MASOLINO da Panicale
MASOLINO da Panicale (Tommaso di Cristofano di Fino). – Figlio di Cristofano di Fino, che si definisce «imbiancatore» in una portata catastale del 1427, M. nacque a Panicale fra il 1383 e il 1384, data che si ricava attraverso la comparazione di due fonti documentarie: la sua iscrizione all’arte dei medici e speziali di Firenze (la gilda alla quale aderivano anche i pittori) avvenuta il 18 genn. 1423, allorquando risulta quarantenne, e la succitata portata del catasto effettuata dal padre nel 1427, nella quale M. veniva dichiarato di quarantatré anni.
I suoi primi quarant’anni di vita sono pressoché spogli di qualsivoglia punto fermo documentario. In aggiunta a ciò, è Vasari, di fatto, a costituire la prima fonte storica di una certa ampiezza da cui sia possibile attingere informazioni su M. (per quanto con il più ampio beneficio d’inventario). Stando alle Vite, fu a partire dai suoi diciannove anni che M. svolse un regolare apprendistato di pittore all’interno della bottega di Gherardo Starnina, una tra le principali postazioni delle tendenze tardogotiche della pittura fiorentina tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Ancora più arduo è appurare se Vasari fosse nel giusto sostenendo che M., prima di accostarsi a Starnina, aveva avuto una precedente fase di formazione in qualità di orefice nella bottega di Lorenzo Ghiberti. Quest’ultimo pagò effettivamente, tra il 1404 e il 1407-08, un aiuto chiamato Tommaso di Cristofano; ma è dubbio se si tratti proprio di M. o del meno noto Tommaso di Cristofano di Braccio, orafo documentato a Firenze tra il 1409 e il 1430. In ogni caso, secondo Vasari, M. avrebbe collaborato con Ghiberti come «rinettatore» (in compagnia, fra gli altri, di Filippo Brunelleschi, di Antonio Averlino detto Filarete e di Paolo Uccello) nella realizzazione della porta nord del battistero di Firenze, la più antica dovuta al grande scultore. Se le prime opere datate di M. (che risalgono solo al 1423) mostrano bensì qualche effettiva tangenza con i modi di Starnina, ma non davvero vincolante sotto il profilo genealogico, è stato pur sempre in quest’ambito stilistico che la critica si è mossa per cercare di individuare qualche testimonianza della maniera giovanile di M., necessariamente intrinseca alla tornata estrema, e più distillata nell’andamento lineare, dell’asciutta declinazione toscana del gotico internazionale. Sono stati così accostati alla mano di M. alcuni dipinti di elevata qualità, selezionati dal grande bacino della pittura fiorentina dei primi due decenni del XV secolo e privi di un riferimento autografico certo: fra quelli più spesso contemplati negli studi e sui quali si registra la maggiore convergenza della critica, si possono citare, pur mantenendo un margine di dubbio, il frammento di Madonna col Bambino in collezione privata milanese (in Joannides, tav. 21) e soprattutto la preziosa Madonna dell’Umiltà, già collezione Contini Bonacossi, oggi conservata al Museo degli Uffizi di Firenze, che di quella congiuntura rappresenta uno degli esiti più eletti.
Il primo documento fiorentino a testimoniare la presenza di M. è datato nel settembre 1422, ed egli vi è citato in quanto affittuario di un appartamento nei pressi della chiesa di S. Felicita; all’anno successivo risale l’iscrizione all’arte dei medici e speziali, mentre nel 1424 egli risulta affiliato alla Compagnia di S. Luca, la confraternita dei pittori. La più antica opera datata per la quale il riferimento a M. viene concordemente accolto è la Madonna dell’Umiltà conservata nella Kunsthalle di Brema, recante l’anno di esecuzione 1423.
Alle due estremità della base della cornice – ai lati di un’iscrizione in lettere capitali che recita «O quanta misericordia e [sic] in Dio. A. 1423» – la tavola presenta le armi delle famiglie Carnesecchi e Boni, ciò che induce a considerare il dipinto di M. occasionato dall’unione in matrimonio di due membri delle casate. L’opera si può considerare la più esplicita testimonianza della speciale attenzione con cui M. in quegli anni si confrontava proficuamente, e già in quei termini cautamente progressivi in senso rinascimentale che gli erano più congeniali, con la coeva produzione fiorentina di Gentile da Fabriano e Lorenzo Monaco.
Il 2 nov. 1424 M. ricevette il saldo conclusivo di 74 fiorini d’oro per il ciclo di affreschi dedicato alle Storie della Vera Croce, eseguito nella cappella della Croce della chiesa agostiniana di S. Stefano a Empoli, di cui era titolare la Compagnia di S. Elena.
Il ciclo fu recuperato sotto lo scialbo nel 1943, ma si presenta in condizioni assai frammentarie a causa di estese distruzioni operate nella chiesa che lo coinvolsero sul finire del XVIII secolo. Di esso, peraltro, si conservano le sinopie, notevoli nella loro semplicità, chiarezza ed eleganza, nonché prezioso strumento di valutazione delle peculiarità compositive di M., impegnato in articolate sequenze narrative anteriormente ai grandi cicli della maturità. Allo stesso anno dovrebbe risalire anche la Pietà ad affresco, già nel battistero della collegiata di Empoli e oggi nel Museo della stessa collegiata: uno tra gli esiti più intensamente realistici di M., che si rivolge alla produzione del Maestro della Madonna Strauss e di Lorenzo Monaco, rielaborandone però le suggestioni tardogotiche con più saldo equilibrio classicistico e rigoroso nitore compositivo. Nel 1424 M. è documentato a Firenze, avendo versato la tassa di immatricolazione alla locale Compagnia dei pittori; ed è a quel giro di anni (sebbene si registri nella letteratura critica qualche opinione in favore di una datazione sul finire del terzo decennio) che viene generalmente fatta risalire l’esecuzione della Madonna dell’Umiltà conservata nell’Alte Pinakothek di Monaco, dipinto che esibisce una sicura evoluzione in senso plastico del linguaggio di M., principalmente nella costruzione della figura.
Fu probabilmente dopo il suo rientro a Firenze nel febbraio 1423 da una missione diplomatica al Cairo, che il ricco mercante e uomo politico Felice Brancacci dovette commissionare un ciclo di affreschi dedicato a Storie dell’apostolo Pietro costituito complessivamente di diciassette episodi, nove dei quali desunti dalla Legenda Aurea. La pittura doveva rivestire integralmente la cappella che si trovava in testa al braccio destro del transetto della chiesa fiorentina di S. Maria del Carmine. Se è documentato il fatto che la famiglia Brancacci deteneva il patronato della cappella sin dall’edificazione della chiesa nel XIV secolo, non è certo se originariamente la responsabilità della decorazione della cappella fosse stata affidata a M. (ipotesi che la critica tende per lo più a privilegiare) ovvero a Masaccio, oppure se fosse prevista sin da principio la collaborazione fra i due artisti.
Imponenti lavori di ristrutturazione avvenuti nel XVIII secolo danneggiarono pesantemente le pitture, e oggi si conservano solo gli affreschi delle due pareti laterali e di quella di fondo, suddivisi in due registri sovrapposti. Le varie scene sono scandite e separate da finti pilastri scanalati di ordine corinzio e nel loro insieme gli affreschi si caratterizzano per il marcato impatto illusionistico sul riguardante, reso partecipe dello spazio in cui si svolgono gli eventi e coinvolto in essi visivamente e psicologicamente attraverso una forza drammaturgica e un’intensità realistica che si possono ben dire senza precedenti.
Pur trattandosi della pietra angolare del primo Rinascimento fiorentino, generativa per tutta l’evoluzione successiva dell’arte italiana, permane più d’una zona d’ombra intorno a taluni non secondari aspetti di questo capo d’opera, soprattutto relativamente alla sua cronologia interna. Non si conserva, infatti, alcun documento relativo alla commissione degli affreschi; ed è presumibile, ma non certo, che essi costituiscano il primo episodio del sodalizio artistico tra M. e Masaccio (del quale, peraltro, resta ancora problematico definire con precisione tempi, modi e connotati). In ogni modo, i due grandi maestri lasciarono il ciclo largamente incompiuto (e tale lo definisce Felice Brancacci nel suo testamento del 1432), avendo eseguito tre scene M. e sei Masaccio (una delle quali parzialmente). Solo nel nono decennio del Quattrocento Filippino Lippi portò a termine gli affreschi, dipingendo le tre storie mancanti e ultimando la Resurrezione del figlio di Teofilo che era stata iniziata da Masaccio. Secondo la ricostruzione che oggi sembra più credibile, difficilmente M. poté dedicarsi all’incarico affidatogli da Brancacci prima di aver esaurito i suoi impegni a Empoli, e quasi certamente egli aveva già dipinto, del tutto o almeno per la gran parte, gli affreschi che spettano alla sua mano prima di un lungo trasferimento in Ungheria, che ebbe luogo tra il settembre 1425 e il 1427-28. Giusta questa ricostruzione, il suo intervento risulterebbe concentrato fra la fine del 1424 e l’estate del 1425, più un eventuale supplemento di lavorazione tra la fine del 1427 e il 1428, subito dopo il rientro dall’Ungheria e prima del successivo spostamento a Roma: ma è bene tenere presente che la storia della critica di quest’opera epocale presenta al riguardo una moltitudine di ipotesi anche marcatamente diverse fra loro. Non potendosi considerare in questa sede le molte (e talvolta penetranti) proposte tese a individuare circoscritti interventi dell’un maestro in storie di sostanziale responsabilità dell’altro, resta che gli affreschi ricondotti con generale consenso alla prevalente o totale autografia di M. sono i riquadri con la Predica di s. Pietro alla folla, Adamo ed Eva nel paradiso terrestre e quello che combina il Risanamento dello storpio e la Resurrezione di Tabita, in cui M. mostra una maggiore reattività alle sollecitazioni in senso realista, monumentale e prospettico di Masaccio, e nella cui esecuzione, anzi, si è spesso ritenuto di distinguere la diretta partecipazione di quest’ultimo, in particolare nella celebre veduta urbana sullo sfondo. Inoltre M. fu probabilmente il solo responsabile degli affreschi della volta, da cui dovette prendere avvio l’intera decorazione pittorica. Essi comprendevano i Quattro evangelisti dipinti sulle vele e quattro episodi della vita di s. Pietro (Il naufragio degli apostoli, La chiamata dei ss. Pietro e Andrea, Il pentimento di s. Pietro, Cristo che consegna il gregge a s. Pietro) sulle tre lunette sottostanti: tutti andati distrutti negli anni 1746-48 nel corso di una ristrutturazione della cappella. Delle storie dipinte sulle lunette si conservano le sinopie, assai rovinate. Il lungo e complesso restauro compiuto negli anni Ottanta del XX secolo ha prodotto importanti conseguenze nella valutazione complessiva dell’opera di M. e Masaccio, suscitando altresì reazioni contrastanti fra gli studiosi: i colori degli affreschi sono infatti risultati molto più chiari e luminosi di quanto fosse possibile supporre prima, con un effetto complessivo di più contenuta drammaticità e maggiore concentrazione sui particolari della narrazione. Ciò ha in parte ridimensionato (fors’anche salutarmente) l’afflato epico che accompagnava l’opera, e che costituiva almeno in parte l’inevitabile conseguenza di un secolare investimento mitografico avviatosi con il celebre commento vasariano nella vita di Masaccio, che faceva della cappella Brancacci l’essenziale ouverture dell’arte italiana «moderna» nonché il luogo di culto artistico per eccellenza di tutti i pittori successivi. Ma soprattutto i rispettivi stili dei due maestri, sin lì paradigmaticamente contrapposti a incarnare le potenti innovazioni «rinascimentali» dell’uno a fronte delle prudenti resistenze «tardogotiche» dell’altro, sono risultati fra loro più prossimi, e dunque strettamente e reciprocamente dialoganti. Sempre nella chiesa del Carmine, in una data non precisabile ma contigua alla decorazione della cappella Brancacci, M. affrescò su un pilastro posto tra le cappelle Serragli e Del Pugliese un’immagine di S. Pietro, ricordata da tutte le fonti ma perduta al pari del suo pendant dipinto da Masaccio raffigurante S. Paolo.
Ancora in collaborazione con Masaccio, e sempre verso il 1424-25, M. realizzò la tavola raffigurante S. Anna, la Madonna, il Bambino e cinque angeli (detta S. Anna Metterza), oggi conservata nella Galleria degli Uffizi, che dovrebbe corrispondere alla pala che il ricco tessitore Nofri d’Agnolo del Brutto Buonamici ordinò per la cappella di famiglia nella chiesa di S. Ambrogio a Firenze.
A partire dai suggerimenti di Longhi, la critica è sempre stata piuttosto concorde nella suddivisione delle responsabilità fra le due mani, riconducendo a Masaccio le figure della Madonna con il Bambino (più, con ogni probabilità, l’angelo reggicortina sulla destra e forse quello posto in cima alla composizione) e a M. la restante porzione del dipinto, più arcaica nello stile ed esile dal punto di vista strutturale. Ma oltre a qualche residua cautela relativamente alla sua committenza e datazione, alcuni dubbi attraversano ancora oggi la critica riguardo la collocazione originaria del dipinto, la sua destinazione funzionale (tavola autonoma o pannello centrale di un trittico), nonché, al pari di ciascuno dei casi di collaborazione fra M. e Masaccio, la tempistica e l’organizzazione dell’esecuzione.
Il giorno 8 luglio 1425 M. ricevette un modesto pagamento di 7 lire e 2 soldi dalla Compagnia di S. Agnese per un lavoro non precisamente identificabile ma connesso con l’allestimento di una sacra rappresentazione, svoltasi in S. Maria del Carmine in occasione della festa dell’Ascensione. Entro l’estate dello stesso anno M. ultimò il Trittico per l’altare della cappella dedicata a S. Caterina d’Alessandria nella chiesa fiorentina di S. Maria Maggiore, di cui vantava il patronato la ricca famiglia Carnesecchi, che già aveva commissionato dipinti di M. e forse anche di Masaccio. L’ancona è oggi smembrata in varie sedi e in parte dispersa.
Dell’opera, assegnata a Masaccio da Francesco Albertini nel Memoriale di molte statue e pitture che sono nell’inclyta ciptà di Firenze (Firenze 1510), e ancora da Vasari (1550, p. 268; 1568, pp. 291 s.), si conservano lo sportello destro raffigurante S. Giuliano, oggi ricoverato nel Museo arcivescovile di Firenze, e forse una Storia del santo, parte della predella, nel Musée Ingres di Montauban (ma è stato ipotizzato che sia più congrua alla predella del trittico la tavoletta di analogo soggetto attribuita a Masaccio, assai malconcia, conservata nel Museo Horne di Firenze). Negli altri scomparti il complesso presentava altresì, come testimoniato dalla descrizione di Vasari (1568), una Madonna col Bambino in trono (probabilmente la tavola rinvenuta nel 1895 nella chiesa di S. Maria a Novoli, presso Firenze, che venne trafugata negli anni Venti del Novecento e mai più ritrovata) e una S. Caterina d’Alessandria, cui dovevano corrispondere nella predella, rispettivamente, la Natività e una Storia della santa. Dalla metà del XVII secolo il trittico conobbe vicende piuttosto travagliate: essendo stata demolita la cappella che l’ospitava nel 1651 fu ceduto a un discendente dei Carnesecchi; di lì si persero le tracce dell’opera sino alla fine dell’Ottocento, quando, come detto, venne dapprima ritrovata la Madonna col Bambino in trono, e poi si riconobbe su un altare della chiesa di S. Giuliano presso Scandicci lo sportello con l’immagine di S. Giuliano.
Immediatamente dopo il 1° sett. 1425 (giorno in cui sottoscrisse a Firenze un atto di procura in favore del banchiere Antonio di Piero Benizzi), M. partì per l’Ungheria al servizio del potente capitano di ventura fiorentino Filippo Scolari (meglio noto con il soprannome di Pippo Spano), con il quale sottoscrisse un contratto che lo vincolava per la durata di tre anni.
In Ungheria M. soggiornò sino a una data da collocare fra il 7 luglio 1427 – quando in una portata catastale il padre lo dice ancora colà residente, attivo professionalmente e debitore delle tasse conseguenti nei confronti del Monte comune fiorentino – e il 18 maggio 1428, quando M. risulta essersi infine emancipato dal padre sotto il profilo fiscale. Il 26 dic. 1426 Scolari morì, evento cui fece immediatamente seguito la liberazione di M. da tutti gli impegni precedentemente contratti in Ungheria. Il suo soggiorno ungherese ebbe peraltro a protrarsi in ragione dei crediti di notevole entità ch’egli aveva guadagnato con il condottiero, e che riuscì a recuperare attraverso i di lui eredi il 16 genn. 1428. Le notizie davvero esigue pervenute intorno a questo passaggio tutt’altro che trascurabile della carriera di M. si devono alla diretta testimonianza resa da Filippo di Simone Capponi, in una lettera del 20 luglio 1427 al Monte comune di Firenze. Pur se M. dovette essere estesamente impegnato nell’ambito dell’imponente azione edificatoria che caratterizzò la permanenza ungherese di Scolari, nulla si è conservato e ben poco è oggi noto della sua attività artistica in terra magiara.
Nel gennaio del 1427 l’orafo Leonardo Rucellai citò M. in tribunale, insieme con il suo assistente Francesco d’Antonio, per debiti di modesta entità. Il 12 luglio 1427, prima del definitivo rientro a Firenze, M. ricevette una commissione straordinariamente remunerativa (1000 fiorini) da parte degli eredi di Niccolò di Guido della Foresta, secondo le volontà testamentarie espresse da quest’ultimo: fu infatti incaricato della decorazione della cappella di famiglia nella chiesa di S. Francesco in Figline Valdarno. Molto probabilmente, però, tale impresa non ebbe mai luogo, forse a causa del rovescio di fortuna economica che colpì in quegli anni la famiglia dei committenti, e in ogni caso nessuna traccia si è conservata di essa. Sul finire del terzo decennio, in una data da situare tra la metà del 1428 e l’anno successivo, M. lasciò nuovamente Firenze per recarsi a Roma, dove in rapida successione fu coinvolto in una serie di commissioni di notevole rilievo, delle quali di nuovo non è dato fissare in modo del tutto certo l’ordine cronologico.
Il principale impegno pubblico al quale M. attese a Roma fu un ciclo di affreschi nella basilica di S. Clemente, eseguito su commissione del cardinale Branda Castiglioni (il cui stemma è dipinto all’apice dell’arco d’ingresso della cappella), all’epoca titolare della chiesa nonché membro eminente e influente dell’entourage curiale di papa Martino V Colonna. Negli affreschi, M. raffigurò nella prima cappella della navata sinistra Storie di s. Caterina d’Alessandria (cinque episodi sulla parete sinistra in altrettanti scomparti suddivisi in due ordini sovrapposti, che si sviluppano in ordine cronologico dall’alto in basso e da sinistra a destra), Storie di s. Ambrogio (quattro riquadri con altrettanti episodi sulla parete destra, disposti su due ordini che seguono l’andamento da sinistra a destra), più i due autonomi episodi evangelici della Crocifissione, sulla parete di fondo, e, in alto sulla parete di accesso, dell’Annunciazione. Sul pilastro esterno di sinistra è raffigurato un S. Cristoforo col Bambino sulle spalle, sull’intradosso sono affrescati gli Apostoli e sulle quattro vele della volta si trovano rappresentati i Quattro evangelisti e i Quattro dottori della Chiesa (ogni evangelista essendo abbinato su ciascuna vela a un dottore della Chiesa). In quest’opera complessa, che costituì di fatto il primo segno tangibile a Roma di penetrazione del contemporaneo e «moderno» linguaggio pittorico fiorentino, M. esibisce un rinnovato sforzo in senso prospettico, architettonico, illusionistico e monumentale: ciò che, sulla scorta dell’indicazione di Vasari (che assegnò l’opera sic et simpliciter a Masaccio) e delle disomogeneità stilistiche e qualitative presenti nel ciclo, ha spinto una parte della critica (mai, però, potendosi appoggiare su dati probanti o argomenti sostanziali) a riconoscere negli affreschi di S. Clemente il contributo estremo di Masaccio, ipotizzando che questi potesse essere il principale responsabile, se non addirittura l’unico, dell’impresa nella sua prima fase progettuale e lavorativa, forse già nel 1425 (data che giustificherebbe gli arcaismi presenti in quest’opera rispetto ai più sicuri e maturi esiti raggiunti nella cappella Brancacci), oppure nel 1427. Secondo tale impostazione, solo in seguito alla morte di Masaccio, da collocare entro la metà del 1428, M., dopo il rientro dall’Ungheria, sarebbe divenuto l’unico responsabile dell’opera, potendo avvalersi di materiali già predisposti dal più giovane collega; di essi, in tal modo, sarebbe dato cogliere un’eco in quelle parti del ciclo che paiono compositivamente più originali e incisive, nonché maggiormente sbilanciate in senso espressivo, realista e «rinascimentale»: in particolare la potente Crocifissione, ma anche la S. Caterina che rifiuta di adorare gli idoli pagani, la Conversione e decollazione dell’imperatrice Faustina, il Miracolo delle api, lo Studiolo di s. Ambrogio, la Morte del santo e l’Annunciazione sopra l’arco all’esterno della cappella. Queste ultime tre scene sono in effetti costruite con un rigore prospettico inedito per M., per quanto pur esso frutto più di una sapienza empirica ancora approssimativa che di un coerente studio matematico di stretta impronta brunelleschiana. Ma i fitti ed elaborati partiti ornamentali (effetti di mosaici cosmateschi e di marmi screziati, losanghe dipinte sui costoloni, finti capitelli corinzi sostenuti da lesene scanalate), i corpi filiformi e quasi senza peso dei personaggi, la vaghezza delle fisionomie, la ricercata preziosità dei colori cangianti e contrastati (ancora ravvisabile nonostante i rilevanti problemi conservativi), la stessa tecnica che abbina generosamente le parti principali eseguite in buon fresco a cospicue finiture a secco, mantengono comunque anche questo importante cimento di M., eseguito certamente con l’aiuto di collaboratori (riguardo ai quali sono stati scomodati i nomi illustri di Domenico Veneziano, di Paolo Uccello, di Antonio Pisano detto il Pisanello e soprattutto di Lorenzo di Pietro detto il Vecchietta), in quella posizione oscillante tra tradizione e rinnovamento, tra grazia tardogotica e contegno classicista, che contraddistingue costantemente la sua attività creativa.
Secondo l’opinione critica prevalente, pure al periodo romano dovrebbe risalire il cosiddetto Trittico della neve per la basilica di S. Maria Maggiore a Roma, dove, «in una cappelletta vicina alla sagrestia», lo ricorda Vasari nel 1568 (p. 293) attribuendolo al solo Masaccio. Ma occorre segnalare che per alcuni studiosi l’esecuzione del dipinto sarebbe piuttosto da collocare entro la metà del terzo decennio, precedentemente al soggiorno di M. in Ungheria.
L’opera, dipinta ab origine su entrambi i lati, presenta molti aspetti controversi (dal committente alle circostanze della sua commissione, dall’autografia alla collocazione, sino, come già accennato, alla datazione), ma si deve comunque considerare uno dei frutti (forse l’estremo) della collaborazione con Masaccio, il quale eseguì, presumibilmente all’inizio dell’impresa, lo sportello raffigurante i Ss. Girolamo e Giovanni Battista (Londra, National Gallery). Il trittico – descritto con una certa cura da Vasari, il quale riferì di essere andato a visitarlo insieme a Michelangelo nella basilica romana (1568, pp. 293 s.) – fu rimosso dalla sede originaria e smembrato fra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo. Le parti che lo componevano entrarono nel 1653 nella collezione Farnese a Roma e si trovano oggi divise tra varie istituzioni: il Museo di Capodimonte di Napoli (che ospita le due facce della tavola centrale, raffiguranti la Fondazione di S. Maria Maggiore da parte di papa Liberio e l’Assunzione della Vergine), la Collezione Johnson di Filadelfia (tavole laterali con i Ss. Pietro e Paolo, opera probabilmente avviata da Masaccio, e S. Giovanni Evangelista e un santo, forse s. Martino) e la National Gallery di Londra (tavola laterale con S. Mattia e un papa, forse s. Gregorio Magno, oltre allo scomparto citato dovuto a Masaccio). Si è ritenuto, altresì, di accostare pure all’ancona di S. Maria Maggiore (rispettivamente come pinnacolo centrale e pannello di predella) due tavolette, raffiguranti la Crocifissione e il Seppellimento della Vergine, conservate presso la Pinacoteca Vaticana. Varie ipotesi sono state formulate anche in merito al committente dell’opera: in primis, quella tesa a individuarlo nella persona di papa Martino V Colonna (di cui si è talora voluto riconoscere il ritratto nell’immagine di s. Martino), per via della presenza dell’arme della famiglia sul fregio della cappa del santo e in considerazione dell’assidua frequentazione della chiesa da parte dei Colonna, ivi titolari di diverse cappelle, una delle quali, dedicata a S. Giovanni Battista, era situata laddove Vasari dichiarò trovarsi il Trittico. Quest’ultima è stata così a varie riprese candidata come collocazione originaria dell’opera; ma è più probabile che essa fosse destinata all’altare maggiore, d’accordo con la sua decorazione pittorica distribuita su entrambe le facce (tale, dunque, da presupporre la possibilità di girarvi attorno), e che fosse stata in effetti ordinata dal cardinale titolare della chiesa, Rinaldo Brancacci, fratello del Felice, committente degli affreschi di S. Maria del Carmine a Firenze. Ma sono stati pure chiamati in causa come possibili committenti il cardinale Branda Castiglioni, nonché un altro membro di spicco della cerchia Colonna, il cardinale Antonio Casini. Come che sia, è lecito ipotizzare che al principio del 1428 uno fra questi eminenti presuli del contesto romano si fosse rivolto al solo Masaccio, il quale avrebbe dato avvio ai lavori con il pannello dei Ss. Girolamo e Giovanni Battista, e forse abbozzando quello con i Ss. Pietro e Paolo; e che, a seguito della morte di Masaccio, sarebbe risultato naturale trasferire la responsabilità dell’opera a M., appena giunto a Roma.
Al periodo 1428-32 viene di solito ricondotta anche l’Annunciazione della National Gallery di Washington, collezione Mellon, per la quale, peraltro, taluni studiosi ritengono più congrua una datazione intorno al 1425.
Si tratta probabilmente della pala eseguita da M. su commissione di Michele Guardini, di professione beccaio, per la cappella di sua proprietà dedicata all’Annunciazione e posta nel lato sinistro del tramezzo della chiesa fiorentina di S. Niccolò Oltrarno. Guardini dettò il proprio testamento il giorno 8 marzo 1427 impartendovi disposizioni riguardo agli arredi della cappella che, di fatto, hanno reso possibile interpretare quella data tanto come ante quem quanto come post quem rispetto al compimento della tavola di M. (che Vasari, dopo averla ignorata nel 1550, nell’edizione del 1568, p. 297, riferì alla mano di Masaccio). Ciò ha determinato una certa confusione fra gli storici successivi, accresciuta dai vari spostamenti subiti dalla pala nella seconda metà del XVI secolo, l’ultimo dei quali ne provocò il ricovero nella sacrestia della chiesa, dov’è ricordata in uno scritto seicentesco pubblicato in Damiani - Laghi (pp. 57 s.). L’Annunciazione Mellon costituisce la tavola di dimensioni maggiori fra quelle di M. che si sono conservate. Si tratta di un’opera di esecuzione mirabilmente accurata, preziosa nei colori e raffinatamente decorativa: in essa il termine di riferimento della pittura di Gentile da Fabriano (soprattutto il Polittico Quaratesi, posto in opera sull’altare maggiore della stessa chiesa di S. Niccolò Oltrarno nel maggio 1425) viene corretto alla luce di una più elaborata e razionale ricerca spaziale e architettonica, che, nella soluzione dell’arco di pietra serena a tutto sesto che dà accesso all’ambiente dove si svolge l’evento sacro, e nel secondo piano in cui le due ante semiaperte permettono al riguardante di osservare la camera da letto della Vergine, documenta un crescente interesse di M. allo sfruttamento delle potenzialità illusionistiche della prospettiva.
Un ulteriore prestigioso cimento che impegnò M. nei suoi pochi anni romani fu il ciclo di affreschi di Uomini illustri, perduto nella sua interezza, commissionato dal cardinal Giordano Orsini per un ambiente, la sala del teatro, del suo grande palazzo cittadino detto di Monte Giordano; opera di dimensioni monumentali alla quale M. dovette attendere con un rilevante contributo da parte dei suoi collaboratori.
Il cardinale Orsini fu figura di notevole rilievo sulla scena culturale capitolina di primo Quattrocento: colto umanista, custodiva una biblioteca di notevole importanza ed era in rapporti con i più eminenti letterati dell’epoca (in particolare con Poggio Bracciolini). L’incarico che affidò a M. rientra pienamente in un orizzonte di rinnovata attenzione alla cultura classica, radicandosi nella più nobile e aulica tradizione della letteratura latina con un tema che, sebbene ancora poco sfruttato dalla pittura contemporanea, di lì a poco avrebbe fatto scuola presso corti e dimore rinascimentali. Dell’opera, portata a conclusione entro il 1432 e andata probabilmente distrutta nel nono decennio del XV secolo, allorquando il palazzo fu attaccato e gravemente danneggiato da miliziani al soldo della famiglia Colonna (acerrima rivale degli Orsini), si conservano solo alcuni probabili disegni preparatori: ma un’idea più puntuale del ciclo di affreschi, di enormi proporzioni, si può ricavare attraverso cinque distinte serie di disegni, tutte eseguite entro la metà del Quattrocento, in cui ne furono copiate delle parti, e dalla descrizione rinvenibile in due fonti letterarie di poco successive alla sua esecuzione. Il programma iconografico, piuttosto complesso nonostante l’inevitabile monotonia del soggetto, fu certamente suggerito a M. dal cardinale o da un umanista della sua cerchia. Sulle pareti della grande sala M. creò una galleria di oltre trecento personaggi celebri rappresentati a figura intera e a grandezza naturale, che dai progenitori Adamo ed Eva giungeva sino alle soglie del XV secolo, in una sorta di ambiziosa sintesi della storia universale dell’umanità divisa in sei periodi, che era imperniata sul racconto biblico ma attingeva largamente anche dalla tradizione storica e mitologica, contemplando la presenza di personaggi sacri e profani. Il ciclo di affreschi di M. fu ricordato nel XV secolo nello Zibaldone di Giovanni Rucellai e nel Trattato di architettura del Filarete (Joannides), e poi da Vasari in entrambe le edizioni delle Vite.
Il 17 ott. 1432 M. ricevette un pagamento di 4 fiorini per l’affresco raffigurante la Madonna con Bambino in trono e due angeli nella chiesa di S. Fortunato a Todi, conservatosi solo parzialmente. Si tratta di un’opera stilisticamente coerente con quelle romane, in cui spiccano il mirabile equilibrio raggiunto tra dolcezza tardogotica, distillata eleganza e geometrica limpidezza di segno e di impianto compositivo, ferma restando la persistente fascinazione esercitata su M. dall’opera di Gentile da Fabriano.
Il lavoro di M. probabilmente fu saldato attraverso un secondo pagamento documentato, datato 30 giugno 1433, per una somma totale di 8 fiorini e 20 soldi. L’affresco venne ritrovato nel XVIII secolo, dopo che se n’era persa memoria, dietro l’altare della cappella Gregoriana, nel braccio destro del transetto. Fu staccato, restaurato e solo tra il 1844 il 1907 posto nell’attuale collocazione, sulla parete destra della quarta cappella della navata destra. A questo stesso periodo dovrebbe risalire anche la delicata Madonna con Bambino, oggi conservata nella collezione Mason Perkins ad Assisi, che, nonostante il più arcaico fondo oro, mostra un linguaggio pittorico prossimo all’affresco di Todi.
Dopo il soggiorno umbro, fra la fine del 1433 e il 1434, M. si spostò nel Nord della penisola per quella che sarebbe stata la sua ultima impresa e, nel complesso, la più ampia che di lui si sia conservata: i vari affreschi che eseguì a Castiglione Olona, nei pressi di Varese, tutti realizzati su commissione del cardinale Branda Castiglioni.
Il borgo lombardo aveva dato i natali all’alto prelato e questi, ritiratosi colà al principio del quarto decennio, progettò di trasformarlo in una specie di città ideale caratterizzata dalla precoce assunzione del moderno stile toscano, tanto nell’architettura quanto nella pittura e nella scultura. Nel quadro di questi ambiziosi propositi M. (forte di un’équipe di lavoro di grande prestigio e piena affidabilità) assunse compiti da protagonista, in piena consonanza con il suo ruolo di personalità di punta della scena artistica fiorentina, il cui stile, presentandosi debitamente aggiornato ma non troppo spiccatamente innovativo, poteva vantare un equilibrio ideale rispetto agli obiettivi del cardinale (come già si era dimostrato negli affreschi romani di S. Clemente). La prima opera nella quale M. si cimentò a Castiglione Olona fu con ogni probabilità il ciclo di affreschi con Storie di s. Giovanni Battista, dipinto in quello che oggi è il piccolo battistero adiacente alla chiesa collegiata, ma che originariamente costituiva la cappella privata del presule, consistente in un’unica navata all’incirca rettangolare con volta a costoloni (la cui fondazione risaliva al XII secolo), divisa dalla minuscola area presbiteriale da un arco a sesto acuto. Proprio sull’arco di accesso al presbiterio si è conservata un’iscrizione con la data 1435 in numeri romani, che, pur oggetto di interpretazioni fra loro contrastanti, per lo più viene intesa come termine dei lavori. All’esterno, ai lati della porta di accesso, sono rappresentati l’Arcangelo Gabriele e la Vergine Annunziata, gravemente consunti, e sulla lunetta è una sinopia raffigurante S. Giovanni Battista. All’interno, tutti gli spazi murari sono ricoperti di affreschi. In una narrazione continua, senza cornici divisorie, sopra un alto dado decorato con finti pannelli di marmo policromo, si succedono in ordine cronologico, in senso orario a partire dalla parete ovest, i principali episodi legati alla vita del santo: l’Annuncio a Zaccaria e la Visitazione (inframmezzati da una notevole Veduta di Roma), la Nascita del Battista, la Nomina del Battista, la Predica del Battista, il Battista nel deserto, l’Incontro con Gesù, il Battesimo di Cristo, il Battista rimprovera Erode ed Erodiade, il Battista imprigionato, il Battista nella sua cella, la Decollazione, il Festino di Erode, Salomè presenta a Erodiade la testa del Battista, il Seppellimento del santo. Sulla volta principale, inoltre, sono dipinti i Quattro evangelisti con l’agnello sacrificale; mentre sulla volta del presbiterio è un Dio Padre con angeli e sull’intradosso sono i Padri della Chiesa, il Profeta Isaia e un Giovane profeta (di cui si conserva solo la sinopia). È stato acutamente suggerito che nello spazio contenuto, privato e decisamente periferico della sua cappella in Castiglione Olona, il cardinale abbia inteso creare una sorta di replica alla maniera moderna del perduto ciclo monumentale (dedicato a episodi della vita sia del Battista sia di Giovanni Evangelista e apice della civiltà figurativa tardogotica italiana) che Gentile da Fabriano prima e il Pisanello poi, con l’ausilio delle loro botteghe, avevano da pochi anni portato a termine sulle pareti della basilica romana di S. Giovanni in Laterano (Bertelli, 1987, pp. 38-44). Riguardo all’autografia, sono state formulate varie ipotesi tese a riconoscere in alcune parti degli affreschi interventi più o meno cospicui a opera dei principali collaboratori di M., in primis il Vecchietta con il suo stile plastico e la sua peculiare fantasia prospettica, sino alla proposta estremistica (Dallaj, pp. 63-73) che le pitture delle pareti nord e sud della cappella, nonché l’episodio della Decollazione del santo (che esibirebbero una cultura figurativa più moderna) siano stati eseguiti da qualche anonimo seguace toscano di M. in un secondo momento, poco dopo la morte di Branda Castiglioni avvenuta nel febbraio 1443. Ma nel complesso è lecito ribadire che gli affreschi del battistero mostrano un grado di coerenza interna e di congruenza con il corpus masoliniano (a cominciare proprio dal ciclo romano di S. Clemente) che non richiede necessariamente di supporre interventi di altri artisti che vadano al di là dei termini fisiologici che caratterizzavano nel XV secolo la dialettica produttiva tra maestro e aiuti. Di sicuro negli affreschi eseguiti nel battistero emerge una penetrazione sempre più raffinata della logica prospettica (per quanto ancora una volta fondata più empiricamente che in termini costantemente matematici), e dell’istanza naturalistica, in senso sia scenografico-spaziale sia narrativo-drammaturgico, che essa metteva in valore. M. si dimostra qui primariamente interessato, più che ai termini scientifici della questione, a quelle implicazioni sotto il profilo dello stile e dell’espressione che il De pictura di Leon Battista Alberti, negli stessi anni, avrebbe codificato e portato definitivamente alla ribalta del dibattito artistico.
M. fu responsabile di un altro ciclo di affreschi, oggi assai deperito, eseguito sulle vele della volta costolonata del coro della collegiata di Castiglione Olona, che in genere si ritiene realizzato subito dopo quello del battistero.
In esso sono raffigurati sei episodi della Vita di Maria: da sinistra a destra, la Natività, l’Annunciazione, l’Incoronazione della Vergine, lo Sposalizio della Vergine, l’Adorazione dei magi, l’Assunzione (un settimo episodio, la Morte della Vergine, di cui restano testimonianze grafiche, è andato perduto). Queste pitture vennero scialbate intorno alla metà del XVIII secolo e nuovamente riportate alla luce per merito dell’abate Luigi Malvezzi nel 1843. Fu proprio quest’ultimo a ritrovare la firma del pittore («Masolinus de Florentia pinsit»). Anche a causa dei rigidi vincoli imposti dallo spazio angusto che li ospita, gli affreschi della collegiata mostrano una maggiore arcaicità, una più convenzionale fantasia compositiva e nell’insieme una qualità pittorica più corriva. Si deve inoltre considerare che in questo secondo cimento nella cittadina lombarda M. si giovò largamente dell’aiuto dei suoi principali assistenti, Paolo Schiavo e il Vecchietta, e che fu forse proprio quest’ultimo l’artefice del compimento dei lavori. Gli stessi due pittori affrescarono sulle pareti laterali dell’abside le Storie dei ss. protomartiri Stefano e Lorenzo, dedicatari della collegiata.
È infine pressoché certo che M. sia intervenuto anche nella decorazione ad affresco del palazzo privato del cardinale Branda Castiglioni, probabilmente avvalendosi ancora una volta del cospicuo ausilio del Vecchietta.
Innanzitutto M. dipinse l’ampia veduta panoramica di un paesaggio fantastico con montagne e borghi turriti (tra i primi paesaggi «autonomi», sempre che tale dovesse essere effettivamente, riscontrabili nell’arte italiana), che sembra logico ritenere densa di riferimenti alla biografia del cardinale (si è supposto, per esempio, ma con modesti elementi di riscontro, che possa raffigurare una veduta idealizzata della regione ungherese di Veszprém, in cui si estendevano i domini di Branda Castiglioni). Sempre alla responsabilità di M. e della sua équipe sono stati inoltre riferiti (ma non con il consenso unanime della critica) il fregio presente nella stessa stanza del Paesaggio, forse lo studio del cardinale, composto di tralci d’acanto con putti intervallati da stemmi e busti di giovani (solo un lato del quale si è oggi conservato), nonché alcune piccole rappresentazioni illusionistiche affrescate nella loggia degli Eroi, raffiguranti vasellame su ripiani, che possono essere considerate tra gli incunaboli della natura morta moderna. Per quanto M. non si sia mai adeguato del tutto alla logica della costruzione razionale dello spazio pittorico, nell’insieme delle opere realizzate per il cardinale Castiglioni se ne chiarisce appieno l’intelligenza nello sfruttare l’arsenale tecnico che la sua vasta cultura figurativa gli permetteva di padroneggiare (in cui elementi della tradizione postgiottesca fiorentina e senese coesistevano con suggestioni della maniera cortese di Gentile da Fabriano e del Pisanello, rielaborate attraverso i testi innovativi di Ghiberti, Brunelleschi e naturalmente Masaccio), piegandolo alle ragioni del suo stile sapientemente inclusivo e della sua poetica discreta ed elegante.
Dopo i lavori legati alla committenza del cardinale, cessa ogni forma di documentazione riguardo la vita e l’opera del pittore. M. morì in un luogo e in una data imprecisata, ma, superato qualche fraintendimento nella lettura dei pochi documenti superstiti, l’ipotesi più probabile a tale riguardo è che il suo decesso sia avvenuto, dopo il 1436 e non oltre la soglia del 1440, a Castiglione Olona oppure a Firenze.
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