MORENO, Martino Mario
MORENO, Martino Mario. – Nacque a Torino l’8 settembre 1892, dal chirurgo Giovanni Moreno e da Ernesta Oliverio, entrambi nati a Sanremo.
Rivelò fin da giovanissimo cospicui interessi orientalistici e arabistici, dedicandosi da autodidatta allo studio del sanscrito, del persiano, dell’ebraico e dell’arabo. Questo interesse si tradusse in una precoce attività letteraria: studente al secondo anno della facoltà di lettere dell’Università di Genova, diede alle stampe La versione araba del libro di Kalilah e Dimnah (Sanremo 1910), celebre raccolta di storie sapienziali di origine indiana, consapevole dell’acerbità del tentativo, ma desideroso di cimentare le proprie doti nel campo degli studi accademici. Ottenuta la laurea a vent’anni, scelse la carriera del funzionario amministrativo, per conoscere di prima mano e direttamente quelle popolazioni di cui stava studiando la cultura. Erano gli anni in cui si consolidava l’impero italiano in Africa dopo la guerra italo-turca del 1911 e l’occupazione della Libia. Moreno, funzionario del Ministero delle Colonie, prestò servizio in Tripolitania e in Cirenaica dopo il 1913 e si segnalò sia per i contributi scientifici (con la traduzione nel 1924 a Bengasi del testo Usi, costumi e istituti degli ebrei libici di Mordekhai Cohen) sia per la cura dedicata al suo lavoro di responsabile amministrativo in una terra non facile da governare e percorsa da fremiti nazionalistici e indipendentistici. La vocazione arabistica e islamologica rimase probabilmente sempre la sua aspirazione principale, anche se le circostanze della vita e della carriera lo indussero a rivolgersi anche agli studi di etiopistica.
Attirò infatti l’attenzione del Segretario generale per gli affari civili e politici della Tripolitania, Carlo Conti Rossini, uno dei massimi etiopisti italiani, che ne favorì, da un lato, la carriera e dall’altro ne stimolò l’interesse per le problematiche di una cultura verso cui si indirizzavano le mire imperialistiche dell’Italia (l’Etiopia venne conquistata da Mussolini nel 1936). Intanto Moreno si avvicinava alla realtà del mondo coloniale italiano. Dopo aver fatto parte della Commissione per la delimitazione dei confini tra Egitto e Libia tra il 1925 e il 1928 e dopo aver effettuato viaggi in Egitto e Yemen, ottenne l’incarico di Direttore degli affari politici e civili del governo dell’Eritrea dal 1929 al 1931, e in seguito fu addirittura governatore di Addis Abeba. Gli impegni pratici di amministratore non lo distoglievano dagli studi e, per potersi immergere più profondamente nella mentalità e nelle costumanze dei popoli che contribuiva a governare, si dedicò allo studio delle principali lingue dell’area e dell’Etiopia, dal tigrino al dialetto galla alla lingua ometo. Questo interesse linguistico produsse una fitta serie di pubblicazioni, da indagini linguistiche nel Galla Sidama (pubblicate su Oriente Moderno nel 1938 e su altre riviste coloniali) alla Grammatica teorico-pratica della lingua galla con esercizi (Milano 1939), alla Introduzione alla lingua ometo (Milano 1939). In tal modo, Moreno metteva le sue abilità di orientalista e di africanista al servizio del colonialismo fascista, in una stagione in cui gli interessi dell’amministrazione coloniale stimolavano anche quelli accademici delle Università e, naturalmente, quelli dei Ministeri addetti all’Oltremare. Non si trattava peraltro di pura accademia. Moreno rifletteva anche sulle problematiche pratiche di gestione delle colonie e, sugli Annali dell’Africa italiana, dava alle stampe anche articoli che potevano essere utili all’imperialismo fascista (cfr. Politica di razza e politica coloniale italiana, articolo uscito nel 1939, e, nel 1942, due articoli sulla Politica indigena italiana in A.O.I. e sulla Politica religiosa e paganesimo in A.O.I.). Le indagini antropologiche e politiche lo avvicinarono all’insegnamento.
Il 26 febbraio 1939 sposò Edith Dollero da cui ebbe tre figli: Maurizio, Corinna e Livio.
Conseguita nel 1940 la libera docenza in Storia e lingue dell’Abissinia, fu chiamato a tenere incarichi di insegnamento all’Università di Roma. In particolare, dal 1939 al 1944, impartì lezioni di lingue non semitiche e dopo la guerra, dal 1951 al 1952, di storia e lingue dell’Etiopia. Questa attività direttamente accademica si affiancava sempre a quella di funzionario dello Stato, visto che, al termine del conflitto, Moreno passò al Ministero degli Affari Esteri e fu inviato a dirigere l’Istituto italiano di cultura di Beirut. Anche nella capitale libanese si distinse per l’attività di propagatore culturale, avendo insegnato dal 1954 al 1957 etiopico e sudarabico nell’Università beirutina, oltre a tenere lezioni di ebraico e glottologia nell’Accademia libanese di belle arti.
In questo contesto ambientale e intellettuale, maturano i contributi scientifici di Moreno all’islamistica che, come si è detto, rappresentò forse il suo più costante orizzonte di interesse e di riferimento. Ancora in piena epoca fascista, nel 1934 e in seconda edizione nel 1940, Moreno aveva pubblicato a Bologna un volume sulla Dottrina dell’Islam.
Inteso a fornire un contributo alla gestione delle colonie e alla conoscenza dei popoli musulmani che così largamente facevano parte dell’impero fascista, il volume si segnalava per una prevalenza dell’analisi dell’impianto dottrinale dell’islamismo, e soprattutto del punto di vista asharita nella trattazione della teologia dogmatica. Esplicitamente l’autore ammetteva di aver arricchito la sua opera di nozioni utili ai funzionari coloniali, avendo come scopo la composizione di un manuale che ben si armonizzasse col ruolo pubblico svolto da Moreno e col suo posto all’interno dell’amministrazione coloniale italiana.
Passato quel periodo e conclusasi la guerra mondiale, Moreno, nel comporre un nuovo volumetto sull’Islamismo (Milano 1947), modificava anche con una certa evidenza la sua enfasi e il suo taglio metodologico.
Rinunciò come ovvio alle caratteristiche di manuale coloniale che avevano caratterizzato il precedente lavoro e accordò molto più spazio alle leggende, ai miti e alla fede popolare e alle pratiche religiose, abbandonando anche il punto di vista asharita. Le descrizioni dei fondamenti dell’Islam sono dettagliate e rivelano una notevole precisione informativa e descrittiva, anche se alcune narrazioni (per esempio quella della vita di Maometto) rimangono nel quadro tradizionale e alcune scelte linguistiche o concettuali (per esempio la definizione dell’Islam come di una «monolatria» invece di un «monoteismo»; oppure di sistema «totalitario ») potrebbero essere oggi, alla luce della moderna ricerca islamologica, discutibili. Moreno mostrava sensibilità per le correnti del modernismo musulmano cui riconosceva il tentativo di andar oltre la «barbarie» del diritto penale canonico, sebbene minimizzasse per esempio il contributo di un Muhammad ‘Abduh al riformismo salafita, accusandolo di essere solo «vin vecchio in vasi nuovi».
Un capitolo del libro sull’islamismo è dedicato alla mistica islamica, o sufismo, in armonia con un altro filone di interesse scientifico che Moreno coltivava in quegli anni, quello appunto della tradizione spirituale dei popoli musulmani. Queste ricerche ebbero un’importante esito nella pubblicazione di una Antologia della mistica arabo-persiana (Bari 1951).
Il libro è diviso in due parti: la prima dedicata a traduzioni dal persiano e la seconda dedicata a traduzioni dall’arabo. I vari autori antologizzati ricevono l’attenzione di brevi note bio-bibliografiche e le traduzioni sono arricchite di brevi commenti sugli aspetti dottrinali, ma anche storici e antropologici, tesi a indirizzare il lettore a una più profonda comprensione dei risvolti spirituali e intellettuali dei testi letti. Moreno dimostra un gusto delicato nella resa delle rutilanti e spesso complesse o addirittura astruse immagini simboliche della poesia mistica arabo-persiana, rivelando vivo senso letterario e precisa attenzione nella resa dei vocaboli e dei concetti filosofici della mistica. Nell’introduzione, Moreno definisce l’Islam una teocrazia che traduce i precetti religiosi in termini giuridici e ciò rischierebbe di uccidere lo spirito in favore della lettera. Contro questa tendenza, che per esempio nell’elemosina legale fa di Dio quasi un intendente di finanza, reagisce, secondo Moreno, il sufismo che al formalismo rituale sostituisce la devozione assetata del contatto con Dio.
Negli ultimi anni di vita e di carriera attiva, Moreno continuò ad affiancare l’attività pubblica e quella di studioso. Subito dopo l’indipendenza del Sudan, fu ministro plenipotenziario a Khartum dal 1956 al 1957, anno del suo pensionamento. Raggiunta la quiescenza, si dedicò con passione alla direzione della Rassegna di studi etiopici e di Levante, rivista di arabistica che rappresentò una ventata di novità nel panorama editoriale italiano dedicato agli studi mediorientali e di islamologia. Su Levante, dal 1956 fino alla morte, pubblicò una fitta trama di articoli dedicati al suo nuovo campo di approfondimento e di interesse: la poesia araba contemporanea, ponendo al centro delle sue indagini soprattutto i poeti libanesi, probabilmente su sollecitazione degli anni trascorsi a Beirut.
Morì a Roma il 13 giugno 1964.
Apparve postuma, presso la UTET di Torino nel 1967, la sua opera forse più significativa, la traduzione del Corano, impresa cui si era accinto, immerso nella lingua e nella cultura araba, fin dagli anni beirutini, tra il 1950 e il 1955. Secondo il giudizio di Francesco Gabrieli (1993), si tratta di una traduzione meno valida letterariamente di quella di Alessandro Bausani (pubblicata nel 1958), ma in talune rese stilistiche e contenutistiche più efficace e felice di quest’ultima. Moreno cerca qualche volta, soprattutto nelle sure più brevi di composizione meccana, di rendere la rima dell’originale; ma il linguaggio è nel complesso un po’ ostico, con scelte lessicali ora arcaiche ora inclinanti all’idiotismo. In ogni modo, Moreno era conscio della difficoltà di superare la resa verbum e verbo, onde rendere il testo accessibile in un chiaro italiano. Così come era conscio del fatto che, poiché un testo religioso è intangibile e ogni parola è una pietra incastonata nel luogo là dove si trova, e non può essere spostata, l’interpretazione e l’esegesi svolgono un ruolo importantissimo per attualizzare il messaggio e renderlo fruibile al di là della lettera. Ogni traduzione rischia di spostare l’accento esegetico e questo è tanto più importante per un libro sacro la cui lettura deve anche salvaguardare le intenzioni dell’autore (che per i musulmani è Dio in persona). Moreno arricchì la traduzione di un commento che, se non ampio come quello di Bausani, presenta note esplicative dei problemi di più difficile comprensione del testo o rimandi prosopografici e tecnici relativi alle storie profetiche e alle circostanza della rivelazione. Essendo le sure spesso composte di materiale eterogeneo, Moreno intervenne sulle più lunghe dividendole in paragrafi e apponendo a ogni paragrafo una propria titolatura, utile a riannodare le sparse fila dell’esposizione coranica.
Fonti e Bibl.: Note biografiche: M.M. M., in Reale Accademia d’Italia, Convegno di scienze morali e storiche 4-11 ottobre 1938. Tema: l’Africa, II, Roma 1939, p. 1678; F. Castro, Scritti di M.M. M., in Rassegna di Studi Etiopici, XX (1964), pp. 12-21; L. Ricci, M.M. M., in Rassegna di Studi etiopici, XX (1964), pp. 5-11; M. Nallino, Ricordo di M.M. M. (1892-1964), in Oriente Moderno, XLIV (1964), pp. 646-648; F. Gabrieli, Orientalisti italiani del Novecento, Roma 1993, pp. 117-120.