attiva, sia pure cristianamente spiritualizzata; fu il Poletto a porre per primo la questione: " Matelda in sé raffigura sì la vita attiva che la contemplativa, in quanto si può esercitare dall'uomo in questo mondo ". A tale indirizzo venne ad accostarsi (per una via intricata e difficile: D. nuovo Giacobbe) anche il Pascoli, che scorgeva in M. il simbolo dell'arte in senso tomistico, " che è bensì abito operativo, ma anche virtù intellettuale ". Degli argomenti del Poletto si giovò anche il Valli, per inserire nel suo complesso sistema allegorico M. come sintesi di Lia e Rachele, di azione e contemplazione; e poi quasi tutti coloro che vedono in M. un'immagine della felicità temporale, la quale, sulla scorta della parola stessa del poeta (Cv IV XXII 10-12; Mn III XV 7), dev'essere insieme attiva e contemplativa: tesi avanzata dal Porena in un saggio (Delle manifestazioni plastiche...) che ebbe il pronto consenso del D'Ovidio (Nuovi studii...) e ancor oggi è accolta da molti autorevoli commentatori (Sapegno, Chimenz), dai più recenti ‛ lettori ' del canto (T. Nardi, A.E. Quaglio), e da studiosi come B. Nardi e R. Dragonetti.
Parallelamente altri studiosi, ritenendo che il Paradiso terrestre rappresenti la felicità umana prima del peccato originale - la felicità umana dopo il peccato essendo simboleggiata dal colle ai margini della selva del proemio alla Commedia - preferirono vedere in M. un simbolo dell'innocenza originaria, tesi enunciata primamente dal Minich, ripresa con variazioni non sostanziali dal Graf, dallo Scarano e recentemente dal Singleton e dal Bianchi. All'idea dell'innocenza originale, da riconquistarsi attraverso una purificazione, si ricongiunge anche la complessa indagine del Pézard sul mito ninfale nella Commedia. Lo studioso francese osserva: " l'anima non potrebbe sposarsi a Dio in mistiche nozze senza l'aiuto di una paraninfa, che è appunto Matelda. Le acque lustrali son le memorie finalmente ritrovate dall'anima della sua natura divina ". A siffatta linea interpretativa può ricondursi, non ostante la diversa terminologia, la dichiarazione del Torraca, che, nel suo commento (Pg XXXIII 118), allineò molti argomenti (fra cui un'improbabile ipotesi etimologica che riconduce il nome della bella donna a macto-magis augeo) per provare che M. è la gratia gratum faciens, cioè la grazia santificante che ci libera dal peccato e opera la rigenerazione interiore dell'uomo.
Ben distinta dalle precedenti, invece, si presenta la terza linea interpretativa, quella che si appunta alla funzione di M. come guida e maestra. A prescindere dall'interpretazione esoterica di G. Rossetti, che vide in M. " la principesca autorità amministratrice dell'Italia riunita e concorde, autorità soggetta all'Impero ", secondo lui simboleggiata da Beatrice (Comm. analitico al Purgatorio, Firenze 1967, 504), il Goeschel, nelle pagine in cui propose l'identificazione ‛ storica ' di M. con la Donna gentile, ne interpretò per primo l'allegoria in senso dottrinale, facendone la personificazione della filosofia, che però " in quel luogo di purità, non può esser se non quella dei dottori noverati nel X canto del Paradiso ". La proposta fu accolta dal Picchioni (comm. alla D.C., Milano 1846, 273 ss.), dal Notter nel suo commento al poema (Stuttgart 1872, Il 359) e da altri, ma incontrò l'opposizione di quanti legavano allegoricamente M. a Lia. Si sforzò di superare la difficoltà il Fornaciari, osservando che la corrispondenza di M. a Lia richiama quella di Beatrice a Rachele, e " poiché è certo che Beatrice non è figura della vita contemplativa, ma una scienza appartenente ad essa, così è coerente che Matelda non la vita stessa attiva rappresenti, ma la scienza che la regge e governa, cioè la filosofia ". A prevenire l'obiezione che, per evitar la duplicazione di Lia, si cade in tal modo nel raddoppiamento di Virgilio, il Fornaciari aggiungeva: " Né usurpa essa il luogo di Virgilio o di Stazio, cioè della filosofia o scienza pagana, ma compie l'opera loro " come filosofia cristiana, devota ancella di Beatrice. In questa linea un importante intervento fu quello del Pietrobono, che vide in M. " personificata la sapienza dell'Antico Testamento " e svolse la sua tesi con dovizia di puntuali riscontri con le Scritture: son richiami che colpiscono forse più quando si prescinda dal complesso sistema allegorico del Pietrobono (coi ricorrenti binomi di Lucia e Beatrice, della croce e dell'aquila, della giustizia e della pietà e dei due popoli che le rappresentano, l'ebraico e il romano, che qui sarebbero divisi e distinti dal Lete, la bella donna a rappresentare la sapienza del popolo della pietà, i poeti a rappresentare la sapienza del popolo della giustizia), e si pensi soltanto alla sapienza rivolta alla fede. È ciò che sostenne M. Campodonico movendo, al solito, dal parallelismo Lia-Rachele-M.-Beatrice, per inferirne che M. dev'essere " sorella " a Beatrice, come Lia a Rachele; siccome a quest'ultima, la vita contemplativa, corrisponde la verità rivelata (Beatrice), che conduce al Paradiso celeste, a Lia, vita attiva, può corrispondere la verità conquistata, la philosophia doctrinalis, che conduce al Paradiso terrestre. Sull'argomento, dopo una replica del Pietrobono, che ribadì la sua accezione particolare della sapienza personificata in M., intervenne U. Fresco presentando più liberamente la bella donna come immagine della sapienza umana riconciliata con Dio, intermedia fra Virgilio, la sapienza umana nell'antico errore, e Beatrice, la sapienza divina: concezione che in tal modo verrebbe a ricongiungersi con l'idea della nobiltà dell'anima com'è esplicata nel IV trattato del Convivio.
Qualcosa di simile, anche riguardo a M. come nuova Eva (vecchio suggerimento del Busnelli), aveva già accennato il Salvadori, vedendo figurato nella bella donna un grado dell'intelletto. Parallela a quest'ultima è la spiegazione di R.B. Harrower, per la quale Virgilio e M. sono due momenti della ragione umana, rappresentando il primo l'intelletto dell'uomo caduto, la seconda l'intelletto dell'uomo prima del peccato originale. A conclusioni un po' più ristrette torna il Casella, che pur vede in M. un gradino dell'ascesa interiore del poeta: " la nuova perfezione che Dante conferisce a se stesso salendo dall'effetto alla causa prima dalla bellezza creata alla bellezza increata, egli la oggettiva in Matelda al cui simbolo concreto dà luce il salmo Delectasti. Matelda - la bella donna che si riscalda ai raggi d'amore e canta tessendosi una ghirlanda di fiori - è, per astrazione del suo costitutivo formale, la saggezza che anima i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento ". A tale interpretazione si ricollega la chiosa del Mattalia: " Matelda è la sapienza ermeneutica o più latamente esegetica intesa non solo alla spiegazione delle Scritture, ma anche alla interpretazione allegorica dei poeti ". Ma in questa linea par più prudente l'interpretazione meno costrittiva, quella cioè che, dallo Zingarelli al Natali, vede in M. un simbolo analogo a quello che D. stesso ha indicato nella Donna gentile, e cioè la Sapienza, prospettata qui come il culmine della vita temporale e coordinata a Beatrice.
Generalmente confluiscono in questa corrente interpretativa anche le numerose indagini onomastiche intorno a Matelda. Così il Fornaciari pensò a un composto di due radici greche (μαθ-, da μανθάνω, ελδ-, da ἔλδομαι) che ricondurrebbero il nome ad ‛ amore di sapere ', cioè filosofia, interpretazione parzialmente avvalorata dalle ricerche del Campodonico, che si rifà a un verso citato nel Polycraticus di Giovanni di Salisbury, nelle Derivationes di Uguccione e nel Catholicon: Scire facit Mathesis, sed divinare Mathesis, donde i lessicografi medievali ricavavano che la matematica fosse " quasi doctrinalis scientia velut quae per illam venitur ad theologiam quae est doctrina doctrinarum et scientia scientiarum ", e con essa designavano l'insieme delle scienze del Quadrivio. Altri, come il Maruffi, pensarono invece a etimi ebraici (math-el-da, che, letto a ritroso, significherebbe " la Dio veggente "), o a un composto latino-ebraico, come il Rizzo (Mact-El-Degua, " glorificatrice della scienza di Dio "), o a una crittografia, come il Morpurgo (" Neophilologus " IV [1918-19] 79-82), che scompone il nome di M. in modo da leggervi m'adleta, secondo il salmo citato dalla bella donna a spiegazione del suo riso; o come J. Goudet, che anagramma M. in Ad Letam, in modo da far della donna soletta una prefigurazione di Beatrice, colei, appunto, che bea e gioisce. Ma nulla di certo è uscito, né poteva uscire, da tali indagini, che presuppongono in D. una dottrina linguistica che egli era ben lontano dal possedere; e meno ancora dalle fantasie etimologiche escogitate da L. Mascetta-Caracci per convalidare la sua identificazione di M. con Vanna-Primavera, all'infuori della poca luce che il verso riportato dai lessici e dal Polycraticus getta sulla ricordata interpretazione del Buti.
Le indagini più recenti si allontanano, dunque, in varia misura dall'interpretazione comune degli antichi, che vedeva rappresentata in M. la vita attiva. Ciò non solo per evitare una duplicazione di Lia, col nome inesplicabilmente mutato, ma anche perché la felicità temporale rappresentata dal Paradiso terrestre si raggiunge, per dichiarazione di D. stesso, con la perfetta operazione delle proprie virtù morali e intellettuali: non solo, dunque, attraverso la vita attiva, ma anche attraverso la contemplativa. Questo il motivo per cui ha trovato tanti seguaci l'interpretazione che vede in M. riunite Lia e Rachele, appoggiata al dato della lettera: M., infatti, se va cogliendo fiori come Lia, diversamente da questa non è cisposa (Gen. 29, 17), ma ha occhi bellissimi. Peraltro la fusione dei due simboli in uno rompe l'ordinaria simmetria fra Lia e Rachele, da un lato, e M. e Beatrice dall'altro; d'altronde lo sfondo dal quale emerge M. esercita tale suggestione, che molti sono indotti a vedere nella bella donna la stessa felicità naturale, cui appunto deve condurre la perfetta vita attiva. Anche in questo caso, però, s'incappa in una duplicazione del simbolo già proprio dell'Eden, del quale M. diviene un puro riflesso; perciò fin dal tempo del pregevole studio del Minich, alcuni interpreti preferiscono pensare alla personificazione dell'innocenza originale. Ma i molti che riflettono sulla successione di M. a Virgilio, come di s. Bernardo a Beatrice, e pensano alla conducitrice dei passi del poeta (Pg XXXII 83), inclinano a configurarsi M. come un complemento di Virgilio nella guisa in cui Bernardo è complemento di Beatrice: e questa è forse la via che incontra minori ostacoli quando si tengano presenti le ragioni che possono giustificare il rapporto fra la sapienza e Lia. Anche qui le difficoltà derivano anzitutto dall'interpretazione testuale, indecisa su molti punti: a quelli cui abbiamo accennato parlando della persona storica di M. dobbiamo ora aggiungere il forse perch'io rido /... in questo luogo (XXVIII 76-77) tradotto ora " perché io mi trovo qui lieta " (G. Zuccante, Figure e dottrine..., pp. 43-46), ora " perché io sorrido non ostante mi trovi qui ": i poeti cioè stupiscono della ‛ presenza ' o del ‛ riso ' di M. nel Paradiso terrestre? La risposta di M. esce diversamente orientata dalle due letture; d'altra parte il salmo Delectasti (la stessa parola ‛ salmo ' è usata in senso proprio o è sineddoche per ‛ versetto '?) destinato a ‛ disnebbiare ' l'intelletto dei poeti - e dei lettori - suona diverso se assunto nella sua integrità o se richiamato per il luogo particolare. Diverse conseguenze poi importa l'interpretazione della ‛ virtù ' che M. è usa ravvivare: virtù memorativa o virtù in senso generico? In questo campo, ancor più che per l'interpretazione storica, le generali convinzioni strutturali dell'interprete profittano della disponibilità del testo, giacché l'allegoria fondamentale del poema, l'unica certa, quella indicata alla chiusa della Monarchia, lascia un largo margine di opinabilità per i simboli particolari.
La figura poetica. - Ai primi del secolo, quando infuriava la polemica sulle varie Matildi, al Picciola parve impossibile intendere appieno la poesia di M. senza far corrispondere a quel nome una precisa identificazione storica; al Porena per contro sembrò addirittura che, se in M. non si riconosceva un simbolo, " Dante sarebbe stato improvvisamente volgare e stolto poeta ". Il Graf, invece, pur ritenendo pressoché insolubili le due questioni, additò, dietro suggestioni ruskiniane (cfr. Modern painters [Londra 1898], III 128), nella ignota M. una delle più intense figurazioni poetiche della Commedia. E proprio dal carattere stesso della rappresentazione poetica prese spunto il Parodi per opporsi alla monaca di Helfta: " Quale affinità vi può essere tra la donna tipica del Paradiso terrestre, che fino all'ultimo è sempre chiamata la bella donna e la povera monacella, confinata in un chiostro e aliena per stretto dovere da ogni vanità umana? ". Il Parodi suggeriva, dunque, di lasciarsi guidare soltanto dalla suggestione poetica per riconoscere M.: " Invero, se Matelda non è, e non può essere, un puro simbolo, se non può essere la contessa di Toscana, non pare forse che non resti se non immaginarsela come una leggiadra donna fiorentina, ricordo gentile della giovinezza del poeta, e più luminoso degli altri, perché intimamente legato, in alcun modo che non sappiamo, col ricordo di Beatrice?... s'ella fosse una donna della Vita Nuova, non è forse così che Dante le ha adombrate nella Vita Nuova, nascondendole sotto veli, in modo che a noi non venga se non un fulgore e un profumo dalla loro esistenza mortale? ", e concludeva invitando i lettori a " contentarsi di godere, senza indagarne il mistero, la fresca e pura letizia di questo sogno primaverile ". Quello che per il Parodi era un suggerimento del buon senso e del buon gusto divenne col Croce un canone metodico: il caso di M. parve al filosofo un esempio tipico delle aberrazioni della ‛ dantologia ' " intesa a cercare nella Commedia quel che non c'è e... rifiutare quel che c'è "; e assurdo gli sembrò lo scandalo per il " colorito profano della pittura ", comune a tanti altri episodi del poema. Le terzine dedicate a M. sono infatti, per il Croce, " una delle molte - ma delle più belle - espressioni della vaghezza che trae l'uomo a comporre in immaginazione paesaggi incantevoli, animati da incantevoli figure femminili. Tanti di questi giardini, boschetti, selvette, pratelli, e pastorelle e pulzellette belle e coglienti fiori e danzanti e cantanti si erano avuti anche di recente nella lirica provenzale e italiana; e Dante ripiglia il comune motivo e lo svolge, con gran diletto, in una nuova forma di squisita perfezione, in cui il fascino della gioventù, della bellezza, dell'amore e del riso si esalta in ogni immagine... Non c'è altro ".
L'energico richiamo del Croce va inquadrato nella sua generale polemica contro l'allotrio, giacché la sua drastica riduzione di M. alla semplice fantasticheria di una ‛ pulzelletta ' che va cogliendo fiori in una ‛ selvetta ' trascura quanto, sia pure di passata, aveva fatto intendere il De Sanctis accennando, con rapida incisività, all'alone simbolico che trasfigura la bella donna, " specchio dell'anima rinnovellata ". Anche sorvolando sulle scontate obiezioni degli allegorizzanti (vedasi per tutti il Pietrobono, Matelda, pp. 169-171), rimane nel lettore non prevenuto il senso di una poesia che si distingue dall'idillismo amoroso e cortese non solo per grado di perfezione, ma anche per diversa solennità e serietà di accento. Tal senso va perduto nella lettura meramente idillica dell'episodio, lettura che indusse il Momigliano a stupirsi di tutto ciò che " non lega con la figura leggera, beata e senza pensiero della donna soletta e vagante ", e a ritenere smarrita già alla citazione del salmo Delectasti l'originaria ispirazione, destinata a riemergere sporadicamente all'apertura del canto XXIX e alla chiusa del XXXIII. Sotto questo aspetto ci pare molto opportuno il richiamo del Contini al significato sacrale delle scene del Paradiso terrestre, parallele, in modi diversi, a quelle che aprono le due prime cantiche: quel significato importa un tono alto e complesso, per cui richiami classici e biblici vengono a inserirsi nella rappresentazione idillica, conferendole una dignità nuova. Tale considerazione ci fa restii ad accogliere, almeno nelle sue implicazioni di ordine estetico, la colorita lettura dell'episodio proposta dal Singleton, il quale, riprendendo lo spunto offerto dal Croce e svolto in via erudita dal Mascetta-Caracci, sul legame letterario fra il genere della ‛ pastorella ' e l'incontro di D. con M., immagina che il poeta rappresenti, in modi provenzali e cavalcantiani e nell'allegorica forma dell'incontro d'amore, il suo vano desiderio di possedere in M. l'innocenza d'Adamo, la giustizia originaria, già suggerita dagli antichi col mito della virgo Astraea. Ma ciò che nella rappresentazione di M. e delle scene che la riguardano oltrepassa l'idillio non va certo cercato nella direzione della sensualità: gli stessi richiami classici a Venere, Ero e Leandro paiono alte decorazioni dirette piuttosto a sottrarre la rappresentazione al suo limite cortese e provenzaleggiante e a trasferirla su un piano di dignità adeguato alle scene simboliche e profetiche che seguiranno e all'avvento imminente di Beatrice. Scrisse già felicemente il Bosco: " Tutte le linee del Purgatorio convergono naturalmente nell'apparizione di Beatrice; e, non meno naturalmente, la figura di Matelda che la preannunzia gli si presenta nella fantasia [del poeta] con quei colori, di cui egli stesso aveva nelle liriche e nella Vita Nuova fatto belle le donne che le stanno intorno ".
È appunto questo ‛ antico ' colore del sentimento che finisce con l'imporsi all'apparire di Matelda. Essa, dice il Sapegno nel suo commento alla Commedia (Pg XXVIII 40), " poeticamente, è una ripresa del tema di Lia, nel canto precedente, con uno svolgimento più minuto, ma anche più adorno, con similitudini di una squisitezza da miniatura (vv. 52-54) e frequenti ricorsi mitologici e dotti (vv. 49-51, 64-66, 70-75), tutto animato e percorso da un così fresco ed erompente moto di letizia, che quasi non s'avverte la presenza assidua e magari il soverchio dell'arte "; talché questa fantasia pare al critico " cresciuta sulla traccia di delicate immagini libresche (soprattutto ovidiane), ma rivissute nel clima fervido e raffinato di un sentimento stilnovistico ".
Non è dubbio che la figura di M. si presenti con evidenti segni di una stilizzazione " livresque ", come già disse il Momigliano, tale da offrirsi a sua volta come " suggerimento a tutta una serie di variazioni letterarie, da certe figurazioni femminili del Boccaccio e del Petrarca alla Simonetta del Poliziano ", come notò il Sapegno; e che, nel suo insieme, il canto XXVIII sia " il primo grande esempio di poesia idillica della nostra letteratura ", come ha affermato il Battaglia.
Ciò è vero, ma forse non è tutto il vero. Anche se ci si riporta all'intuizione fondamentale di tutti cotesti lettori, e cioè allo stilnovismo di fondo dell'episodio, sarà conveniente evitare la genericità del richiamo e riferirsi allo stilnovismo di D. e al significato letterariamente agiografico della Vita Nuova, ben illustrato da indagini recenti: basta questa riflessione a sottrarre M. a contaminazioni ‛ cortesi '. L'iato stesso che lettori assai fini trovano fra l'apparizione, l'iconografia di M. da un lato, e le sue dichiarazioni e il suo magistero dall'altro, si attenua quando s'inserisce la bella donna non solo nello sfondo fisico del Paradiso terrestre, ma nello sfondo metafisico dell'interiore viaggio dantesco. Perciò un lettore sensibile come il Momigliano ha potuto parlare per la scena sul Lete di " atmosfera astratta ": in realtà se si pensa a M. come a un simbolo sapienziale, guida e ministra di un rito lustrale, molti dei supposti salti di tono scompaiono. La gravità di certi accenti, connessa con l'altezza del ministero, e la dolcezza della rappresentazione, in cui si riflette l'esempio supremo del Cantico dei Cantici, non meno che il ricordo stilnovistico, si accordano senza sforzo al vertice dell'itinerario di purificazione che si compie sulla vetta del Purgatorio.
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