ALBIZZI, Maso
Figlio di Luca di Piero, nacque a Firenze nel 1343. Orfano di padre fin dai primi anni, affidato alle cure dello zio Piero, all'ombra della potenza politica di lui fece i primi passi nella vita pubblica fiorentina, condividendo le tendenze di acceso guelfismo comuni ai suoi consorti. Nel 1368, a 25anni di età, fu inviato a Milano ed a Roma, per trattare i problemi suscitati dalla discesa di Carlo IV in Italia; questa prima parte della sua carriera politica (nel 1370 fu capitano della Montagna pistoiese) fu interrotta ben presto dai provvedimenti presi dalla Signoria contro la famiglia A. nel 1372, che privavano i membri più influenti dell'accesso alle cariche pubbliche per un periodo di cinque anni. Coinvolto in questa condanna, l'A. fuggì in Germania e vi rimase fino al 1381, partecipando, sotto le insegne dell'Ordine teutonico, alle guerre fra l'Ordine stesso ed il granducato di Lituania. L'assenza da Firenze coincise con il periodo del governo dei Ciompi, ma non gli evitò di essere coinvolto nella comune disgrazia di tutta la famiglia. La sua casa fu saccheggiata e data alle fiamme; egli fu privato dei diritti politici e confinato a Barletta. In Germania gli arrivò la notizia della condanna a morte inflitta allo zio Piero e della parte che vi aveva avuto Benedetto degli Alberti. La scomparsa di Piero dalla scena politica faceva di Maso il capo della famiglia e della parte che la sosteneva, ed egli giurò di vendicarne la morte sterminando gli Alberti che ne avevano favorito la condanna. Per significare questa volontà, assunse un nuovo cimiero sullo stemma, rappresentando con il bracco trattenuto da una museruola la sua sete di rivalsa; questa impresa fu mutata non appena compiuto il voto fatto. Quando, nel 1381, furono revocati i provvedimenti presi nel 1378 contro i fuorusciti, l'A. tornò in patria ed ottenne facilmente che gli fossero restituiti (1382) i beni confiscatigli, nonostante che fossero stati alienati a terzi. Negli stessi anni riprese il suo posto nella vita politica, recandosi in Francia, per informare il re del mutamento di regime avvenuto a Firenze (1381), e quindi (1382) a Napoli, per trattare con Carlo III la vendita di Arezzo al Comune fiorentino. Dal 1383 al 1385 si occupò del recupero delle terre già dipendenti da Arezzo ed usurpate da Marco Tarlati; nel frattempo impose al conte di Urbino ed a Pandolfo Malatesta il rispetto per gli alleati di Firenze nelle Marche e nella Romagna. Nel 1388 ritornò in Germania, come oratore alla corte degli arciduchi di Austria e presso il Gran Magistero dei cavalieri teutonici, accompagnato dalle credenziali della Signoria che ricordavano le sue imprese militari contro i Lituani; in questa occasione fu ricevuto nell' Ordine, accrescendo l'importanza della sua persona, ma suscitando un diffuso malcontento nei Fiorentini, indispettiti dal fatto che un cittadino di sentimenti guelfi accettasse distinzioni cavalleresche da un Ordine feudatario dell'Impero. Tuttavia, la sua fortuna politica si consolidò ancor più negli anni del conflitto tra Firenze e Gian Galeazzo Visconti. A Genova, nel Casentino, a Rimini (1390), quindi a Ferrara (1391) egli si adoperò per procurare alla Repubblica nuove alleanze contro Milano, ed in Valdelsa (1391) predispose le difese opportune contro l'attacco temuto. Nello stesso tempo l'A. si sbarazzò dell'opposizione politica all'interno quando, nel 1392, essendo gonfaloniere di giustizia, fece arrestare i capi della famiglia Alberti, sotto l'accusa di una congiura tentata contro il regime vittorioso sui Ciompi. Mediante condanne a morte, al confino, alla privazione dei diritti politici, la potenza degli Alberti fu stroncata, nè gli Albizzi trovarono resistenza in Vieri de' Medici, che si astenne prudentemente dall'intervenire a favore dei condannati, quantunque il popolo minuto gli chiedesse di capeggiarlo nella reazione contro i provvedimenti richiesti da Maso. Anzi, l'aver fronteggiato i tumulti con decisione consolidò ancora di più l'influenza del gonfaloniere, che ottenne di essere preposto, come uno degli "accoppiatori", alla formazione delle liste dei cittadini ammessi al sorteggio per la nomina alle cariche pubbliche; in tal modo egli potè assicurarsi la fedeltà degli inclusi in quegli elenchi. Intanto, l'A. spingeva a fondo la preparazione della guerra contro il Visconti, dopo l'inutile tentativo di conciliazione fatto in occasione dell'ambasceria guidata a Milano per congratularsi con Gian Galeazzo per l'avvenuta concessione del titolo ducale. Tornato in patria, l'A. si fece promotore del grande prestito inteso a fornire alla Repubblica i mezzi per la guerra e nel 1396 si sbarazzò dell'opposizione guidata da Donato Acciaiuoli e da Rinaldo Gianfigliazzi, che avevano richiesto l'abolizione della legge dell'"ammonire", della quale si serviva l'A. per 'impedire, con l'accusa di ghibellinismo, l'accesso dei suoi avversari alle cariche pubbliche. Sul piano della politica antiviscontea di Firenze, riuscì a concludere (29 sett. 1396) la lega con Bologna e con i signori di Ferrara, di Padova e di Mantova, attirandovi il re di Francia con la cessione della signoria su Genova, disputata da Carlo VI ai Visconti. Fino alla morte di Gian Galeazzo, fu l'anima della resistenza fiorentina alla preponderanza milanese, combattendo insieme e l'espansione viscontea e i tentativi dei fuorusciti alleati del duca; nel 1402 (17 febbr.) l'imperatore Roberto riconfermava la sua alleanza con Firenze contro il Visconti e creava l'A. conte palatino, con i privilegi del grado. La sconfitta dei collegati e la rapida marcia di Gian Galeazzo verso la Toscana, dopo la ritirata di Roberto e la vittoria di Casalecchio, sembrarono scuotere la posizione politica dell'A., che fu, però, salvata dalla improvvisa morte del duca. Fallita in tal modo l'offensiva milanese e smembratosi il ducato tra gli eredi di Gian Galeazzo, l'A. impresse alla politica fiorentina nuove direttive, intese a raggiungere l'obiettivo della conquista di Pisa, guidando anche in questo periodo l'azione diplomatica e militare della Repubblica, fino all'assoggettamento della città rivale. La vecchiaia non fiaccò le sue forze, nè indeboli la sua influenza politica, accresciuta dai successi conseguiti contro Ladislao di Durazzo (1410), dall'acquisto di Cortona, ceduta dal re di Napoli, dalle rinnovate persecuzioni contro gli Alberti, ancora una volta accusati di congiure. Morì il 2 Ott. 1417, al colmo della potenza, lasciando al figlio Rinaldo una solida posizione economica e politica. Dal matrimonio con Bartolomea di Andrea Baidesi (1367) aveva avuto i figli Luca, Giovanni, Ridolfo, Rinaldo, Lisa, Marietta e Selvaggia. Come fondatore del regime oligarchico e come esponente della classe dirigente che ne godeva i benefici, l'A. ebbe una gran parte nella storia di Firenze, dalla caduta del regime dei Ciompi all'affermazione della politica fiorentina in Toscana, su Pisa, ed in Italia, contro i Visconti. Al tempo stesso, egli contribuì a sviluppare nella società fiorentina le premesse del futuro regime signorile. Egli favorì il popolo minuto, per farsene una base del proprio potere personale, anche se preferì governare rispettando gli ordinamenti repubblicani; ma assoggettò Firenze agli sforzi derivanti dalle guerre sostenute contro i Visconti, Pisa e Ladislao. Facendo della lotta politica tra le consorterie la ragion d'essere delle fortune della sua famiglia, l'A. preparò la strada all'affermazione dei Medici i quali, attraverso l'opera di Cosimo il Vecchio, riuscirono a piegare l'oligarchia ed a vincere la potenza di Rinaldo di Maso, servendosi degli stessi metodi che avevano favorito le fortune degli A. in seno all'oligarchia.
Bibl.: Per l'inquadramento della figura dell'A. nelle vicende di Firenze e dell'Italia, si vedano le opere generali di storia fiorentina; cfr. inoltre, L. Simeoni, Le Signorie,Milano 1950; e N. Valeri, Le Signorie,Torino 1950. In A. Rado, M. degli A. e il partito oligarchico in Firenze dal 1382 al 1393,Firenze 1926, è la più completa discussione sui dati biografici e sulla personalità politica dell'A. preceduta da una accurata critica delle fonti manoscritte e a stampa.