MARZAGAIA
– Figlio del notaio Careto di Ultramarino da Lavagno (vicino a Verona), nacque verosimilmente a Verona non molto prima del 1350.
Marzagaia (nelle diverse varianti: Mazzagaggia, Marzagaglia, ecc.) è sempre usato come nome di battesimo con l’eccezione di Biadego che, senza darne spiegazione, a Marzagaia fa seguire il nome Antonio, rarissimamente accolto nella bibliografia successiva. Il nome, non comune ma già testimoniato in precedenza a Verona, come altri di quei secoli deriva dall’epopea carolingia, cioè da Marchegai, il nome del cavallo di Aiolfo (Rajna; Rapelli).
A Verona, già magister artis gramatice, fu tra gli abitanti della contrada S. Vitale presenti a un atto rogato in casa del maestro Delfino, chirurgo della stessa contrada, il 30 ott. 1372 (Cipolla, p. XVIII): verosimilmente a tale data aveva da poco raggiunto la maggiore età, cioè i 25 anni.
M. scrive di avere illustrato Valerio Massimo ad Antonio Della Scala ed è ragionevole ipotesi di Cipolla che abbia assunto tale compito dopo il 1381, quando Antonio, con l’assassinio del fratello Bartolomeo (ordinato da lui stesso, secondo i contemporanei), rimase unico signore di Verona. Va ricordato che nel 1385 Careto, padre di M., era uno dei tre sovrastanti alle ragioni della fattoria scaligera.
Giacché ne scrive in modo circostanziato, si può credere che quando, nella notte tra 17 e 18 ott. 1387, con l’apporto di alcuni veronesi ostili allo Scaligero e il tradimento di altri, Verona cadde in mano di Gian Galeazzo Visconti, M. fosse con il suo signore in Castelvecchio e sia stato con lui anche la notte successiva, quando Antonio, con moglie e figli, s’imbarcò sull’Adige per Venezia. Certo è che M. non era a Verona il 19 ottobre, perché nei patti di dedizione stipulati quel giorno dai Veronesi con gli emissari del Visconti si disponeva che né lui né Filippo de Banzarello, Giovanni da Calavena, Guglielmo Panizza, «né nessun da Ravenna, i quali ha desfatto Verona» potessero rientrare in città e che i loro beni fossero confiscati. Non era a Verona nemmeno il 9 genn. 1389 quando, privandolo dei terreni di Marcellise che nel 1386 aveva avuto in fitto dal monastero di S. Maria in Organo, il podestà lo giudicò contumace.
Riparò a Cividale dove fu maestro pubblico nel 1390-93, ma poco dopo rientrò a Verona e il 31 luglio 1396 prese in affitto una casa in contrada della Pigna, dove visse anche in epoca veneziana; fu riammesso nel diritto di possedere, giacché il 21 marzo 1399 investiva Aleardo del fu Boninsegna di S. Agnese Foris (contrada esterna alle mura di Verona) di una pezza di terra arativa in quel di Salizzole. Riprese l’insegnamento ed ebbe successo. L’11 sett. 1406 il Consiglio dei XII e dei L accolse la sua proposta di istruire annualmente tre studenti per renderli idonei agli studi di legge e di medicina. Era tanto sicuro di sé che pose come condizione, che fu accettata, il rispettabile stipendio di 10 lire mensili da pagarsi però ad anno scolastico finito, dopo che il Comune avesse constatato il buon esito del suo lavoro.
Intanto, i figli erano cresciuti: il maggiore, Antonio (il nome, si noti, dello Scaligero che tanta parte aveva avuto nella vita di M.), era già notaio nel 1407 e il minore, Secondo, era maggiorenne nel 1418.
Risulta dall’estimo del 1409 che M. godeva di una discreta agiatezza e, infatti, il 19 apr. 1410 locò a Graziadio quondam Giovanni e a Giovanni quondam Domenico da Marcellise due pezze di terra situate nelle pertinenze di tale abitato.
Ignoriamo il luogo della morte di M. che è da collocare tra il 1425 e il 1433, poiché figura ancora nell’estimo del 1425 ma non più in quello del 1433.
Nello scorrere dei giorni privi, a quanto sembra, di preoccupazioni economiche emergevano più intensi i ricordi dell’esperienza scaligera e stimolavano a una riflessione sui rivolgimenti della fortuna, sugli uomini responsabili o vittime degli eventi spesso torbidi e drammatici di cui M. era stato testimone e che alla fine l’avevano coinvolto. Aveva ben presenti i Factorum et dictorum memorabilium libri di Valerio Massimo che aveva commentato per Antonio Della Scala e che verosimilmente aveva anche in seguito commentato e forse ancora commentava nelle sue lezioni e si risolse a scrivere anch’egli sui fatti del suo tempo. Sotto il titolo De modernis gestis, con riguardo soprattutto alla parabola scaligera, mise insieme un’ampia serie di episodi, aneddoti, ritratti, motti, notizie sui culti e le devozioni, e anche di leggende e novelle a carattere religioso o popolare per alcune delle quali, osservava Cipolla (p. XVI), «è agevole istituire confronti con Sacchetti e con Boccaccio». Scrisse, o finì di scrivere, dopo l’insurrezione filoscaligera del 1412, che giudica inutile, mal consigliata, anche se è evidente che vi assistette con trepidazione.
Per quanto ricordi eventi molto anteriori al tempo suo, i terremoti del 1117 e del 1222, l’inondazione dell’Adige del 1239 e la morte di Ezzelino da Romano, non aveva interessi di cronista o di storico e, come aveva fatto Valerio Massimo, ordinò il materiale per argomento raggruppandolo in quattro libri: De religione, Qui humili loco nati clari evaserunt, De captione civitatum et dominorum, De pravis persuasionibus mulierum. Ma, come scrisse nelle considerazioni introduttive, sapeva anzitutto che è onorevole esercitare l’ingegno e che chi scrive di storia e conserva per i posteri notizia di ciò che è accaduto nel passato acquista fama imperitura. Inoltre, anch’egli riteneva che gli esempi del passato incitino i giovani alla virtù e alla gloria e li allontanino dal male. E non pensava solo ai giovani. Quanto nei secoli è accaduto dà esempi per ben vivere, e tutti deve indurre a diffidare della fortuna, sempre pronta a umiliare uomini e imperi potenti e gloriosi. Ricorda le sorti di Roma, della signoria scaligera, di Bernabò Visconti, di Francesco il Vecchio da Carrara ed esplicita il suo intendimento: «Quos omnes quam uariis uicibus fortuna prostrauit, in ipsos exiciosas acerbitates experta, hec nouo rudi, non nimis urbano compendio nostra uolumina pandant» (Cipolla, pp. 18 s.). E ciò perché anche nel presente la fortuna è in agguato.
La precisazione su come si configureranno i suoi «uolumina» indica, dunque, che M. si apprestava a scrivere in modo nuovo, con intenti nuovi. D’altronde, poteva contare su una cultura letteraria di cui poco si sa, ma che si percepisce ben più ampia di quanto mostrino la pur sicura conoscenza di Valerio Massimo e le poche citazioni di autori antichi finora riscontrate. Sembra però evidente che, annunciando il suo scritto come non molto elegante, egli alluda non solo ai contenuti (al dire di Billanovich, p. 167, M. è «il truce ritrattista dell’ultima corte scaligera»), ma anche e forse più allo stile, lasciando così intendere che tale stile è intenzionale: infatti è uno stile ricercato, con neologismi, vocaboli rari e clausole metriche «consapevolmente volute» (Sabbadini) e per di più esasperatamente lussureggiante, ma condizionato da una sintassi contorta, non di rado erronea, e il risultato è una prosa troppo spesso molto oscura: quasi che «abbia cercato piuttosto di nascondere che di esprimere il suo pensiero» (Cipolla, p. XVI).
Pervade il De modernis gestis, ed è condiviso da altre fonti, un profondo rammarico per la caduta della signoria, ai cui tempi gloriosi M. guarda con sconsolata ammirazione. Ampio spazio, come è naturale, date le vicende di M., è riservato alla tristissima caduta degli Scaligeri, che M. attribuisce anzitutto ai fratricidi, a cominciare dall’uccisione di Cangrande (II), assassinato dal fratello Cansignorio. Va da sé che si diffonda su Antonio e i suoi cortigiani, anche con notizie che solo lui poteva dare. E, in qualsiasi modo ciò vada interpretato, è notevole che riconosca di essersi inizialmente ingannato nei confronti di Antonio: ora gli rimprovera di avere procurato da sé la sua rovina rendendosi nemici uomini che con lui avevano collaborato e lo avrebbero potuto aiutare ancora, nonché alienandosi il favore del popolo, a cui inutilmente nell’ora decisiva, uscendo dal castello, ricordò l’antica devozione di Verona per la sua famiglia, e anche gli rimprovera di aver ceduto all’ambizione e aver accettato gli sperperi di sua moglie, Samaritana da Polenta, a cui imputa la maggiore responsabilità della rovina del marito, così come anche accusa i familiari di Antonio di avergli taciuto la verità. Non risparmia giudizi taglienti con accuse di tradimento o malaffare su cortigiani molto in vista (Gidino da Sommacampagna, Aleardo Aleardi, Pellegrino Cavolongo, o anche Leonardo da Quinto e Giacomo dalle Eredità). Nelle pagine di M. l’ultima corte scaligera è un ambiente fosco ed è tratteggiato con un’incisività che può indurre a dimenticare l’amarezza, il risentimento (anche M. era stato bandito da Verona), talvolta forse l’invidia che innervano il racconto. Nel suo intimo M. è profondamente legato alla signoria, alle cui sorti vede connesse quelle di Verona, e ha parole di fuoco contro il Visconti, artefice della caduta di Antonio, ma anche traditore dello zio Bernabò (marito di Beatrice Regina Della Scala), e non risparmia Francesco il Vecchio da Carrara, che con la battaglia delle Brentelle (1386) e quella di Castagnaro (1387) aveva messo in ginocchio lo Scaligero. Come aveva ricordato il caso di Bernabò Visconti, un tempo potente ma finito miseramente, tenendo fede a quanto aveva scritto all’inizio sull’instabilità della fortuna, M. ricorda la triste fine del da Carrara (morì prigioniero dei Visconti a Monza nel 1393) e quella di suo figlio, Francesco Novello, e dei figli di lui, Giacomo e Francesco, tutti uccisi per mano veneziana nel 1406. Naturalmente gli studiosi dell’età scaligera hanno citato e citano il De modernis gestis, ma giustamente è stato scritto che, dopo oltre un secolo dalla sua edizione (1890), l’opera «deve in fondo ancora essere analizzata in modo sistematico ed approfondito, in quanto fonte storica» (Varanini, Il «De modernis gestis...», p. 551); e, del resto, si deve dire che è nel suo insieme «a tutt’oggi poco studiata» (Petoletti, 2000, p. 65).
Il De modernis gestis è tradito da tre codici, i più importanti dei quali sono il ms. CCV della Biblioteca capitolare di Verona e il ms. 507 della Biblioteca civica di Treviso, entrambi cartacei dei primi decenni del sec. XV. Il primo, già appartenuto a Gian Francesco Muselli, presenta correzioni e postille marginali e interlineari e si può ritenere col Cipolla che sia una copia del testo eseguita sotto la guida di M. stesso e, benché qualche dubbio rimanga, che alla mano dell’autore si debbano le correzioni e postille più antiche. Sembra ragionevole la proposta dello stesso studioso di vedere una raffigurazione di M. nella testa virile disegnata in questo codice alla sommità della «M» con cui ha inizio il testo del De modernis gestis (ripr. in Varanini, Il «De modernis gestis…»). Testo e postille più antiche furono trascritti nel ms. 507 della Biblioteca civica di Treviso, nel quale, però, figurano postille nuove e nuovi emendamenti e il terzo libro è ampliato con un capitolo De obitu virorum non vulgarium che manca nel modello. Nel Cinquecento testo e postille più antiche del ms. CCV della Capitolare furono trascritti nel ms. CCVI della stessa biblioteca. Come ha osservato Varanini, un esame specifico delle correzioni e postille nei due codici più antichi consentirebbe probabilmente di cogliere nel vivo la revisione, o le revisioni, dell’opera.
A questo codice cinquecentesco, miscellaneo, che contiene anche il De Scaligerorum origine di Ferreto de’ Ferreti, allude S. Maffei quando, sotto il titolo Marzagaglia ed altri, così scrive nella Verona illustrata: «ignoto è stato finora questo Scrittore ancora non meno dell’opera sua, che ho ritrovata in un codice del Museo Bevilacqua»; aggiunge poi che mandò copia del testo a L.A. Muratori «per la sua raccolta delle Cose Italiche, ma la scorrezion del codice e lo stile strano e ravviluppato, che alle volte non lasciano raccapezzar sentimento, il dissuasero dal pubblicarlo». Si intende bene che il Maffei scrivesse in questi termini in un testo a stampa, ma risulta da due sue lettere al Muratori, degli inizi del 1723, che in realtà al Muratori, interessato a M. e a Ferreti, senza avvertire il proprietario aveva mandato il codice stesso per evitare la spesa della trascrizione che sarebbe risultata inutile qualora poi il Muratori avesse deciso di non farne nulla. Già nel 1707 aveva mandato il codice a Venezia ad A. Zeno, il quale ne trascrisse pochi paragrafi prendendo appunti sul rimanente. Circa un secolo e mezzo più tardi si accinse all’edizione il canonico G.B.C. Giuliari, prefetto della Biblioteca capitolare, che però, dopo aver fatto trascrivere il testo per intero e avere parzialmente esaminato il codice di Treviso, non ebbe modo di proseguire e affidò l’impresa a C. Cipolla, che, messosi al lavoro nel 1873 e riservata a sé la ricerca storica, con la collaborazione del fratello Francesco nella costituzione del testo, pubblicò l’opera in Antiche cronache veronesi, I, Venezia 1890: Prefazione, pp. V-LXIII; De modernis gestis, pp. 1-338.
Analizzando il loro stile e il loro contenuto e istituendo tra essi e il De modernis gestis raffronti di forma e di sostanza, Cipolla ha attribuito persuasivamente a M. tre opuscoli traditi in forma anonima e anepigrafa nel cod. 902-903 della Biblioteca civica di Verona. E intitolandolo Gli Scaligeri e i Veronesi ha pubblicato quasi integralmente il primo, in cui tra l’altro figurano una sorta di genealogia scaligera e la descrizione della curia con cui Cangrande festeggiò la conquista di Padova (in Antiche cronache veronesi, I, pp. 339-369); del secondo, da lui intitolato Vizi della donna in cui M. si scaglia violentemente contro i vizi di una donna da identificare verosimilmente con Samaritana da Polenta, ha pubblicato solo brevissimi estratti (ibid., pp. 371-374); ha intitolato infine Invettiva contro un innominato il terzo, scritto da M. ormai vecchio, e ne ha pubblicato vari brani (ibid., pp. 375-383) utili almeno «a chiarire qualche curiosa particolarità della vita privata di allora, e sopra tutto a dilucidare le relazioni personali di Marzagaia coi suoi contemporanei di maggior nome» (Cipolla, p. XVI).
Forse può connettersi a quest’ultimo opuscolo, o al motivo che lo ha provocato, il carme «Ite mei “lacera versus nunc, ite, camena”», con cui da Venezia, e dunque tra il 1414 e il 1419, Guarino Guarini inviò a M. il dono di tre candide penne o, più probabilmente, di tre pacchetti di penne, e dal quale tradizionalmente si è dedotto che Guarino sia stato suo allievo (Epistolario, I, pp. 223 s.). In effetti, in questo carme Guarino manifesta altissima considerazione nei confronti di M., di cui scrive: «Vir celebri probitate micat, vir nominis alti» e, secondo un uso allora non raro, gli dichiara con queste parole la sua rispettosa devozione: «Me vocitet gnatum per tempora quaeque Guarinum, / quem voco corde meo natus et ore patrem» (vv. 43 s.). In realtà né da questo carme né da altra testimonianza nota si può dedurre che M. sia stato maestro di Guarino, ma semmai il contrario. Piuttosto, la testimonianza sulla «probitas» di M. potrebbe risultare inaspettata o incongrua, se su tale «probitas» qualcuno non avesse sollevato dubbi: e per l’appunto anche di cattiva amministrazione aveva accusato falsamente M. l’innominato contro cui è diretto l’opuscolo terzo. Forse, con il suo carme Guarino intendeva dare solidarietà al vecchio letterato che vedeva accusato a torto, dichiarandogli nel contempo la sua grande stima e devozione.
Nel 1981 C. Cenci e, indipendentemente da lui, nel 1984 D.M. Schullian hanno visto che, come risulta dal testo, si deve a M. il commento a Valerio Massimo conservato anonimo e anepigrafo nel cod. 303 della Biblioteca comunale di Assisi. La Schullian ne ha curato la presentazione nel Catalogus translationum et commentariorum pubblicandone la dedica (in cui, si noti, sono citati il terzo libro dell’Etica Nicomachea e il primo dei Moralia di Gregorio Magno), oltre al passo iniziale, a quello finale, e alla poco perspicua canzone trascritta alla fine del commento. La studiosa chiarisce che, come l’autore stesso dichiara, si tratta del commento ai primi due libri dell’opera e di un sommario dei rimanenti, osserva che lo stile dello scritto non è meno oscuro di quello del De modernis gestis e che anche la scrittura del codice è difficile. Si aggiunga che probabilmente, almeno a giudicare dai passi pubblicati, non mancano nel codice errori di trascrizione. Si spiega così che la studiosa sia rimasta incerta sull’identificazione dello Scaligero a cui con sommi elogi l’autore dedica il commento e su quella del «disertissimus vir Gaius Antonius» a cui M. si rivolge poi direttamente, il cui nome figura con quello dello stesso M. nella canzone finale e a cui M. dichiara di aver sottoposto la sua fatica perché, se necessario o opportuno, la correggesse. Nel 1995 Avesani ha proposto di intendere un’espressione della dedica in modo tale che essa non impedirebbe, come invece aveva impedito alla Schullian, di riconoscere nelle due persone citate da M. Antonio Della Scala e Antonio da Legnago. A confortare indirettamente l’identificazione di Antonio da Legnago si può aggiungere la circostanza che, ricordandolo nel De modernis gestis perché, «in altissimo locatus fastigio», finì miseramente, vittima di cortigiani e di invidiosi, M. menziona senza riserve la di lui prestigiosa carriera nella corte scaligera e addirittura ne comincia il profilo con le parole «Leniaticus patria Gaius Anthonius, genere vilicus, adolescentiam disciplinis attollens, Cansignorio iuvenili etate gratissimus» (Cipolla, p. 103), quasi a sottolineare che tanto prestigio e potere egli aveva ottenuto con il proprio impegno personale. Se tale identificazione è corretta, poiché Antonio da Legnago fu ammazzato il 6 marzo 1385, il commento deve considerarsi anteriore a tale data. Ma non tutto è chiaro e specialmente vari accenni della dedica che sembrano autobiografici restano da spiegare.
Fonti e Bibl.: G. Guarini, Epistolario, a cura di R. Sabbadini, I, Venezia 1915, pp. 222 s.; III, ibid. 1919, pp. 96 s.; S. Maffei, Epistolario (1700-1755), a cura di C. Garibotto, I, Milano 1955, pp. 437 s., 441 (ma v. anche pp. 408, 435); Id., Verona illustrata, III, Milano 1825, p. 135; G.B.C. Giuliari, La Capitolare Biblioteca di Verona, Verona 1888, pp. 121, 154, 278 s., 295, 347; P. Rajna, Contributi alla storia dell’epopea e del romanzo medievale, VII, L’onomastica italiana e l’epopea carolingia, in Romania, XVIII (1889), p. 58; C. Cipolla, Postille al I volume delle antiche cronache veronesi, in Nuovo Arch. veneto, I (1891), pp. 115-117; R. Sabbadini, La scuola e gli studi di G. Guarini Veronese (con 44 documenti), Catania 1896, p. 4; G. Billanovich, Dal Livio di Raterio… al Livio del Petrarca, in Italia medioevale e umanistica, II (1959), pp. 160, 167; M. Carrara, Gli scrittori latini dell’età scaligera, in Verona e il suo territorio, III, 2, Verona 1969, pp. 16, 19, 73-77; F. Riva, Il Trecento volgare, ibid., pp. 113, 115, 133-135; R. Avesani, Guarino Veronese, M.…, in Annali della facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Macerata, VIII (1975), pp. 367-376; Id., Il preumanesimo veronese, in Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, a cura di G. Arnaldi-M. Pastore Stocchi, Vicenza 1976, pp. 137 s.; G. Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona (1387-1404), in Verona e il suo territorio, IV, 1, Verona 1981, pp. 44, 46, 64 s., 85, 88, 98, 105; D.M. Schullian, Valerius Maximus, in Calalogus translationum…, V, a cura di F.E. Cranz - P.O. Kristeller, Washington 1984, pp. 344-347; R. Avesani, Verona nel Quattrocento, in Verona e il suo territorio, IV, 2, Verona 1984, pp. 28-30, 31 n. 2; J.E. Law, La caduta degli Scaligeri, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese…. Atti del Convegno, Treviso… 1986, a cura di G. Ortalli - M. Knapton, Roma 1988, pp. 88 s., 94 s., 97; G.M. Varanini, Gli Scaligeri, il ceto dirigente veronese…, in Gli Scaligeri, 1277-1387, a cura di G.M. Varanini, Verona 1988, p. 119; Id., Giacomo dalle Eredità, ibid., p. 211; Id., Il «De modernis gestis» di M.…, ibid., pp. 550 s.; Id., Maffei, Muratori e le fonti cronistiche veronesi (1723), ibid., p. 561; G. Maroso, I Bevilacqua: «radaroli e milites», ibid., p. 142; M. Ruffo, Un culto contro la peste…, ibid., p. 475; G.P. Marchi, Intorno a Gidino da Sommacampagna, in Gidino da Sommacampagna, Trattato e arte deli rithimi volgari, testo critico a cura di G.P. Caprettini, introduzione e commentario di G. Milan, Vago di Lavagno 1993, p. 20; R. Avesani, Uguccione Della Faggiola a Vicenza in una iscrizione sconosciuta di Antonio da Legnago, in Uguccione Della Faggiola nelle vicende storiche fra Due e Trecento. Atti del Convegno, Casteldelci… 1986, in Società di studi storici per il Montefeltro. Atti dei Convegni, 1995, n. 4, p. 59; M. Petoletti, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo, Milano 2000, pp. 65, 131 s.; G. Rapelli, I cognomi del territorio veronese, Verona 2007, p. 448. Sui codici del De modernis gestis, v. Cipolla, cit., pp. VIII-XII, XXVI s.; I manoscritti della Biblioteca capitolare di Verona. Catalogo descrittivo redatto da don A. Spagnolo, a cura di S. Marchi, Verona 1996, pp. 255-257 (Spagnolo attribuisce erroneamente a M. il Tractatus de speculis comburendis alle cc. 1r-8v del ms. CCVI; in particolare per quest’ultimo ms. cfr., oltre a Cipolla, pp. XXVI s., G.M. Varanini, Ferreto Ferreti e Cangrande: il «De Scaligerorum origine», in Gli Scaligeri, cit., p. 103; M. Petoletti, Il «Chronicon» di Benzo d’Alessandria, cit., pp. 131-133; Id., Milano e i suoi monumenti, Milano 2004, pp. XC s.); sul cod. degli opuscula: G. Biadego, Catalogo descrittivo dei manoscritti della Biblioteca comunale di Verona, Verona 1892, p. 468 n. 1046 [902-903]; C. Cenci, Bibliotheca manuscripta ad sacrum conventum Assisiensem, II, Assisi 1981, pp. 520 s. (sul ms. del commento a Valerio Massimo); P.O. Kristeller, Iter Italicum, II, p. 294.