MARZIALE (M. Valerius Martialis)
Poeta latino, nato a Bilbili, municipio della Spagna citeriore, il primo di marzo di un anno incerto fra il 38 e il 41 dell'era volgare. Nell'anno 64, dopo aver compiuti gli studî di grammatica e di retorica, venne a Roma in cerca di fortuna. Poco sappiamo della sua vita prima del regno di Domiziano. Pare però che subito, come era da aspettarsi, cercasse aiuto e protezione presso ricche e potenti famiglie di origine spagnola. È probabile che non esercitasse mai una professione. Poteva fare l'avvocato, ma non volle, e visse con le sportule e i doni dei patroni e col frutto dei suoi versi: non già che ricavasse denaro dalla loro vendita, perché a Roma nessuna legge riconosceva il diritto di proprietà letteraria, ma egli lodava e adulava personaggi ricchi e potenti, e questi spesso lo ricompensavano con doni e favori.
Vediamo subito questo che, a ogni modo, è il lato meno bello del carattere e dell'attività letteraria di M. Come ben si comprende, prima di tutti adulò l'imperatore. Il suo libro più antico è il cosiddetto Epigrammaton liber, che ci è arrivato incompleto e che celebra la straordinaria magnificenza degli spettacoli, con cui l'imperatore Tito inaugurò il Colosseo. Ma molto più numerosi sono gli epigrammi in onore di Domiziano. Questo imperatore volle dare un carattere sacro alla sua persona e si lasciò chiamare egli stesso dominus e deus. È appena credibile quanto gareggiassero nell'adularlo i senatori, che pur l'odiavano, e i cittadini di ogni classe; quindi anche gli scrittori furono costretti a invocarlo e a celebrarlo con nomi divini. Però in questa ignobile gara Marziale oltrepassò i limiti della convenienza e del buon gusto. Ora Domiziano onorò e protesse i poeti, ma le sue largizioni furono sempre misurate. A Marziale riconfermò il ius trium liberorum, già concesso da Tito, gli diede il titolo di tribuno militare e così lo ammise nell'ordine equestre, donò per sua istanza a molti peregrini la cittadinanza romana, e certo più volte lo ricompensò con favori e denari. Dopo l'imperatore, M. si rivolse ai liberti e ai favoriti della corte e poi ai personaggi più autorevoli dell'impero. Le sue lodi sono spesso accompagnate da domande di ricompensa; e anche quando ringrazia di un dono ottenuto, trova lo spunto felicissimo per chiederne un altro.
Allorché Domiziano fu ucciso il 18 settembre del 96, la prima cura di M. fu di far dimenticare che l'aveva adulato. Egli compose un'antologia del decimo libro, nella sua prima edizione non arrivata a noi, e dell'undecimo dei suoi epigrammi e la dedicò al nuovo imperatore Nerva; nemmeno quest'antologia noi possediamo, ma certamente vi mancavano gli epigrammi osceni e le lodi di Domiziano. Anche prima della sua elevazione aveva lodato Nerva come oratore e come poeta, ma ora il tono si eleva: con Nerva, egli dice, è sparito ogni timore, è tomata la virtù, la libertà, la felicità. E sorvoliamo sulle ingiurie contro l'imperatore ucciso. Era più difficile far gradire le adulazioni a Traiano, succeduto poco dopo a Nerva, e perciò il poeta cambia tono: "Invano, o miserabili Blandizie dalle labbra impudenti, venite a me: io non chiamerò più padrone e dio l'imperatore... Non c'è qui il padrone, ma l'imperatore, ma il senatore più giusto di tutti, che ha ricondotto dalla casa stigia la rustica Verità dai capelli incolti. Sotto questo principe, se hai giudizio, bada, o Roma, di non parlare come prima" (X, 72). Ma Traiano era allora occupato a rafforzare la frontiera del Reno contro i barbari, e d'altra parte non amava i poeti.
M. non diventò mai ricco, anche perché, come pare, era imprevidente e disordinato, tuttavia le sue condizioni migliorarono alquanto negli ultimi anni della sua dimora a Roma. Prima abitava al terzo piano di una casa di affitto sul Quirinale e possedeva solo un podere a Nomento, un piccolo podere, che produceva buon vino ma frutta cattive. Poi poté comprare una casetta sul Quirinale stesso e anche due mule per le sue gite a Nomento. Aveva anche alcuni schiavi. Se dunque Plinio il Giovine gli diede il viaticum per alcuni endecasillabi che lo paragonavano a Cicerone, questo non dimostra che il poeta non avesse il denaro per tomare in patria. Difatti proprio allora dava all'amico Flavo l'incarico di comprargli a Bilbili una villetta per passarvi nell'ozio gli ultimi anni della vita.
Il ritorno di Marziale in patria avvenne l'anno 98, poco dopo l'elevazione di Traiano, ma la reazione, che seguì dopo la fine della dinastia flavia, vi contribuì ben poco, perché colpì solo la classe dei delatori, a cui M. non aveva mai appartenuto. Il motivo principale fu quello espresso dal poeta stesso: matutine cliens, urbis mihi causa relictae (XII, 68, 1). Per lo stesso motivo aveva abbandonato Roma una prima volta nell'87 ed era stato un anno a Imola (cfr. III, 4, 6).
La giornata del cliente era faticosa a Roma, e spesso M. se ne lagna nei suoi epigrammi. Si doleva specialmente di non aver tempo di scrivere versi. Inoltre il continuo fracasso di Roma lo atancava e gli toglieva il sonno. Ma si deve rilevare anche uno stato d'animo che si palesa più volte nei suoi versi. Egli amava la vita e soleva dire che nessuno si affretta abbastanza a goderla. Non amava il fasto, né ambiva grandi ricchezze, ma voleva "le passeggiate in lettiga, le conversazioni, le letture, il campo di Marte, i portici, le ombre, l'acqua Vergine, le terme" (V, 20, 8-9): ecco la vera vita, ecco la libertà; ma Roma non gliela concesse in premio dei suoi versi. Perciò egli diceva che il tempo felice dei poeti era stato quello di Mecenate e giungeva a questa incredibile conclusione che, se ci fossero dei Mecenati, ci sarebbero anche dei Virgilî.
Stanco dunque e deluso ritornò a Bilbili e vi trovò finalmente la pace sospirata. Ivi lo confortò l'amicizia di Marcella, donna fine e gentile, che fu con lui liberale più degli imperatori e dei consolari romani (cfr. XII, 31). E visse così tre anni in ozio profondo, senza scrivere versi, finché il suo amico Terenzio Prisco non giunse da Roma e gli chiese un nuovo libro di epigrammi, che fu composto in pochissimi giorni e che costituisce il nucleo del dodicesimo libro. Infatti i 98 epigrammi di questo libro non poterono essere composti tutti in così breve tempo, e poi parecchi di essi portano il segno di una data anteriore: dunque il nostro dodicesimo libro fu messo insieme e ordinato dopo la morte dell'autore. I motivi del silenzio del poeta sono spiegati nella prefazione del libro. Roma opprimeva, è vero, e non lasciava dormire M., e spesso gli negava il tempo di scrivere, ma gli dava anche l'estro e l'arte dei versi. A Bilbili egli cercava invano le orecchie, a cui si era abituato a Roma, e gli pareva di litigare in un tribunale straniero. La finezza dei giudizî, l'ispirazione degli argomenti, le biblioteche, i teatri, le compagnie dove si gode e s'impara, ecco quello che mancava al poeta: in una parola, la vita di Roma. Insomma a Bilbili egli viveva di ricordi e la sua poesia era virtualmente finita.
Dopo questo periodo non abbiamo notizie di M. In un epigramma composto a Roma per festeggiare il suo cinquantesimo compleanno, egli esprimeva il desiderio non già di arrivare all'età di Nestore, ma di vivere altri diciotto anni per poter scendere non ancora fiaccato dalla vecchiaia ai boschetti della fanciulla Elisia. Invece da una lettera di Plinio il Giovane si rileva che morì fra il 102 e il 104, a poco più di sessant'anni.
M. aveva scritto versi giovanili (cfr. I, 113), che non sono arrivati a noi. Dell'Epigrammaton liber si è già detto. Erano poesie d'occasione anche gli Xenia e gli Apophoreta, editi fra l'83 e l'86, che nelle nostre edizioni formano il tredicesimo e il quattordicesimo libro degli Epigrammi. ma che al tempo di M. erano estravaganti. Il libro degli Xenia comprende 127 epigrammi: i primi tre sono d'introduzione, gli altri, ciascuno di un distico, erano destinati ad accompagnare i regali, tutti mangerecci (a eccezione di quattro), che si solevano mandare ad amici o a parenti nella festa dei Saturnali. Invece gli Apophoreta designavano doni, che gli ospiti estraevano a sorte e portavano via: i duecento e più distici, che formano il libro, sono disposti a coppie, uno per il dono povero e l'altro per il dono ricco.
Ma la vera e grande poesia di Marziale è nei dodici libri di epigrammi, che egli stesso raccolse e dispose, salvo l'ultimo. Cinque di essi hanno anche una prefazione in prosa. I primi undici furono composti a Roma, fuorché il terzo, scritto a Imola, e pubblicati successivamente fra l'85 e il 98. La prima edizione dell'ultimo libro fu preparata, come s'è detto, a Bilbili nel 101. Molti libri sono nella seconda edizione.
L'epigramma è detto da M. breve vividumque carmen. È difatti il più breve dei componimenti lirici: moltissimi epigrammi di M. sono di un solo distico, e ce ne sono anche di un verso solo. Ma più importante è l'altro carattere, che si palesa in specie nella chiusa, la quale, come dice Frontone, deve avere aliquid luminis: di solito essa esprime un concetto arguto e brillante, talora inaspettato, ed è come il dardo dell'epigramma.
M. è uno dei poeti più originali della letteratura latina, perché trasse la sua ispirazione dall'ambiente. C'è, è vero, un certo numero di epigrammi, dove riecheggiano motivi dell'antologia greca, ma egli o li tratta in modo nuovo o supera il modello per una vena più felice di umorismo o per maggiore eleganza di forma. Invece nell'espressione formale è palese l'influenza di Ovidio, di Catullo, e d'altri poeti. Ovidio è imitato nel distico elegiaco, che è il metro di gran lunga più frequente negli epigrammi: e non solo nella tecnica del verso, ma anche nello stile chiaro, tornito, elegante, che però in M. è meno largo e molto di rado risente degli artifizî retorici. Anche M., come Ovidio, suole ripetersi nella fraseologia, e le reminiscenze ovidiane sono numerosissime. Catullo fu il suo modello specie negli endecasillabi e nei coliambi, e non tanto nella metrica, che in M. è più regolare, quanto in certe particolarità stilistiche e in certi vezzi caratteristici: p. es., ambedue i poeti chiudono spesso con la stessa parola o con la stessa frase versi consecutivi o finiscono l'epigramma ripetendone il primo verso. Anche di Virgilio e di Orazio, che erano i poeti classici, le reminiscenze sono numerose e spesso forse involontarie.
La parte più cospicua degli epigrammi di M. ha carattere satirico, ma, a differenza degli antichi epigrammisti, egli non offende nessuno, ma si serve di pseudonimi. La sua regola è questa: parcere personis, dicere de vitiis (X, 33, 10). È un osservatore acuto, che coglie il motivo comico e lo fissa felicemente nel giro di pochi versi. Sono parecchie centinaia di tipi, di scene, di quadretti, che lumeggiano la società di quel tempo, o meglio quella parte della società che poteva fornire materia alla satira del poeta. Importa anche rilevare che egli ha nello scrivere molto sale e fiele, come dice Plinio il Giovane, ma non già la violenza appassionata di Catullo o di Giovenale; di rado si sente l'asprezza dell'invettiva. Né esagera le tinte, ma rappresenta quasi sempre figure viventi, non caricature, e alcuni tipi non sono solo dell'età sua, ma di tutti i tempi, e hanno trovato nei suoi versi l'espressione più felice.
Quasi tutti di tono satirico sono gli epigrammi osceni, che ammontano a più di centocinquanta. Anche fra i contemporanei c'era chi ne faceva una colpa al poeta, che si difese con tre specie di argomenti. Prima di tutto, egli dice, l'oscenità è uno dei caratteri dell'epigramma, carattere fissato e mantenuto dai più grandi scrittori: Catullo, Marso, Pedone, Getulico. Riporta anche un epigramma licenzioso di Augusto, che sapeva parlare romana simplicitate (XI, 20, 10); cita perfino in un epigramma a Polla un verso osceno del marito Lucano (X, 64, 6). D'altra parte egli non scrive per Catone, non scrive per le matrone, per le vergini e per i fanciulli, ma per quelli che assistono alla festa di Flora. L'ultimo argomento, già portato da Catullo e da Ovidio, è espresso in un verso famoso:
lasciva est nobis pagina, vita proba (I, 4, 8).
Ma oltre agli epigrammi satirici ve ne sono molte altre centinaia di tono diverso, come già si è visto nella biografia del poeta. Marziale aveva un gran numero di amici e sentiva profondamente l'amicizia, come si rileva da tanti versi affettuosi, che non furono dettati da motivi d'interesse: ora è un invito a pranzo, ora si ricorda il giorno natalizio o il matrimonio o il ritorno di un amico, ora si tratta di un regalo fatto o ricevuto. E spesso c'è anche un'eco della vita del tempo, senza alcuna intenzione satirica. Ora descrive un tempio, una villa, una fontana, una biblioteca, una statua, un edifizio di bagni, una sala da pranzo, un oggetto prezioso, ora celebra la magnificenza di un pubblico spettacolo, l'abilità di un artista, il coraggio di un gladiatore, ora infine racconta qualche caso della vita quotidiana.
Ma questo poeta così ricco di vena umoristica eccelleva anche nell'espressione di sentimenti delicati. Ne sono documento tanti epicedî, che si possono annoverare fra i più belli della letteratura latina. Inoltre canta con schietto e sano realismo la felicità della vita Lampestre. E talvolta si rifugia nel passato e rievoca figure eroiche come Arria o Porcia o celebra il suicidio di Ottone.
M. ottenne in vita una fama che pochi poeti acquistano dopo morte. Fra mostrato a dito in ogni riunione e i suoi libri erano letti in tutto il mondo. Ma, non mancavano i detrattori. Alcuni lo accusavano di scrivere epigrammi troppo lunghi, altri spregiavano la poesia del loro tempo ed esaltavano gli antichi, altri infine ammiravano i grandi generi letterarî dell'epopea e della tragedia e consideravano gli epigrammi come scherzi. E contro tutte queste accuse il poeta si difende a lungo.
M. non improvvisava i suoi versi, anzi usava molto la lima e temeva il giudizio del pubblico. Faceva anche una cernita rigorosa degli epigrammi, voleva che gli amici rivedessero il suo lavoro, e la sua ambizione era di piacere raris auribus (II, 86, 12). Egli aveva l'occhio fisso alla posterità. Già dopo la composizione dei primi sette libri aveva predetto l'immortalità all'opera sua (cfr. VIII, 3); ma in uno degli ultimi epigrammi Roma stessa parla così al poeta: "Tu fuggirai le acque pigre dell'ingrato Lete, e la parte migliore di te sopravviverà alla morte. Il caprifico fende i marmi di Messalla, e il mulattiere insolente deride i cavalli troncati di Crispo: ma ai libri non nuocciono i furti, giovano i secoli, e sono i soli monumenti che non sanno perire" (X, 2, 7 segg.).
Ediz. moderne: dello Schneidewin (Grimma 1842), del Friedlaender (Lipsia 1886), del Lindsay (Oxford 1902), del Duff (Londra 1905), del Giarratano (Torino 1919), dello Heraeus (Lipsia 1924). Più recente trad. italiana di A. Tertera, Alessandria d'Egitto 1933.
Bibl.: A. Dau, De M. V. M. libellorum ratione temporibusque, Rostock 1887; G. Boissier, Le poète Martial, in Revue des deux mondes, CLX (1900), p. 241 segg.; C. Giarratano, De M. Valeri M. re metrica, Napoli 1908; E. Pertsch, De V. Martiale graecorum poetarum imitatore, Berlino 1911; C. Marchesi, V. M., Genova 1914; G. B. Bellissima, M., Torino 1931.