AZEGLIO, Massimo d'
Nacque il 24 ottobre 1798 a Torino dal marchese Cesare Taparelli d'Azeglio e da Cristina Morozzo di Bianzé, dopo i fratelli Roberto (v.), Prospero poi Luigi nella Compagnia di Gesù (v. taparelli), ed Enrico che si spense giovanissimo. Bambino, visse esule con la famiglia a Firenze, durante l'occupazione francese del Piemonte. Dopo la caduta di Napoleone frequentò giovanissimo l'università di Torino, indi, in funzione di attaché, seguì il padre, rappresentante di Savoia a Roma. Era stato sottoposto a educazione severa e, nell'acquistata libertà, reagì, vivendo vita un po' disordinata. Tornò a Torino e fu sottotenente di cavalleria nel reggimento Piemonte Reale. Sentì ben presto vocazione alla pittura e insieme ebbe vaghezza d'un respiro più vasto, più italiano. Per educarsi all'arte, tornò a Roma nel 1820 per studiare pittura sotto il Verstappen. Non contento di esercitarsi col pennello, tesseva poemi cavallereschi, tragedie, commedie, fremeva d'amor patrio. Non fu né cospiratore né carbonaro: cresciuto alfieriano, ben presto si allontanò dalla concezione democratica di lui; intuiva quello che di anarchico era nella natura dell'astigiano. Si andava formando in lui l'uomo d'ordine, di disciplina, nemico d'ogni furberia e d'ogni violenza, l'uomo della legalità; tanto che né le notizie dei moti di Napoli né quelle dei moti del Piemonte lo commossero troppo. A Roma dipingeva quadri storici, paesaggi e tipi, facendo vita di studio, lontana da ogni mondanità. Di quegli anni giovanili e di tutte queste ore minori il d'A. ci lasciò ampia memoria in numerosi studî di paesaggio, la maggior parte dei quali è oggi esposta nel Museo civico di Torino; altre sue opere sono nelle Gallerie di Brera e del Castello Sforzesco a Milano. È una pittura sincera, vivace, e, se pure spessissimo raffreddata da certa timidezza di temperamento e da quei pregiudizî di esecuzione naturalistica che il d'A. ebbe sempre a canone tecnico, dolce, lievemente malinconica, soffusa di una luce pallida, immersa in un'atmosfera dorata, pittura dai colori appena vibranti, grigi, azzurrini, verdi oliva, giallini smorti. Negli studî migliori, dove il sentimento della natura dissolve la tecnica minuta, la qualità della pennellata, così dorata e succosa, è ancora la stessa dei vedutisti del '700: Guardi, Canaletto, Pannini, Bellotto. Né molto diverso è il modo generale di vedere il paesaggio: così immerso nella luce, che le architetture si assottigliano in fondali vibranti, e gli alberi fronzuti e vigorosi si trasformano in mobili quinte, staccate scure sul cielo chiaro, lontano, vaporoso, cilestrino. Appunto perché sono spesso prodotti umili e impensati di un'attività secondaria, questi studî di paesaggio del d'A. rivelano quale fosse, nella prima metà dell'800, il gusto artistico più sincero e più fecondo: un gusto del colore che stava a mezza strada tra la veduta e la scenografia settecentesca e l'impressione, o la macchia, del secondo Ottocento.
Educato dal contatto di uomini d'ogni classe sociale e specialmente dalla conoscenza di popolani, egli, che già bambino si era a Firenze "spiemontizzato", finì col farsi veramente italiano. Ritornava in patria dopo dieci anni di studî. Ma la pittura non gli bastò più, e se espose a Torino nel 1831, a Brera nel '33, a Parigi nel '36, e poi ancora dipinse ed espose fino al '48, la sua attività principale si diresse, da questo momento, ad altre mete. Un'escursione (settembre 1828) alla badia di S. Michele in Val di Susa gli suggerì l'idea di scrivere una specie d'illustrazione della "sagra di S. Michele", e la scrisse, con fare però letterario e togato. Trovò la sua via dipingendo la Disfida di Barletta del 1503: il Cinquecento con i suoi splendidi costumi, col fuoco delle passioni, con quel fatto glorioso per gl'Italiani, gli consigliò di scrivere un romanzo storico, da esser capito "per le vie e per le piazze" e da "mettere un po' di fuoco in corpo agl'Italiani". Si mise con fervore al lavoro, ma, non trovandosi a suo agio nel severo ambiente torinese, si trasferì a Milano (marzo 1831) per vivere in luogo più favorevole all'arte, ed entrò in relazione col geniale gruppo romantico che faceva capo al Manzoni, di cui sposò la figlia Giulia. La Disfida di Barletta fu pubblicata a Milano nel 1833: quadro di solida fattura, di grandi linee, il romanzo d'un pittore. Tinte forti, distribuite con sapienza e tocchi audaci, dànno all'insieme un potere suggestivo non comune. L'amore di un forte campione per Ginevra, moglie d'un altro italiano, campione dei francesi, la violenza usata su di lei dal duca Valentino, la morte del marito di lei nella disfida, sono momenti passionali mirabili: nello sfondo v'è l'Italia, corsa e padroneggiata dagli stranieri, che esprime dal suo seno campioni atti a mostrare che l'antico valore non è ancora morto nei petti italici. Infervorato dal successo, d'A. mise mano a un altro romanzo, il Niccolò de' Lapi, i cui fatti si sarebbero svolti durante l'assedio di Firenze del 1530 e che fu pubblicato a Milano nel 1841. Non lo spaventò l'idea che il Guerrazzi avesse già pubblicato il famoso Assedio; non le vicende guerresche della città egli narrò, ma quelle d'una famiglia durante l'assedio stesso. Non mancano nel Niccolò de' Lapi scene di bell'effetto e qualche carattere vivo (Fanfulla, Niccolò, Lisa, Girolamo Savonarola, presente come se fosse vivo nell'animo dei fiorentini), ma nel complesso esso non è fresco come l'impetuoso Fieramosca. Il d'A. cominciò a lavorare a un terzo romanzo, la Lega Lombarda. Nel '33 aveva esposto a Brera una Battaglia di Legnano: ora il quadro sarebbe stato enormemente più vasto: gli attori del suo dramma, città e provincie intere, la scena gran parte d'Italia, la durata quasi mezzo secolo. Girò per l'Italia per studiare luoghi e veder documenti e ritrarre ambienti (1845); ma il romanzo era destinato a rimanere incompiuto (gli otto capitoli scritti furono pubblicati con gli Scritti postu7ni da M. Ricci, Firenze 1871, e ristampati da M. De Rubris, Torino 1919), poiché la vita politica distraeva il d'A. dalle lettere.
Confortando il cugino Cesare Balbo a scrivere le Speranze, negli amichevoli convegni con lui, tra il '43 e il '44, il d'A. s'era acceso di passione politica. L'invito d'un amico l'aveva chiamato a Roma (alla fine del '44) ed egli vi era corso: c'è da credere che non solo per quello egli facesse il viaggio non agevole. Il nemico delle sette e delle società segrete si trovò ad avere convegni segreti con alcuni patriotti che l'invitarono a capeggiare, nientemeno, che il movimento liberale, il quale, dopo le ultime fallite insurrezioni, era disunito e sbandato. Ci voleva un uomo nuovo, non logoro e autorevole. Massimo, impetuoso Fieramosca, accettò, e in un avventuroso viaggio di esplorazione (dal 1° settembre '45), con l'apparenza di un diporto turistico per scopi d'arte, visitò la Romagna, le Marche, la Toscana, e conobbe così l'Italia carbonara e mazziniana; ad essa predicò però la distruzione delle sette, la necessità della silenziosa disciplina, la fiducia in Carlo Alberto, la pazienza dell'attesa. Tornato a Torino, ebbe col re quel colloquio drammatico che è riferito nell'ultimo capitolo dei Ricordi, prologo alla generosa avventura monarchica del 1848-49.
Il moto scoppiato a Rimini nel settembre '45 diede occasione al d'A. di entrare arditamente e apertamente nella lotta: il suo opuscolo Gli ultimi casi di Romagna (stampato alla macchia in Toscana, nel 1846) scoppiò come una bomba: disapprovazione delle congiure segrete, atto d'accusa terribile, minuziosamente documentato, del malgoverno papale, calda esortazione agl'Italiani per una "cospirazione pubblica". La risonanza dell'opuscolo fu enorme: il governo toscano sfrattò l'autore, ma l'allontanamento si risolse in un'apoteosi. Alla morte di Gregorio XVI, il d'A. corse a Roma, assisté agli entusiasmi per Pio IX e partecipò alle speranze di tutti. Ebbe col nuovo papa un colloquio, e, per quanto non avesse da lui alcun affidamento serio, si credé che egli fosse capace di guidarlo sulla buona via. Era il momento buono per l'idea liberale, moderata, legalitaria, e il d'A. la concretò nella Proposta di un programma per l'opinione nazionale italiana (1847), libro notevolissimo che coordinò in quadro armonico e concreto, ciò che da molti, e in molti campi, si veniva pensando da un mezzo secolo. Egli invocava i principi a cooperare strettamente uniti, con politica moderata, per il bene della nazione, su basi di verità e di giustizia, promovendo l'educazione morale degl'Italiani. Avvenuta l'occupazione austriaca di Ferrara (7-13 luglio 1847), l'occasione sperata parve presentarsi. Esasperato dall'inazione di Carlo Alberto, il d'A. ispirò articoli contro di lui per spingerlo a intervenire, mentre scriveva, col consenso del papa, un opuscolo Sulle condizioni dello Stato pontificio e sull'opportunità di una difesa. Volò a Torino, ma fu depresso dalla calma e dal silenzio della città. Verso la fine dell'anno, ebbe, stando in Roma, la sensazione che il papa stesse per tramontare, capì che non aveva una coscienza retta "da una intelligenza sicura di sé stessa" e vide che era giunto il momento di Carlo Alberto, oramai anch'egli sulla via delle audaci riforme. Commosso dalle notizie delle repressioni austriache a Milano, nei primi giorni di gennaio, buttò giù i Lutti di Lombardia, violenta requisitoria contro l'Austria assassina. Scoppiata la guerra, riuscì a far nominare capo delle truppe papali il generale Durando, di cui egli fu aiutante di campo.
Mentre la guerra languiva, un mese avanti la catastrofe di Custoza, il d'Azeglio difendeva Vicenza dagli assalti austriaci, e a Monte Berico il 10 giugno '48 era ferito. A Firenze, dove dopo la capitolazione di Vicenza egli era andato a curarsi la ferita, udì le notizie dello sfacelo militare e politico, e ne incolpò democratici e repubblicani, contro i quali si scagliò con estrema violenza (L'onore dell'Austria e l'onore d'Italia; Quale sarà il diritto pubblico europeo?; Parentele vecchie e parentele nuove). Gli fu offerta la presidenza del Ministero toscano, ma, dopo l'opuscolo Timori e speranze, fu allontanato da Firenze. Nella discussione che si faceva a Torino tra chi voleva riprendere la guerra e chi voleva la pace, egli fu per la pace, e per questo motivo non accettò l'offerta fattagli dal re di formare il ministero. Solo dopo Novara accolse l'invito di re Vittorio, come un ordine da eseguire e un sacrificio da compiere, e il 7 maggio 1849 fu nominato presidente del consiglio.
Egli governò dal 1849 al 1852. Si proponeva come programma la pace onorevole con l'Austria, l'intesa con la Francia e l'Inghilterra, la difesa della costituzione, riforme interne. Ma la nuova camera, eletta nel luglio '49, non approvò il trattato di pace già firmato il 6 agosto: e fu sciolta. Il d'A. consigliò allora al re il Proclama di Moncalieri (20 novembre '49), atto di dubbia costituzionalità, ma coraggioso, e che portò l'effetto desiderato. Lo statuto fu salvo. Approvatosi il trattato di pace, il d'A. dové sostenere con la corte di Roma, la quale mobilitò tutte le sue forze contro di lui, un'aspra lotta per le leggi Siccardi, con cui si abolivano le immunità e i privilegi del clero, i tribunali ecclesiastici e gli asili. Approvatasi anche questa legge (9 marzo 1850), egli affrontò risolutamente l'agitazione promossa e fomentata dalla Chiesa, non temé di arrestare e carcerare l'arcivescovo di Torino, e vinse così una battaglia che parve una specie di rivoluzione. Egli vinse con l'appoggio e l'aiuto del Cavour, da lui chiamato nel ministero nell'ottobre 1850. Erano due menti diverse, e non avrebbero potuto andar d'accordo: il genio pratico di Cavour si sarebbe imposto dominatore. Una prima crisi si ebbe per il connubio di Cavour col Rattazzi, eletto presidente della camera senza che il d'A. ne fosse avvertito: il Cavour uscì dal ministero (21 maggio 1852) ma cinque mesi dopo, per le dimissioni del d'A., egli era incaricato di ricomporlo.
Il d'A. lasciò la politica attiva, rattristato un po' dai cambiamenti nella situazione e nell'opinione pubblica: poteva però dirsi pago d'aver conservato all'Italia la casa di Savoia e lo statuto. Riprese per allora i pennelli; ma nel 1853 fu in Francia e in Inghilterra e accompagnò a Londra il duca di Genova, accolto con somma deferenza e cordialità. Passato il primo corruccio e le prime diffidenze, egli si accostò a poco a poco al Cavour, alla cui politica giovò più d'una volta, sia intervenendo presso il re, in momenti delicati e decisivi, come quando gli scrisse una nobile e coraggiosa lettera (29 aprile '55) per spingerlo a riprendere la politica contro le ínene degli ecclesiastici, sia scrivendo articoli polemici, come quando, dalle colonne del Morning Chronicle, bollò a fuoco l'Austria per i processi di Mantova. Capì subito la portata dell'intervento in Crimea e ne fu aperto e coraggioso sostenitore in senato. Nel novembre 1855 accompagnò il re a Londra e a Parigi e cercò di ben disporre gli animi di quei diplomatici verso l'Italia. Gli fu offerto di essere plenipotenziario al congresso di Parigi, ma non accettò, perché non era stato ancora definito il modo della partecipazione italiana: occasione splendida perduta per una formalità. Ritiratosi in una sua villetta a Cànnero (Lago Maggiore), visse fuori dalla politica fino al 1859, ma, giunto il momento della riscossa, il Cavour si servì anche di lui, inviandolo a Parigi e a Londra, per fare opera di persuasione, per vincere resistenze e superare difficoltà. Neppure lui, però, con i suoi scrupoli di lealtà e formalità, ci vedeva chiaro: la guerra scoppiò per l'abilità di Cavour e per la cecità dell'Austria. Insorta l'Italia centrale, il d'A. fu mandato commissario nelle Romagne, ma la sorpresa di Villafranca gli diede modo di essere a Bologna solo per tre giorni. Nel momento più critico che seguì l'interruzione della guerra, egli pubblicò un libro De la politique et du droit chrétien au point de vue de la question italienne, in cui difese il diritto razionale, offeso dal diritto convenzionale, emise l'opinione che il papa dovesse regnare su Roma città libera e proclamò la necessità di un forte stato indipendente capace d'impedire il ritorno al passato: lo slancio degl'ltaliani e le annessioni mostravano che il popolo aveva capito d'istinto la sua necessità. Appariva nello sfondo la questione dell'unità, e la condanna del potere temporale dei papi, e si accennava all'autodecisione dei popoli. Ritornato Cavour al potere, dopo il breve ministero Rattazzi, il d'A. fu nominato governatore di Milano, ma sorpreso dagli avvenimenti che si succedettero vorticosamente, incapace di comprenderli e di dominarli, si ritirò spontaneamente. La rivolta della Sicilia, la spedizione dei Mille, l'intervento di Cavour lo sbalordirono: tutto gli pareva prematuro. Le paure e le diffidenze verso i repubblicani ch'egli vedeva dietro a Garibaldi, la politica di Cavour, audace e pronta, lo fecero sempre più chiudere nella sua veste di austero puritanismo: gli pareva che la rivoluzione fosse al servizio del governo, ed egli ne provava dolore. L'annessione di Napoli gli parve una seconda Novara! La sua incomprensione dei problemi nazionali si rivelò oramai insanabile, negli anni che seguirono, quando si agitò la questione romana e il trasferimento della capitale. Tutto quello che si scrisse e si disse per Roma capitale gli parve rovina e iattura d'Italia. Scrisse allora l'opuscolo Questioni urgenti, in cui deprecava l'idea di Roma capitale d'Italia e sosteneva la sovranità nominale del pontefice su Roma, con tutte le garanzie di indipendenza spirituale, governo municipale, e capitale politica altrove. In fondo la convenzione del settembre 1864 fu in parte attuazione delle sue idee; con questa differenza però, che mentre per gl'Italiani quella fu una soluzione provvisoria, per lui avrebbe dovuto essere definitiva. Il d'A. capì oramai di essere troppo lontano dalle correnti dominanti: era un solitario, trascurato ed incompreso. Chiuso in sé, scriveva per educare gl'Italiani; stendeva i Miei ricordi, rappresentazione vivace e schietta dei fatti della sua vita, mirante specialmente a dare l'esempio d'un carattere forte, saldo, diritto, onesto. Giȧ innanzi aveva cominciato a scrivere le memorie della sua gioventù in certi Bozzetti della vita italiana pubblicati nella Cronistoria di G. Torelli (1858). E neppure i Miei ricordi arrivarono a compimento, giacché quando la morte lo colse (15 gennaio 1866), erano scritti solo fino all'inizio della sua attività politica, ai primi del 1846, e furono pubblicati postumi a Firenze nel 1867. Postuma è anche la raccolta, curata da M. Tabarrini, dei suoi Scritti politici e letterarî (Firenze 1872, in 2 voll.).
Bibl.: A. Vismara, Bibliografia di M. d'A., Milano 1878; G. Sforza, M. d'A. alla guerra d'indip. del 1848, Modena 1911; G. Gentile, La cultura piemontese: M. d'A., in La Critica, XX (1922), p. 79 segg.; N. Vaccalluzzo, M. d'A., Roma 1925. Per le lettere del d'A., D'Ancona-Bacci, Manuale, V, p. 479.
Per d'Azeglio pittore: C. F. Biscarra, L'opera di M. d'Azeglio artista considerta all'Esposizione fatta a cura del Municipio di Torino, aprile-giugno 1866, Torino 1866; Catalogo dei dipinti di M. d'Azeglio esposti a Torino nel 1866; M. Tabarrini, Di M. d'Azeglio pittore, in Rassegna Nazionale, CVI (1899), pp. 477-94.