MASCHERA (πρόσωπον, προσοπεῖον; persona)
A) Maschera funebre. - L'usanza di coprire con una m. il volto dei defunti, si incontra sin dai tempi più antichi in diversi luoghi. Le maschere funebri traggono origine da convinzioni magiche: in molti popoli la fede nell'Oltretomba richiede che la testa rimanga intatta dopo la morte. A questo, appunto, serve la m., la quale, nello stesso tempo, difende il cadavere dall'eventuale potenza dei dèmoni ostili. Inoltre, il superstite spesso scorge un pericolo nei poteri demoniaci che il defunto può aver acquistato con la morte. La testa è considerata nucleo di questi poteri ed è pertanto isolata mediante la m., che in entrambi i casi serve da mezzo apotropaico. Solo vagamente connesso con questi usi derivanti da terrore magico, è il desiderio di una conservazione pura e semplice, per cui si cerca di serbare oltre la morte la fisionomia individuale sotto forma di una m. il più possibile somigliante. Maschere funebri di questa specie, che si trovano sempre dove esista uno sviluppato culto dell'individualità, mostrano perciò sempre più o meno evidenti tratti realistici.
Le maschere funebri richiedono un materiale che sopporti l'umidità e che, pur essendo abbastanza resistente, si possa facilmente lavorare e plasmare. Tale proprietà possiedono i metalli che possono essere stesi in lamine e quindi battuti sopra una forma. Si conoscono maschere funebri d'argento e soprattutto d'oro, che sono state fatte con questa tecnica. Per di più l'oro sul corpo del morto ha un valore magico. Più spesso, specie nel periodo dell'Impero romano, si adoperava il bronzo. Si ricorreva anche a materiali meno costosi e meno resistenti, però più facili a plasmarsi come la tela stuccata, la cartapesta, il gesso o la creta, terracotta o cera.
1) Sepolture dell'Età della Pietra con ocra e conchiglie. - Come primo esempio di maschere funebri si cita talora la sepoltura in ocra delle caverne tombali dell'Europa meridionale, in quanto ha un carattere apotropaico o tenta in qualche modo di dare l'illusione del colorito del volto. Qui non si entra in dettagli, poiché l'argomento non è pertinente (cfr. Wilke, in Reallexikon d. Vorgesch., ix, p. 156 s., s. v. Ocherbestattung). Quanto alle "maschere di conchiglie", citate spesso a questo proposito, si tratta in realtà certamente di una specie di cappello o di ornamento del capo (cuffia di conchiglia), ma non di maschere.
2) Cranî ricoperti di gesso, d'età neolitica, da Gerico. - Nel 1953 e nel 1958 K. Kenyon ha trovato a Gerico una serie di cranî trattati in modo singolare, riempiti di terra, cui assegnò un'età di circa 7000 anni. I 7 crani del primo reperto erano ammucchiati sotto il pavimento di un'abitazione neolitica in parte crollata. Al posto della carne decomposta (o distaccata?), sulle ossa del cranio, a partire dalle tempie, sono modellati in gesso i tratti del volto. Salvo un caso, manca in tutti i crani la mascella inferiore, rifatta in gesso grossolanamente e attaccata così alla fila di denti dell'altra mascella, per cui le teste appaiono oltremodo schiacciate. Per contro, in molti scheletri trovati nelle vicinanze mancano i crani, ma non le mascelle inferiori. Pare si tratti di inumazioni parziali, come si riscontrano nell'Europa meridionale sin dal Magdaleniano (Reallex. d. Vorgesch., iv, p. 456, s. v. Grab).
I tratti del volto (sopracciglia, naso, bocca, orecchie) sono modellati in maniera accurata e con senso realistico. La constatazione della Kenyon secondo cui le singole teste si differenziano per lineamenti propri e per l'abilità della riproduzione, si potrebbe semmai spiegare con certe piccole differenze nella struttura dei crani, cioè nell'armatura del modello in gesso. Non è probabile che in questa forma di inumazione ancora in fase schiettamente magica, si sia voluta ottenere una somiglianza nel ritratto. Il gesso di alcuni crani è lievemente colorato, in un cranio è perfino rossiccio scuro. Nella parte superiore di un cranio, non coperta dal gesso, alcune strisce scure tentano di simboleggiare la capigliatura. È evidente dunque l'intenzione di plasmare delle teste simili, per quanto fosse possibile, al vero. In sei teste sono state fissate, nel cavo degli occhi, due mezze conchiglie su un sostegno di argilla, con in mezzo una fessura verticale a guisa di pupilla: nella settima testa le fessure delle conchiglie, essendo in senso orizzontale, danno l'impressione di occhi chiusi nel sonno. Anche se questi crani di parenti (culto degli antenati?), o di nemici (trofei?), alla cui conservazione si attribuiva evidentemente grande importanza, non si possono ancora chiamare vere e proprie maschere, tuttavia la modellazione in gesso del viso sul cranio si avvicina già molto alle maschere di età seguenti.
3) Maschere di gesso e di terracotta nella Siberia meridionale. - Se cerchiamo il più stretto parallelo dei cranî di gesso di Gerico, dobbiamo fare un gran salto nel tempo e nello spazio. In tombe collettive della regione di Minussinsk (v.) presso il corso superiore dello Jenissei e nell'Altai occidentale sono state trovate alcune centinaia di maschere funerarie in gesso o caolino e terracotta. Le più antiche risalgono al periodo tocarico (VIII-II sec. a. C.), le più numerose al periodo di Taštyk (II sec. a. C. - IV sec. d. C.). In alcuni casi si ha qui lo stesso procedimento che a Gerico il gesso o la terracotta sono spalmati sullo scheletro del volto (conservato solo a frammenti) e sostituiscono la carne. Queste teste modellate senza arte, testimoniano uno stadio artistico molto più impeffetto delle teste di Gerico che pure sono assai più antiche. Tuttavià è interessante il fatto che questo tipo di inumazione, fino ad ora poco conosciuto, si riscontri in forma appena modificata migliaia di anni più tardi nella Siberia meridionale.
Nelle stesse tombe della Siberia sono state trovate anche vere e proprie maschere funebri, che in parte sono costruite con lo stesso procedimento per calco delle maschere di cera romane (v. più avanti). I lineamenti del volto del morto erano certamente riportati su una massa malleabile, donde si traevano fedeli calchi in gesso poggiati in seguito sul volto del deflinto (alcuni sono stati trovati in situ). Per gli studi di etnografia presentano grande importanza.
Un secondo gruppo di maschere della Siberia meridionale è plasmato a mano sull'argilla senza tener conto della somiglianza (il Behn le pone in stretta connessione con i canòpi etruschi). Alcune sono dipinte come se fossero tatuate, il che ricorda i corpi tatuati dei principi sciti del IV sec. a. C. dei kurgan II e V di Pazyryk (v. altai). Ma ancora non è provato che vi sia una connessione fra tali maschere e le salme degli Sciti.
4) Maschere delle mummie in Egitto. - In connessione con la profonda fede nell'Oltretomba, presso gli Egiziani aveva un importanza essenziale la conservazione del corpo umano, e soprattutto della testa, oltre la morte. Sullo strato digesso che rafforzava le fasce delle mummie, si usava modellare i tratti del volto il più possibile somiglianti, dalla II dinastia fin verso la fine dell'Antico Regno. Ma già nell'Antico Regno (a cominciare dalla V dinastia) si diffuse l'usanza di coprire il volto della mummia con una m. fabbricata a parte, di lino dipinto o di cartapesta. Queste maschere coprivano, oltre il volto, anche la parte posteriore del capo e la nuca; qualche volta anche il busto fino alle anche. Nel periodo tra la fine del Medio e l'inizio del Nuovo Regno si diffusero anche maschere in gesso poste sopra lo strato di stucco spalmato sulle bende. Tali maschere erano costruite a grandezza inferiore alla naturale, per far posto a una cornice di valore magico.
Le maschere di gesso provenienti da una officina di scultore di el-'Amārnah (XVIII dinastia), a calco, quindi molto realistiche, non furono adoperate come maschere funebri, al modo di quelle siberiane in gesso, o quelle romane di cera, fabbricate col medesimo procedimento. Si suppone che servissero all'artista come modelli di teste per le statue.
La m. della mummia ubbidisce a due scopi: primo, deve essere una specie di ritratto del morto, pur sempre soggetto a certe convenzioni stilistiche (le maschere più antiche, e dapprima poco diffuse, dell'Antico Regno riproducono ancora i lineamenti individuali, mentre negli esemplari posteriori si può riconoscere la fabbricazione in serie, nei volti inespressivi e schematici; nella XXI dinastia ritornano, invece, i tratti realistici); in secondo luogo la m. costituisce un mezzo di difesa contro la perdita della testa ed è spesso munita di una formula di scongiuro, inclusa più tardi nel Libro dei Morti.
Nel Medio Regno (XII dinastia) compaiono le casse a forma di mummia. In un sepolcro di pietra giaceva la mummia, generalmente rinchiusa in tre casse antropomorfe di cartapesta, di legno dipinto o dorato, oppure di metallo prezioso (cfr. la cassa d'oro di Tutankhamon a Tebe, della quale si è conservata anche la m. d'oro della mummia, il sarcofago d'argento, con testa di falco e la m. aurea di Kheper-Rē῾ Sheshonq da Tanis). Così il volto del morto era copiato e difeso quattro volte, poiché alle teste scolpite sulle casse si attribuiva lo stesso valore della m. sulla mummia.
Teste, cioè stilizzati ritratti del morto, dalla IV alla V dinastia furono adoperate come coperchi dei canòpi (v.), nei quali erano conservate le viscere del morto dopo la mummificazione.
In Egitto anche i Greci e i Romani osservarono le regole della sepoltura per mummificazione. In un primo tempo continuarono ad adoperare anche le maschere, ma le mutarono poi in veri e propri ritratti, restati in uso in due tipi dall'inizio del I sec. a. C., per circa 5oo anni. Il ritratto modellato in stucco (predominante nell'Egitto centrale) assomiglia dapprima ad una m., per diventare poi un busto vero e proprio, molto somigliante al modello (v. il cairo museo, fig. 134). Un altro sviluppo, più lontano dalla originaria m. funebre, rappresentano i ritratti dipinti su legno, o talora su tela, fissati sulla faccia del morto nelle fasce: essi durano di più dei ritratti modellati a rilievo. Sebbene quelli del periodo tardo siano fabbricati in serie, la maggior parte sembrano comunque ritratti individuali, con marcate differenze etniche (egiziani, greci, romani). Il ritratto della mummia non è più una difesa contro l'antica paura magica della distruzione della testa, ma risponde al desiderio più concreto di conservare una raffigurazione somigliante del defunto (v. fayyūm).
Nel campo delle maschere funebri, l'Egitto è da considerare, dunque, il paese "classico". In esso si trova ogni genere di m. in tutto lo sviluppo dei tipi e dei materiali usati (cioè dalla cartapesta all'oro). S'incontrano, inoltre, le forme secondarie, come le teste scolpite sui sarcofagi antropomorfi, le maschere dei canòpi e i ritratti dipinti sulle mummie. Non si sa con certezza quale rilievo abbiano avuto gli influssi egiziani sugli altri tipi di maschera.
5) Lamine degli occhi e della bocca, del Mediterraneo orientale, dell'Asia Minore e della Russia meridionale. - In culture e tempi diversi si usò coprire gli occhi e la bocca del morto con lamine di metallo prezioso (una specie di m. parziale). Le più antiche lamine d'oro (Minoico Antico II-III), dalle necropoli di Mochlos (Mar Egeo), sono decorate con linee punteggiate, che talora imitano rozzamente gli occhi, simili ai disegni di occhi sulle stele funebri della Siria. È probabile che allo stesso periodo appartengano i diademi d'argento, provenienti da Sifno (Cicladi), con motivi simili e con la stessa tecnica del disegno a punto. Lamine auree, non decorate, per gli occhi e per la bocca, sono state trovate nelle tombe assire di Kültepe (inizio II millennio a. C.): tale uso si estende fino nell'Iran (Tepe Siyalk). Nel periodo tardo-miceneo si trovano in Cipro lamine auree di labbra con decorazione impressa di ornamenti o di figure. Al X-IX sec. a. C. appartiene una lamina da bocca di oro smaltato con accenno di mento e baffi di Tell Halaf. Anche le sottili sfoglie auree (lunghezza di 5 e 7 cm) trovate nelle tombe di Caushitza presso Salonicco con disegni geometrici, pare raffigurino labbra. Infine esistono anche lamine, sempre d'oro, di occhi e bocca dal mausoleo scitico di Neapolis in Crimea, eretto nel II sec. a. C. Anche in Emesa di Siria sono state trovate nelle tombe del I sec. d. C. lamine uguali.
Tutte queste lamine, in parte rettangolari, in parte ovali, hanno buchi alle due estremità per i fili con cui erano legate; come le maschere, hanno il compito di celare la corruzione del volto nelle parti principali e di serbare al morto l'aspetto di un vivo, perché una sopravvivenza oltre la morte può immaginarsi infatti solo con un corpo (rispettivamente una testa). Soprattutto difesi dovevano essere gli occhi e la bocca in quanto organi più importanti per vedere, parlare e mangiare. E. da ricordare inoltre la paura magica secondo cui l'anima del morto può lasciare il corpo attraverso queste aperture per nuocere ai vivi. Per la stessa ragione nei kurgan di Kelermes (VII-VI sec. a. C.) gli Sciti del Kuban hanno chiuso le cavità degli occhi, del naso e delle orecchie ai loro morti con pietre semipreziose o preziose incastonate nello smalto.
6) Maschere d'oro a Micene. - Non solo gli Egiziani conoscevano le maschere funebri di metallo prezioso. La più nota e la più cospicua scoperta di maschere auree avvenne a Micene nelle tombe a fossa III, IV e V: cinque maschere d'uomo ed un frammento di m. di bimbo, a grandezza naturale, in lamine d'oro molto sottili. Trovate schiacciate a causa del crollo della tomba, sono state parzialmente ricomposte. Certamente ricoprivano il volto dei principi morti ed erano strettamente legate col sudario che avvolgeva il cadavere, in modo che la stoffa coprisse gli orli delle maschere; vicino alle orecchie hanno dei piccoli buchi, dove passavano i legacci. Le maschere hanno differenti caratterizzazioni: sono giovanili e senili, hanno barba, baffi o sono rase, alcune hanno il naso lungo, altre corto, occhi chiusi o aperti, bocca larga o stretta, sono sorridenti o crucciate. Le orecchie, che hanno funzione ornamentale senza pretese realistiche, per lo più sono collocate fuori posto. Le maschere sono state spesso studiate per sapere se siano ritratti o no. È certo che in esse non si debba vedere un ritratto in senso vero e proprio; piuttosto dobbiamo riconoscerle eseguite seguendo una certa univoca concezione stilistica, che non mira alla riproduzione realistica, ma che tuttavia si arricchisce di tratti individuali, quali realmente avrebbero potuto essere i volti dei principi sepolti.
Ancora irresoluto è il problema, circa il rapporto in cui si possono considerare queste maschere che rappresentano un unicum nell'ambito culturale minoico-miceneo. I Greci di epoca posteriore non conobbero affatto le maschere (una piccola m. aurea, di origine probabilmente beota, ma non databile; l'unico altro esempio nella penisola greca, si deve lasciar da parte a causa dell'incertezza delle notizie: Karo, Schachtgräber, p. 331).
Alcuni mettono in rapporto le maschere micenee con quelle delle mummie egiziane, e tale connessione sarebbe pensabile solo attraverso la via indiretta di Creta (dove, tuttavia, poiché le tombe reali sono state saccheggiate, nessuna m. è stata scoperta, eccetto una lamina aurea che proviene da Mulianà): lo stile e l'espressione delle maschere di Micene non lasciano tuttavia scorgere alcun influsso egizio. D'altra parte le maschere di Micene sembrano essere in stretto rapporto con maschere trovate più a N, nell'Illiria, come del resto provano anche la tipica ornamentazione a spirale sulla suppellettile aurea di Micene e l'uguale forma della tomba (v. minoico-micenea, arte).
7) Maschere di oro e di bronzo dall'Illiria. - Le maschere auree dalle tombe a pozzo di Trebenište, presso il lago di Ohrid nell'antica Illiria, sono costruite in modo più rozzo delle maschere di Micene, che pur le precedono di 1000 anni. I nasi non sono ricavati a sbalzo sulla medesima lamina, ma sono sovrapposti; gli occhi enormi, le larghe sopracciglia e le bocche sottili sono molto più schematiche e disegnate con linee oblique e con linee a punti, in una visione quasi ornamentale.
La m. della tomba viii (Arch. Anz., 1930, p. 278) somiglia, più delle altre, a quelle di Micene: in essa si riscontra come particolare nuovo l'ornamento delle strisce e delle fasce a treccia intorno al volto, simili al motivo delle spirali nelle maschere micenee. Sono tutte databili intorno alla fine del VI sec. a. C. e mostrano, oltre ad influssi della grecità arcaica, anche caratteristiche proprie (specialmente nelle ornamentazioni).
È della stessa epoca una m. di bronzo da Klein-Glein nella Stiria (Illiria settentrionale). Sembra più stilizzata e più schematica delle maschere del lago di Ohrid, ma mostra le stesse file di punti con le quali sono disegnate le sopracciglia, unite alla base del naso, il taglio della bocca, i bordi degli orecchi; inoltre circondano il volto e sulla fronte sono a zig-zag. La m., che appare non greca e rozza di fattura, non è certamente un ritratto. Il Filow vorrebbe assegnare le tombe di Trebenište e di Klein-Glein a ufficiali mercenari del periodo dell'invasione scitica; ma più probabilmente si tratta di principi locali. In base alle somiglianze delle forme di tombe, dell'uso di maschere, e delle particolarità stilistiche (pur tanto lontane nel tempo), si è pensato che per i Micenei e per gli Illirici si debba cercare una comune origine etnica più a N-E, forse nel centro dell'Asia (Schuchhardt, Behn).
8) Maschere auree della Russia meridionale (Scizia occidentale). - In una tomba presso Olbia è stata trovata una m. d'oro, senza barba, che non ha connessione né con le maschere micenee, né con le illiriche, né con quelle dell'Asia Minore (v. oltre). Per quanto lascia intravvedere lo stato malconcio, il pezzo è stato lavorato in modo alquanto rozzo, pur presentando tratti realistici (pupille a rilievo e strabiche); sembra non greco, ma di provenienza locale. Si pensa che appartenesse ad una donna come un'altra m., trovata ancora sul volto del cadavere giacente in un sarcofago di marmo da un kurgan di Panticapeo (Kerč), nella Russia meridionale. Questa "Regina con la m." appartiene quasi sicuramente al periodo in cui l'invasione dei Sarmati sul Bosforo giunse al culmine, cioè all'inizio del III sec. d. C. La bella m. dai tratti tanto realistici, quasi si trattasse di un calco dal volto del morto (o della morta), secondo il Rostovzev (Skythen und der Bosporus, i, p. 223) presenta notevoli somiglianze con monumenti parthici. Poiché Erodoto (iv, 71 ss.) racconta che gli Sciti ricoprivano interamente con la cera i cadaveri dei loro prìncipi, dopo averli mummificati con rudimentali procedimenti, per poterli portare in giro su un carro, attraverso le genti, si suppone che sul volto dei morti fosse posta una maschera. Era abitudine degli Sciti dell'Altai di adornare i cavalli, seppelliti con i padroni nei kurgan principeschi, con maschere di cuoio munite di ornamenti. Fino ad ora non sono state trovate peraltro maschere umane sicuramente scitiche.
9) Uso di maschere funebri nell'Asia Minore. - La Siria (cfr. anche sopra) e la Fenicia possono essere considerate i due centri principali dell'uso di maschere funebri nel mondo antico. I pìthoi ivi in uso da circa il 1200, per la sepoltura delle mummie, fanno pensare alle casse e ai canòpi dell'Egitto (come coperchio hanno teste sul tipo delle maschere di Micene, che sono state trovate in gran numero a Bēt Shěān). Con la bocca e gli occhi serrati, con le orecchie stilizzate, rammentano i vasi troiani conformati a faccia umana e i cinerari etruschi, detti canòpi (v.). Le maschere di uomini senza barba, sono riconoscibili per una specie di diadema, quelle femminili per il velo; sotto la faccia sono accennate braccia e mani. Sarcofagi marmorei antropomorfi, con teste scolpite in Stile Severo, risalenti al V sec. a. C., sono stati ritrovati nella fenicia Sidone. In questo caso gli influssi egiziani sono innegabili. Forse i loro immediati predecessori sono stati i pìthoi a m. dell'antica Siria.
In parecchi luoghi della Siria, soprattutto nell'antica Fenicia, sono state trovate maschere funebri in oro, per lo più di epoca romana, ma non tutte sono state pubblicate. Due si trovano da qualche anno nel Römisch-Germanisches Zentralmuseum di Magonza; si dice che una assomigli alle due maschere auree di età ellenistico-romana, trovate a Sidone ed Emesa. Il Seyrig, il quale assegna a circa la metà del I sec. d. C. la necropoli di Emesa e pertanto la m. ivi trovata, parla di due altre maschere auree da Baalbek e Tortosa nel museo di Beirut. Inoltre ricorda di aver visto sul mercato d'arte altri esemplari di provenienza incerta. Due m. auree di Sidone si trovano in raccolte private (Pollak, Klass.-ant. Goldschmiedearb. im Besitz von Nelidow, p. 19, tav. 7, ii, 40 tornate di nuovo in circolazione nel 1931 in un'asta da Sotheby - e Collezione de M. L. Cortin, Vente 1896, n. 173, tav. 7, 1). Nella tomba 1 di Emesa, da cui proviene la m. aurea, si trovava anche un elmo chiuso, molto bello, di ferro, il cui volto è tutto placcato d'argento (v. elmo; emesa, vol. iii, figg. 388, 396; pp. 320 e 327).
Nella Mesopotamia sono state trovate due maschere d'oro, di stile arcaico. Secondo le relazioni di Layard una proviene da una tomba presso Quyungiq. In base ad una moneta dell'imperatore Massimino trovata nella medesima necropoli, la m. sembra appartenere all'epoca dei Parthi (come del resto l'altra molto simile, che proviene da una tomba presso l'Eufrate). Una terza m. dalla Mesopotamia si trova a Cannes. Le maschere con i rozzi contorni delle sopracciglia, degli occhi e delle labbra coniati su lamina sottile fanno pensare ai volti a forma di m. che si trovano in Arabia sulle stele funebri di pietra o di legno (H. Th. Bossert, Altsyrien, tav. 382, nn. 1311, 1312, 1315; tav. 392, n. 1359).
Sull'uso delle maschere ghignanti in terracotta di età posteriore (forse apotropaiche), provenienti da Babilonia, si sa poco (cfr. il paragrafo seguente).
10) Maschere puniche d'argilla. - Da Cartagine abbiamo una serie di maschere puniche in terracotta, in parte policrome, delle quali si ignorano per lo più le circostanze del ritrovamento, soltanto di poche sappiamo che sono state trovate in tombe. Esse costituiscono due gruppi differenti: le une sono grottesche con grandi buchi per gli occhi e per la bocca, il volto rugoso contratto, quasi sempre a un ghigno o a una risata, le orecchie spesso enormi. Assomigliano molto alle maschere di terracotta che i Romani probabilmente adoperavano nelle atellane (cfr. B 5) ma anche alle maschere demoniache di uso cultuale (ad esempio quelle del santuario di Artemide Orthia a Sparta: cfr. B 1). Se, come si è pensato talora, hanno avuto qualche attinenza con le tombe, allora possono aver avuto solo valore apotropaico.
Il secondo gruppo di maschere puniche presenta volti più realistici in atteggiamento serio, i quali tuttavia sono stilizzati a tal punto da rivelare solo debolmente qualche tratto individuale. Ma da esse si può conoscere qualcosa in generale sull'aspetto degli antichi abitanti di Cartagine ed anche sull'acconciatura dei loro capelli e sulla barba. I volti appaiono orientali e questo forse è da attribuire agli influssi fenici. In alcune maschere è appeso un anello al setto nasale. Una m. femminile dal gran naso rammenta le maschere a busto delle mummie egizie, poiché si prolunga fino a tutto il petto.
Queste maschere erano sicuramente funebri; in qualche caso erano forse parti di sarcofagi di argilla antropomorfi, il che è probabile poiché conosciamo coperchi di sarcofagi cartaginesi, a forma di letto, sul quale è sdraiata una realistica figura umana in atteggiamento dignitoso.
11) Maschere funebri etrusche e "canòpi". - Nella regione di Chiusi gli Etruschi seppellivano i morti con una usanza particolare, derivante dalla fusione di due diversi tipi di seppellimento. Gli Etruschi, i quali in origine (come poi in un secondo tempo) non bruciavano i morti, probabilmente per alcuni secoli adottarono la cremazione, in uso presso gli indigeni italici che costituivano la maggioranza della popolazione. Nei primi tempi però, a partire dall'8oo a. C., applicavano sul coperchio dei cinerari vere e proprie maschere di bronzo o di terracotta, le quali con tutta la loro stilizzazione, lasciano intravvedere qualche intento realistico, come i pithoi della Siria e le maschere in gesso della Siberia meridionale. Più tardi scomparvero le maschere applicate, e il coperchio stesso portò la figura del volto a rilievo: al termine di questo processo il coperchio divenne una testa a tutto tondo. La parte superiore dell'urna ha spesso la forma di un torace stilizzato le cui braccia in un primo tempo erano ancora una specie di manico, per divenire via via più realistiche. Spesso l'urna che rappresenta il defunto è posta o "seduta" sopra una base a forma di poltrona (v. canòpi, vasi; etrusca, arte).
12) Maschere funebri italiche. - Nella cultura villanoviana, che in origine non conosce l'inumazione, le urne provenienti soprattutto da Tarquinia hanno talvolta un coperchio a elmo: l'elmo è qui soltanto il simbolo del rango del morto.
Un simile significato potrebbe avere anche l'elmo del cosiddetto Guerriero di Capestrano (V sec. a. C.), se è giusta l'ipotesi del Boethius che si tratti della statua di un defunto, capo di popolazione sabellico-picena, con elmo e m., tenuto in piedi per la cerimonia funebre. Nello stesso tempo questo esemplare sta a provare che le popolazioni italiche hanno adottato la m. funebre dai vicini Etruschi. Più tardi ne trasmisero l'uso ai Romani presso i quali nell'ultimo periodo della Repubblica, la m. costituì una delle premesse dell'arte del ritratto.
13) Roma e province. - a) Maschere funebri nel culto degli antenati. - A Roma l'uso delle maschere funebri è strettamente connesso con il culto degli avi. Dopo la morte di una persona illustre, si usava esporre il cadavere con la m. sul volto per alcuni giorni, poi si conservava la m. di cera dipinta in un'apposita custodia nell'atrio della casa. Nelle sepolture di altri membri della famiglia queste maschere degli antenati, certamente assai somiglianti, erano portate dai familiari che partecipavano al funerale, sì che sembrasse che tutti gli antenati si fossero riuniti per la cerimonia: in seguito, quando la tradizione si affievolì, si affittarono degli attori per portare le maschere. Tali cerimonie erano soltanto riservate ai membri delle famiglie più illustri (ius imaginum; cfr. Polyb., vi, 52 s. e Plin., Ep., iii, 5; v. imagines maiorum; ritratto; romana, arte).
Poiché i Romani, al pari degli Italici, avevano deboli interessi escatologici, in Roma la m. funebre, perduto, se mai lo ebbe, il valore magico, fu ben presto soltanto un mezzo per conservare l'immagine della testa. Mentre il cadavere era esposto agli sguardi dei parenti presenti alla cerimonia funebre, la maschera di cera copriva gli sfregi o le ferite prodotte da morte violenta o le incipienti alterazioni del naturale disfacimento e, nello stesso tempo, grazie alla fedele somiglianza, accentuata dai colori passati sulla cera, dava l'impressione che il defunto fosse ancora in vita.
Sull'aspetto e la materia (terracotta? bronzo?) dei più antichi ritratti degli antenati, precedenti il II sec. a. C., ignoriamo tutto, perfino se genericamente avessero forma di maschere. Dopo il 200 a. C. si fa evidente l'aspirazione ad individualizzare i tratti delle imagines maiorum per una sempre più stretta somiglianza. Al più tardi, tra il 150 e il 90 a. C., questa tendenza realistica giunge al culmine grazie all'introduzione della tecnica della cera. È molto verisimile che le maschere di cera fossero fatte a calco dal volto del morto (Plin., Nat. hist., xxxv, 2) e in seguito rielaborate. La tecnica del calco presentava un vantaggio essenziale: oltre alla m. che nel funerale copriva il volto del morto, i familiari potevano trarre dalla stessa forma altri esemplari per gli armadi genealogici e per altre cerimonie funebri.
Oltre alla cera si continuò ad adoperare anche terracotta e bronzo, poiché entrambi si adattano alla tecnica a calco e alla libera rielaborazione dei tratti. Due maschere di sottile argento sono state trovate in Gallia (Notre Dame d'Alençon) donde proviene anche una m. funebre di ferro in tre pezzi (Benndorf, Gesichtshelme, tavv. 9, 1. 2, pp. 339, 32). Una m. di giovane donna, in terracotta, con lineamenti personali e tracce di colorazione, fu trovata in una tomba romana di Alcacer do Sal (Lisbona) appoggiata ad un'urna cineraria. Durante le cerimonie funebri precedenti la cremazione, era stata messa forse sul volto della morta e poi posta come suo ritratto presso l'urna. Una m. di bronzo, molto realistica, da Arolsen (Benndorf, Gesichtshelme, tavv. 1, 2 a e b) che sembra tratta con un calco, è stata riconosciuta come non antica.
Non abbiamo alcun esemplare di m. di cera, che è materia di nessuna resistenza (non possono infatti essere considerate maschere funebri due volti in cera trovati a Cuma, i quali furono attaccati al cadavere privo di testa, per qualche causa). Tuttavia nella Casa del Menandro a Pompei, si sono potute ricostruire con una colata di gesso le forme di tali immagini, che si erano conservate come cavità nelle ceneri vulcaniche (v. imagines maiorum). Ma è assai improbabile che le maschere di Pompei fossero di cera perché in tal caso, data la loro fusibilità non avrebbero opposto sufficiente resistenza al calore. Forse erano fatte di legno come le teste in forma di m., trovate ad Ercolano (v.) e nella stessa Pompei (Schweitzer, Bildniskunst, p. 20, nota 2).
b) Elmi romani a maschera. - All'inizio e alla metà dell'epoca imperiale si sviluppò un nuovo tipo di m. funeraria: la celata in metallo (per lo più in bronzo), la quale si presenta in molteplici aspetti. Il nome di celata o di elmo è causa di confusione, poiché qui certamente non si tratta di elmi o di celate in senso militare bensì di fedeli, realistiche riproduzioni del volto e della pettinatura, sempre che non si tratti di un guerriero defunto, fornito di elmo o simile ornamento del capo, come il cimiero della m. di Ribchester. Spesso la parte del capo è connessa al volto da una cerniera. Donde provengono questi elmi? Probabilmente sono in qualche modo collegati alle tradizionali imagines maiorum, ma non furono fatti con la tecnica del calco. Di solito accanto a caratteristiche locali e ad atteggiamenti stilistici propri del tempo, tali elmi lasciano intravvedere una chiara aspirazione all'idealizzazione del volto: l'effettiva somiglianza in essi non ha più alcuna importanza. Sono sempre raffigurati volti giovanili, spesso di donne; perciò non si può trattare in nessun caso di pezzi d'armatura. Per di più il metallo è sottile e poco resistente, gli elmi sono intatti (non presentano tracce di colpi o di tagli) ed hanno insufficienti aperture per la bocca, gli occhi e il naso (per questa ragione non possono essere elmi da cerimonia). È pertanto credibile che fossero usati nelle tombe, ma purtroppo mancano spesso notizie sicure sul loro ritrovamento.
Interessante è la distribuzione dei luoghi di scavo. La serie raccolta dal Benndorf (p. 320), ha bisogno al presente di correzioni e di integrazioni (cfr. Behn, in Festschr. Züchner, 1954, p. 20). In Italia sono stati trovati relativamente pochi esemplari frammenti di tre elmi di bronzo sono venuti alla luce recentemente a Rapolano presso Siena (Arch. Anz., 1959, p. 17, fig. 41). Ritrovamenti più importanti avvennero ai confini delle province romane: innanzi tutto in Germania (lungo il Reno e il Danubio), a Straubing, presso l'antica frontiera dei Reti, a Heddernheim (Germania, xiv, 1930, tav. 4), a Aschberg (Germania, xvi, 1932, p. 52 ss.). Due belle maschere di bronzo con elmo dalla Serbia - delle quali una, con barba, è ora al museo di Belgrado - un'altra di Kalenik (Bulgaria) al museo di Lovec. Perfino nell'Africa settentrionale, a Grimidi, è stata trovata una m. con elmo, di età ellenistico-romana (L. Leschi, Algérie antique, pp. 189-90). Abbiamo già ricordato l'esemplare siriaco-romano di Emesa (v.).
Da questi pochi esempî si può constatare quanto siano distanti l'uno dall'altro i luoghi di ritrovamento; per lo più si trovano in regioni un tempo sottoposte all'ammimstrazione militare romana. Come già gli antichi italici abitanti delle montagne usavano seppellire i loro morti in assetto di guerra (v. capestrano), così i loro discendenti, e soprattutto gli ufficiali romani dislocati nelle province, per sé e per i loro congiunti volevano che nell'elmo, quale m. funebre, fosse simboleggiato il proprio stato e rango militare (si ricordino anche le urne villanoviane, sormontate da elmo, a Tarquinia).
B) Maschera teatrale. - L'antica m. teatrale, la quale includeva, oltre al volto anche la parrucca, copriva l'intera testa. Il volto era fatto di tela stuccata, o di legno leggero, o di sughero dipinto; la parrucca di pelo, di lino o di materiale simile. Purtroppo non ci è giunta nessuna m. teatrale in originale ma, grazie a numerose riproduzioni in marmo, terracotta e metallo, e grazie ad affreschi e mosaici (v. Tav. a colori), possiamo farci un'immagine ben precisa del loro aspetto.
1) Maschere cultuali teriomorfe e antropomorfe e loro influsso sulle antiche maschere teatrali. - In sé e per sé anche l'antica m. teatrale dovrebbe essere annoverata tra le maschere di culto, poiché era portata in onore di Dioniso nelle sue feste in luoghi ed occasioni sacre, cioè nelle rappresentazioni drammatiche; ciò nonostante si usa darle un posto speciale. Parallelamente all'introduzione dei tre tipi di spettacolo in Atene, cioè la tragedia, il dramma satiresco e la commedia, verificatasi in 50 anni a partire dal 534 a. C., si svilupparono anche i diversi tipi di maschere teatrali. I precedenti sono da ricercare nelle prime maschere di culto d'aspetto animalesco o umano, dalle quali le maschere teatrali hanno adottato vari dettagli e soprattutto i poteri magici di mutare in un altro essere il portatore della maschera. Questa discendenza appare chiara nelle maschere teriomorfe dell'antica commedia e del dramma satiresco. In esse sono le origini del vero culto di Dioniso, le cui tracce si riscontrano fino all'epoca micenea (v. Antike u. Abendland, viii, 1959, p. 7 ss.). Come modello per i cori di animali nella commedia antica servirono senza dubbio i comasti mascherati da bestie delle Dionisie rurali. Il carattere demoniaco-magico di queste maschere animalesche è ancora avvertibile nella commedia, pur se affievolito a causa del contenuto grottesco e satirico.
È molto probabile che anche nelle cerimonie cultuali di altre divinità i sacerdoti e danzatori portassero maschere. Così forse a Lykosoura, nel culto di Demetra dea con testa di cavallo, nel santuario della quale sono state trovate statuette di terracotta con teste di pecora e di vacca; probabilmente portavano maschere teriomorfe anche i sacerdoti, le sacerdotesse e i servitori del tempio di Posidone in Efeso, della Demetra laconica e di Artemide Braurònia, poiché avevano nomi di animali.
Già nell' VIII-VII sec., cioè molto tempo prima dell'introduzione del dramma satiresco (fine del VI sec.), i satiri-bestie appartenevano al corteo di Dioniso. Anche le maschere di satiri destinate alla scena sono fornite di attributi fermi: corna, orecchi di capra o di cavallo, barbette di capra o criniere. Dal vaso di Pronomos a Napoli abbiamo un' immagine dell'abbigliamento dei satiri teatrali barbuti (fine del V sec. a. C.) con le maschere dal naso camuso, rugose, munite di barbe spettinate e di criniere. Sullo stesso dipinto si riconosce l'avanzata età del Papposileno, capo del coro dei satiri, dalla fronte calva, dalla barba grigia e dalle numerose rughe della maschera. Accanto al tipo di satiro con barba nera appaiono perciò, nel corso del sec. IV, anche tipi di satiro con peli grigi e del satiro giovane senza barba (Poll., iv, 142 s.). Sebbene la m. di satiro non perse mai i suoi attributi ferini, dal periodo ellenistico assunse progressivamente l'aspetto grottesco dei tipi della commedia nuova (schiavi e vecchi): fronte rugosa, sopracciglia fortemente corrugate e sollevate, occhi sporgenti, naso camuso, narici larghe. Molte delle numerose immagini di satiri sono certamente ispirate alle maschere di scena. Gli altri attori del dramma satiresco nel periodo classico, nella m. e nell'abbigliamento non presentano alcuna differenza dal costume degli attori tragici contemporanei.
Ritrovamenti di maschere di terracotta negli scavi del santuario di Demetra a Lykosoura e di Artemide Orthìa a Sparta (v.) provano l'esistenza di maschere cultuali antropomorfe. La maggior parte delle maschere spartane, per lo più di aspetto grottesco, risalgono al VI sec. a. C., e solo poche appartengono al VII. Esemplari posteriori hanno chiaramente subito l'influsso delle contemporanee maschere da commedia; dopo il V sec. scompaiono del tutto. Da Esichio (s. v. Κυριττοί) noi sappiamo che i partecipanti alla festa di Artemide Korythalìa presso Sparta, celavano il volto sotto maschere di legno. Pausania (viii, 15, 1 ss.) racconta che il sacerdote di Demetra Kidarì a Feneo di Arcadia, nella cerimonia in cui scacciava i dèmoni dell'Ade prendeva il πρόσωπον della sua dea. Probabilmente tutta la cerimonia era una danza mascherata.
All'epoca in cui la commedia raggiunse in Atene il massimo splendore (seconda metà del V sec.), risalgono i cosiddetti vasi cabirici (v.), che furono trovati in Tebe di Beozia. I Cabiri, dèmoni della vegetazione, piccoli e panciuti, avevano un culto di tipo teatrale, come testimoniano turbolente e grottesche scene di farsa sui loro vasi. Certamente i personaggi non sono i dèmoni stessi, ma "attori", cioè sacerdoti o aderenti al culto, i quali in maschere e travestimento imitano questi dèi della fecondità. La somiglianza con l'abbigliamento della commedia attica antica è così marcata che si potrebbe supporre qui una delle sue origini. Un'altra ancora è da cercare nel culto di Dioniso, cioè nel suo culto agreste, tipico del Peloponneso, culto che aveva grossi danzatori mascherati e muniti di fallo, come sono dipinti su vasi laconici, corinzi, calcidesi e anche su un esemplare attico del VI secolo.
La presenza di maschere in cerimonie sacre, cioè in processioni, danze e canti, può essere considerata come diretto precedente a una vera e propria rappresentazione scenica. La m. sacra, oltre a celare il volto di chi la indossa, trasforma in modo fondamentale anche la sua essenza. Sotto la m. egli perde la propria individualità e ne assume un'altra, che gli è completamente estranea: diventa animale o semi-dio, di aspetto misto (satiro), dio o dea (nel culto di Demetra Kidarìa), dèmone (nel culto di Dioniso e dei Cabiri) ecc. Accanto alle qualità magiche, la m. cultuale possiede anche qualità apotropaiche. Con la raffigurazione esteriore del carattere ambivalente dei dèmoni della vegetazione, ottenuta con maschere dai tratti contorti in modo grottesco, si sperava per esempio di poter dominare questi capricciosi spiriti della natura e di poter influenzare in modo favorevole le loro azioni. Le maschere di aspetto orrendo dovevano spaventare e intimidire i dèmoni e anche ammansirli e divertirli per il loro carattere rozzamente comico, proprio come le danze, i canti, le farse nelle quali erano adoperate. Quando col passar del tempo la paura dei dèmoni diminuì, anche l'incanto della m. perse gran parte del suo significato; restò tuttavia il gusto ingenuo del travestimento e della recita e si cominciò a dare grande importanza all'applauso dei profani, sebbene le rappresentazioni con maschere si svolgessero sempre in onore di qualche dio. Al termine di questo processo, e, sul piano artistico, al suo vertice, sta, nel culto di Dioniso, il teatro greco del periodo classico con tutti i molteplici e differenziati tipi di maschere, con un testo drammatico perfetto dal punto di vista letterario e infine col suo carattere di competizione perfettamente corrispondente alle esigenze dell'epoca. Perfino sulla scena gli antichi poteri magici della m. sono ancora così vivi, che nonostante tutte le difficoltà tecniche che il suo uso, a nostro parere, procurava, il teatro greco ad essa non rinunciò mai; anche per gli attori, servi della divinità, nel teatro di Dioniso, luogo del culto, la m. non perse mai nulla dei suoi requisiti sacri. Allo stesso modo in cui il sacerdote muta il suo essere con la m., l'attore si confonde istantaneamente col personaggio del dramma che lo riempie tutto. L'attore non "rappresenta" ma "è" Dioniso, re, eroina, satiro, schiavo, ecc. Per tutta la durata della rappresentazione la m. diventa il suo volto (πρόσωπον significa originariamente "volto") e, nello stesso tempo, specchio del carattere nel quale egli si è mutato. Perciò per l'attore antico la m. non era certamente un impedimento, ma anzi un aiuto essenziale alla sua volontà di mutare natura sia interiormente per se stesso, sia nell'apparenza esterna.
2) Maschere della tragedia. - Della loro origine si narra in Suda, s. v. Thespis: Tespi, che nella seconda metà del VI sec. a. C. si recava da un luogo all'altro rappresentando tragedie, da principio avrebbe tinto il volto con biacca o portulacca, ispirandosi forse al trucco di mosto, fuliggine o inchiostro quale fu adoperato dai partecipanti ai kòmoi dionisiaci in campagna, insieme con la m. di foglie e di vimini intrecciati. Sempre a Tespi si dovrebbe anche attribuire l'introduzione della m. di tela, in un primo tempo ancora non dipinta; nei secoli seguenti la tela, rinforzata con stucco, rimase il materiale più usato. Frinico cominciò a dipingere la m. di tela: il nero indicava il sesso maschile mentre le maschere femminili in un primo tempo si lasciavano bianche; Eschilo sarebbe stato il primo a dipingere le maschere di più colori. Ciò significa che solo dall'inizio del periodo classico si può parlare di una costruzione espressiva nella m. della tragedia.
L'unico esempio di m. del tempo di Eschilo si ha in un frammento di oinochòe da Atene, databile al 470: il volto femminile, bianco, con capelli divisi da una riga, ha lineamenti nobili e calmi: solo la bocca leggermente socchiusa rivela che si tratta di una maschera. Allo scorcio del V sec., cioè alla fine della grande epoca della tragedia greca, risalgono alcuni esempî di maschere tragiche, riprodotte su monumenti. Le maschere femminili su tali monumenti in sostanza non si distinguono dalla m. quasi inespressiva del 470. Le maschere maschili sul vaso di Pronomos hanno una mimica un po' più ricca grazie alle rughe che attraversano la fronte. L'ònkos, la pettinatura tipica dall'epoca ellenistica in poi, a giudicare dagli esempi in nostro possesso, non sembra ancora del tutto affermata nel V secolo. Su vasi del V e del IV sec., troviamo raffigurate scene di note tragedie, con costumi finemente lavorati e con allestimento scenico. Sul volto dei personaggi manca la m., per la ragione che nella rappresentazione la m. cessava di essere tale e diventava il viso stesso dell'attore, il quale si confondeva interamente col personaggio: perciò al pittore dei vasi era probabilmente sufficiente dipingere un volto umano. Solo lontano dalla testa, per esempio in mano dell'attore, la m. è raffigurata con tutte le sue caratteristiche. Per la scarsità di esempi di maschere nel corso del V sec., e all'inizio del IV, non siamo in grado di dare notizie precise sullo sviluppo delle maschere tragiche da Eschilo ad Euripide.
È probabile che nel corso del V sec. la m. sia diventata gradualmente più espressiva, e questo meno nelle maschere di giovani e di donne, più nelle maschere di vecchi e di uomini. La m. barbuta sul noto frammento di Würzburg (v. attore, fig. 1142) della metà del IV sec., rappresenta una tappa nel passaggio dalla m. classica a quella ellenistica più patetica. Altre maschere tragiche sui vasi di Gnathia (v.) ci dànno la stessa impressione (v. anche àpuli, vasi).
Polluce, grammatico del II sec. d. C., nell'Onomastikon (iv, 133-142), attingendo verosimilmente ad una fonte ellenistica, indica 28 tipi di maschere tragiche: 6 tipi di vecchi, 8 di giovani, 3 di schiavi, 11 di donne. A quanto pare questo elenco ci fornisce il catalogo delle maschere in uso alla fine del IV secolo. Le descrizioni più dettagliate riguardano la pettinatura, che è molto spesso l'ònkos, il colore dei capelli e il trucco del viso: donne e vecchi hanno quasi sempre la carnagione bianchiccia, mentre due tipi di schiavi hanno il volto rosso e quattro maschere maschili sono scure. A partire dal periodo ellenistico l'espressione del volto acquista importanza sempre maggiore, finché nell'epoca romana diventa esagerata. Molte maschere tragiche da allora hanno le "sopracciglia di Laocoonte", tipo inconfondibile di espressione del dolore tragico, che si riscontra in forma molto accentuata nella m. di bronzo, certamente ellenistica (IV sec.), che nel 1959 fu trovata al Pireo. Spesso perfino gli occhi, seguendo l'atteggiamento patetico delle sopracciglia, sono obliqui. Gli angoli della bocca abbassati e le profonde rughe dal naso alla bocca esprimono chiaramente il dolore e la disperazione. Soprattutto nell'epoca romana tutte le passioni sono raffigurate in maschere fortemente contorte. Nello stesso tempo i dettagli della m. cominciano a diventare più grandi e grossolani: l'ònkos si innalza esageratamente, le enormi aperture degli occhi e della bocca occupano l'intero volto escludendo ogni differenza di espressione. Tali esagerazioni, cui soggiacque anche la m. comica del periodo tardo-romano, condussero a un singolare accostamento dei due tipi di maschere un tempo opposte.
Tre maschere di marmo del teatro di Ostia hanno espressione identica e si distinguono solo dalla pettinatura acconciata a rotolo, tipica della commedia nuova, e rappresentano un vecchio e uno schiavo; per l'ònkos e la pelle di leone la terza è certamente un Ercole tragico.
Sempre più frequenti si fanno nel periodo ellenistico romano le riproduzioni di maschere in marmo o terracotta o bronzo accanto al gran numero di affreschi e di mosaici pompeiani rappresentanti maschere isolate o scene tragiche: la m. tragica diventa un motivo prediletto dell'arte decorativa romana. Appare dappertutto e perfino come ornamento su urne funerarie e sarcofagi, qui certamente con valore simbolico.
3) Le maschere della commedia antica e di mezzo. - Dei precedenti religiosi della m. di commedia, del V e del IV sec., si è già parlato. Conosciamo le maschere della commedia antica da statuette di attori in argilla, databili intorno al 400 a. C., trovate per lo più in territorio attico. Che anche l'attore di commedia indossasse costume e m. di tali divinità demoniache come una nuova pelle stanno a dimostrano le statuette. Con le enormi teste grottesche e i lunghi phàlloi penzolanti o legati, sembrano veri e propri folletti pancioni o dèmoni della fecondità e non uomini travestiti. Tali statuette hanno maschere che non nascondono la loro origine religiosa: gli occhi sono grandi e sporgenti sotto le sopracciglia aggrottate minacciosamente o sollevate; sotto il naso piccolo e camuso la bocca allargata a un ghigno e debolmente aperta, richiama alla memoria la primordiale "risata sacra" apotropaica (cfr. H. Herter, Vom dionyschen Tanz zum komischen Spiel, p. 5). Nella commedia doveva essere piuttosto espressione di malignità e ribalderia. In questo modo erano messi in caricatura eroi, Ercole primo fra tutti, persino dèi, e poi gente semplice e contemporanei famosi (ad esempio Socrate, Pericle, Cleone) per le cui maschere si confezionavano veri e propri ritratti.
La commedia di mezzo rappresenta, come dice il nome, un grado intermedio e una forma di passaggio nello sviluppo della commedia attica del IV secolo. Innanzi tutto eredita dalla commedia antica l'intero patrimonio di maschere grottesche e demoniache per eroi, dèi e uomini, come numerose statuette di terracotta dimostrano, ma con l'andar del tempo le trasforma in maschere realistiche professionali e di carattere, in parte ancora grottesche e in parte raffiguranti un volto genericamente umano; maschere dalle quali nella commedia nuova si formeranno tipi fissi. Questa riforma della m. trae origine dalla nuova tematica della commedia di mezzo e dall'introduzione di nuovi personaggi che ne derivò: le parodie tragiche mettono via via da parte le vecchie farse mitologiche; accanto a questo fenomeno è da notare un certo interesse per argomenti borghesi. Compaiono sempre più spesso schiavi, acquaioli, soldati, etere, insomma tipi popolari di ogni genere. Sembra quasi che maschere di tragedia siano state il modello più evidente delle maschere femininili e maschili, belle, giovani, severe, che improvvisamente dopo la metà del IV sec. compaiono sui vasi di Gnathia dell'Italia meridionale e che si devono attribuire ancora alla commedia di mezzo. È verisimile che un tale influsso abbia avuto luogo nel quadro delle parodie tragiche, per le quali le maschere grottesche dei folletti non potevano più servire. Nel Ceramico, cioè ad Atene stessa, è stata trovata una bella m. marmorea di giovane (?) del IV secolo. Si potrebbe considerare con la sua pettinatura a corona un tipico esempio di commedia nuova, se più giustamente la datazione alta non la assegnasse alla commedia di mezzo.
4) Maschere fliaciche. - La farsa fliacica può essere in qualche modo considerata una contemporanea sorella della commedia di mezzo, in Sicilia e nell'Italia meridionale. Nei due centri principali, Taranto e Siracusa, entrambi situati nella zona delle colonie greche, le maschere fliaciche si distinguono appena da quelle attiche. Invece le maschere costruite dagli Italici sono molto più grottesche ed espressive dei modelli greci, come dimostrano i numerosi vasi fliacici provenienti dalle tombe dell'Italia meridionale: v. fliacici, vasi.
Ancora più rozze, più decise, talora spiccatamente ferine sembrano le terrecotte costruite probabilmente sul modello di maschere quali furono usate nelle farse locali di campagna o nei piccoli centri (se ne hanno esempi anche in Sicilia).
5) Maschere delle atellane. - Come nell'Attica dalla commedia di mezzo si sviluppò la "nea" con i suoi tipi fissi di maschere, così dalla farsa fliacica, che cominciò a diffondersi verso il N, si sviluppò in Campania l'atellana osca con i suoi tipi immutabili: Pappus, Maccus, Bucco, Dossennus e più tardi anche Manducus e Lamia. La Bieber crede che certe maschere di terracotta, trovate in diversi luoghi dell'Italia e della Renania e non catalogabili, siano esempi di questi personaggi di atellana, il che è assai probabile. Queste maschere popolaresche, con i loro nasi enormi e sformati, con le facce e bocche stravolte, ricordano le teste dei burattini e certe maschere di carnevale che ancora oggi si usano nell'Europa meridionale. Spesso gli occhi sono strabici, e alcune parti del viso contorte, gonfie e deformate da escrescenze. Forse mediante la rappresentazione di persone brutte, malate e anormali il pubblico era eccitato al riso. Alcune maschere sono intieramente solcate da rughe come alcune maschere cultuali greche.
6) Maschere della commedia nuova. - Allorché l'imborghesimento della commedia attica, già iniziato verso la metà del IV sec., giunse al suo culmine all'inizio dell'età ellenistica, nacque la commedia nuova. L'ironia degli autori (soprattutto Menandro in Grecia e Plauto e Terenzio nel periodo romano) colpisce d'ora in poi quasi esclusivamente tipi generici e fissi. Ancora Polluce (iv, 143-154) nel catalogo delle maschere enumera i differenti tipi uno per uno (complessivamente 46): 9 vecchi, 11 giovani, 7 schiavi, 3 vecchie, 5 giovani donne, 7 etere, 2 giovani schiave (Pauly-Wissowa, xlv, cc. 2094 ss.). Polluce fornisce più particolari per la commedia che per la tragedia, e anche in questo caso soprattuttò riguardo alla pettinatura, l'acconciatura della barba, il colorito del viso e dei capelli. Pettinatura: calvizie per alcuni vecchi e schiavi, altrimenti domina, nelle maschere maschili, la pettinatura arrotolata (stephane o speira) con o senza boccoli; pochi hanno i ricci. Le donne portano i capelli divisi, avvolti intorno alla testa, lisci, crespi o a boccoli; spesso non si capisce nemmeno come fossero acconciati. Dalla pettinatura della m. il pubblico qualche volta riconosceva certi particolari del carattere del personaggio rappresentato; donne con i capelli tagliati sono in lutto o di condizione servile. Probabilmente la medesima pettinatura dei personaggi di una commedia stava a indicare l'appartenenza alla medesima famiglia. Poiché, come si suppone, gli attori romani del III e II sec. a. C. recitavano senza m. ma solo con parrucche e talora con barbe posticce, sembra che quei criterî distintivi abbiano mantenuto la loro importanza anche in seguito, quando lo strabico Roscio nel I sec. a. C. introdusse le maschere teatrali seguendo l'uso ellenistico (cfr. l'interesse di Polluce per le acconciature della barba e dei capelli). Polluce accenna talora anche a particolarità mimiche delle maschere comiche (sopracciglia alzate o aggrottate o distese; rughe sulla fronte; modo di guardare). Da notizie nel trattato Physiognomonikà pseudoaristotelico (iii e vi), si possono dedurre determinate proprietà del carattere, da segni caratteristici che Polluce menziona: colorito rosso (schiavi) indica impudicizia, collera o inclinazione a tiri malvagi; colorito chiaro (donne e vecchi) codardia; naso camuso (schiavi) lascivia.
La commedia nuova derivò da quella di mezzo le maschere grottesche della commedia antica con significanti modifiche e le classificò secondo i tipi: vecchi, vecchie e schiavi. Questi ultimi sono spesso i protagonisti del lavoro che riceve da essi il suo titolo, come Truculentus, Pseudolus, Epidicus, Stichus. La m. dello schiavo presenta poche differenze: sopracciglia alte ed aggrottate sugli occhi sporgenti di dèmone, rughe orizzontali e verticali sulla fronte e sotto il nasetto camuso la trasformazione ellenistica della larga bocca ghignante: un'enorme apertura con i bordi spesso coperti da piccole linee incise alle estremità dei due angoli, sollevati come in una risata. Questa combinazione di molti atteggiamenti su un'unica m. è espressione delle varie caratteristiche, spesso contrastanti, degli schiavi, quali la tracotanza e la paura, l'amore per la beffa e l'irascibilità, la furbizia, la scempiaggine. Spesso col sopracciglio alzato da una parte sola, sulla stessa m. di vecchio o di schiavo, si esprime un umore crucciato ed uno allegro (Quintil., xi, 3, 74; cfr. la grande m. di marmo del Ceramico e il vecchio di un bassorilievo di commedia, a Napoli). Le maschere realistiche di giovani e di donne con volti ben proporzionati, già presenti nell'ultimo periodo della commedia di mezzo, subiscono un ulteriore sviluppo nella commedia nuova e si dividono nei seguenti tipi: giovani seri e virtuosi oppure viziati e viziosi; donne borghesi, ragazze sedotte e una ragazza giovanissima; etere. I diversi tipi delle maschere di giovane sono facilmente riconoscibili dall'espressione e dalla pettinatura. Molte delle maschere femminili hanno un'espressione seria e perfino triste, che si addice alle sventure che colpiscono le giovani donne e le ragazze della commedia nuova. Le maschere delle etere al contrario si riconoscono dalle acconciature del capo e dal sorriso provocante. Raffigurazioni di maschere di commedia si trovano in gran numero fino alla tarda romanità e se ne ha ancora un'eco diretta nelle illustrazioni dei codici di Terenzio (sec. IX-XIII).
Monumenti considerati. - A) Maschera funebre: "M. di conchiglia": G. Wilke, op. cit. in bibl., p. 413; F. Behn, op. cit. in bibl., p. 10; K. M. Kenyon, Arch. Holy Land, Londra 1960, p. 38, tav. 2 B. Cranî neolitici da Gerico: K. M. Kenyon, Digging up Jericho, Londra 1957, pp. 6o ss.; 122 ss.; tavv. 20 B, 21, 22; id., Arch. Holy Land, Cit., p. 52 ss.; tavv. 13, 14 A. M. della Siberia: A. M. Tallgren, in Reallex. d. Vorgesch., iv, 2, 1926, p. 338, tav. 135, s. v. Gipsmaske, Sibirische; S. V. Kiselew, Alte Geschichte Südsibiriens, in Mat. u. Forsch. z. Kultur d. UdSSR, ix, 1949, tav. 40 e 43. M. delle mummie in Egitto: H. Bonnet, in Reallex. d. ägypt. Religionsgeschichte, 1952, s. v. Kanope; Mumienmaske; Mumienporträt; Mumifizierung; Sarg; H. Drerup, Die Datierung der Mumienporträts, Paderborn 1933. Per la cassa d'oro di Tutankhamon, il sarcofago con testa di falco e la m. aurea di Kheper-Reē῾ Sheshonq da Tanis: P. Montet, Les constructions et le tombeau de Psousennès à Tanis, Parigi 1951, p. 37 Ss.; tavv. 17-22. M. d'oro a Micene: G. Karo, Schachtgräber von Mykenai Monaco 1930, passim. M. dall'Illiria: B. Filow, Die archaische Nekropole v. Trebenischte am Ochrida-See, Berlino-Lipsia 1927, p. 13, tav. I, figg. 3, 7, 13; N. Vulic, in Oest. Jahresh., xxvii, 1932, p. 5 ss., fig. I; id., ibid., xxviii, 1933, p. 168, fig. 72 e 74; W. Schmidt, Die Fürstengräber v. Kl. Glein in Steiermark, in Prähist. Zeit., xxiv, 1933, p. 253 ss., fig. 32. M. in uso nell'Asia Minore: P. Thomsen, in Reallex. d. Vorgesch., ii, 1925, p. 5, tav. 1, s. v. Bethsean; E. v. Mercklin, in Arch. Anz., xli, 1926, p. 308 ss.; E. Unger, in Reallex. d. Vorgesch., viii, 1927, p. 330 s., s. v. Mummenschanz; id., ibid., xi, 1927-8, p. 103, s. v. Religion, par. 3; H. Seyrig, Antiquités de la nécropole d'Emése, in Syria, xxix, 1952, p. 209 ss.; tav. 21 ss. Stele funebri di Arabia: H. Th. Bossert, Altsyrien, Tubinga 1951, tavv. 382, nn. 1311 ss.; 392, n. 1359. M. puniche d'argilla: R. Cagnat, Carthage, Timgad, Tebessa, et les villes antiques de l'Afrique du Nord, Parigi 1927, p. 4 ss.
B) Maschere cultuali: T. B. L. Webster, in Antike u. Abendland, viii, 1959, p. 7 ss. (m. micenee); R. M. Dawkins, Sanctuary of Artemis Orthia of Sparta, Londra 1929; P. Wolters-G. Bruns, Das Kabirenheiligtum bei Theben, i, Berlino 1940; F. Brommer, Satyrspiele, 2a; ed., Berlino 1959. M. della tragedia: O. Hense, Die Modificirung d. Maske in d. gr. Tragödie, 2a ed., Friburgo 1905; F. Kühnl, Darstellung u. Maskenverwendung im altgr. Trauerspiel, in 38. Jahresber. d. k. k. Staatsgymnasiums in Reichenberg, Reichenberg 1910; M. Bieber, Kuchenform mit Tragödienszene, in Shenika, in 75. Berl. Winckelmannspr., Berlino 1915; id., Die Herkunft d. trag. Kostüms, in Jahrbuch, xxxii, 1917, p. 15 ss.; R. R. Löhrer, Mienenspiel u. Maske in d. gr. Tragödie, in Stud. z. Gesch. u. Kultur d. Altertums, xiv, Paderborn 1927; L. Talcott, Kourimos Parthenos, in Hesperia, viii, 1939, p. 267 ss., figg. 1-2; A. Lesky, Die Maske d. Thamyris, in Anz. d. Akad. d. Wiss.-Phil.-hist. Kl., n. 8, 1951. M. della commedia antica e di mezzo: A. Körte, Arch. Studien z. Alten Komödie, in Jahrbuch, viii, 1893, p. 61 ss.; H. Herter, Vom dionysischen Tanz z. komischen Spiel, Iserlohn 1947, p. 5; T. B. L. Webster, Monuments Illustrating Old and Middole Comedy, Inst. of Class. Stud. Bull., Suppl. ix, 1960, p. 5. M. della commedia nuova: C. Robert, Die Masken d. neueren att. Komödie, in 25. Hall. Winckelmannspr., Halle 1911; A. Brückner, Maske aus dem Kerameikos, in Skenikà, in 75. Berl. Winckelmannspr., Berlino 1915, p. 32 ss.; A. K. H. Simon, Comicae Tabellae, Schaubühne, 1938; H. Luschey, Komödienmasken, in Ganymed (Festschr. Heidelberger Arch. Inst.), 1948, p. 71 ss.; T. B. L. Webster, The Masks of Greek Comedy, in Bull. of the John Rylands Library, xxxi, 1949, p. 3 ss.; A. Rumpf, Einige kom. Masken, in Mimus und Logos, Festgabe F. C. Niessen, Emsdetten 1952, p. 163 ss.; J. J. C. van Hoorn-Gronemann, Röm. Maskenfragmente, in Bull. Ant. Beschaving, xxxv, 1960, p. 75 Ss.
Bibl.: A) M. funebri: O. Benndorf, Antike Gesichtshelme, in Denkschr. d. Wiener Akad. d. Wiss.-Phil.-hist. Klasse, XXVIII, 1878, p. 301 ss.; G. Wilke, in Reallex. d. Vorgesch., XIII, 1929, p. 413 ss., s. v. Totenmaske; M. Bieber, in Pauly-Wissowa, XIV, 1930, p. 2105 ss., s. v. Maske (Toten-); W. Klingbeil,Kopf-, Masken- und Maskierungszauber in den antiken Hochkulturen insbesondere des Alten Orients, 1935; J. Wiesner, Grab und Jenseits, Berlino 1938, pp. 107, 109, 118, 120, s.; 171 s.; 184, s.; 201; C. Schuchhardt, Alteuropa, Berlino 1941, passim; J. Wiesner, Vor- und Frühzeit der Mittelmeerländer, I: Das östliche Mittelmeer, 1945, passim; F. Behn, Vorgeschichtliches Maskenbrauchtum, in Ber. über d. Verhandlgn. d. Sächs. Akad. d. Wiss.-Phi.-hist. Klasse, 1955, p. 3 ss.
B) M. teatrali: F. Ficoronii dissertatio de larvis scenicis et figuris comicis, Roma 1750; M. Bieber, Die Denkmäler zum Theaterwesen im Altertum, Berlino-Lipsia 1920; id., in Pauly-Wissowa, XIV, 1930, c. 2070 ss., s. v. Maske (Theater); H. Bulle, Von griech. Schauspielern und Vasenmalern, in Festschr. Loeb, 1933, p. 5 ss.; M. Bieber, The History of Greek and Roman Theater, Princeton 1939 e 1961 (2a ed.); T. B. L. Webster, Masks on Gnathia, in Journ. Hell. St., LXXI, 1951, p. 222 ss.; M. Bieber, The Theater in Ancient Art. An Exhibition. The Arts Museum. Princeton University, Dec. 10, 1951-Jan. 6, 1952; A. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 1953; H. Kenner, Das Theater und der Realismus in der griech. Kunst, Vienna 1954; G. Krien, Die Angleichung der trag. u. kom. Theatermasken in der spätröm. Zeit, in Maske und Kothurn, I, 1955, p. 79 ss.; id., Der Ausdruck der antiken Theatersmasken nach Angaben im Polluxkatalog und der pseudoaristotel. Physiognomik, in Oest. Jahresh., XLII, 1955, p. 84 ss.; T. B. L. Webster, Greek Theater Production, Londra 1956; H. Kindermann, Theatergeschichte Europas, I: Das Theater der Antike und des Mittelalters, Vienna 1957; T. B. L. Webster, More Dramatic Masks on Gnathia Vases, in Antike Kunst, I, 1960, p. 30 ss.; id., Greek Dramatic Monuments from the Athenian Agora and Pnyx, in Hesperia, XXIX, 1960, p. 254 ss.; H. Kenner, Weinen und Lachen in der griech. Kunst, in Sitzungsber. d. Öst. Akad. d. Wiss.-Phil.-hist. Klasse, CCXXXIV, 1960, passim.