MARTINO II d’Aragona (Martino il Vecchio), re di Sicilia (Martino I re d’Aragona)
Secondogenito del re di Aragona Pietro IV, detto il Cerimonioso, e della sua terza moglie Eleonora d’Aragona, sorella di Federico IV, nacque a Gerona nel 1356.
La storiografia siciliana lo indica di solito come M. il Vecchio per distinguerlo dal figlio detto «il Giovane»; gli storici catalani invece lo chiamano quasi sempre l’«Umano» per evidenziare la figura di un sovrano dotato di umana virtù, saggio e prudente, vale a dire colto, abile e sottile nell’agire politico e nel complesso gioco dei rapporti umani.
Dei primi anni della sua vita si conosce molto poco e quasi niente del suo aspetto fisico. Dalle immagini di un sigillo (Boscolo, 1962, p. 56) e dalla miniatura del Rotlle genealogie dels reys catalans, conservato nel monastero di Poblet, emerge la solenne figura di un sovrano che appare elegante, anche se privo di ben definita identità. Lorenzo Valla lo presenta invece abbastanza grasso, tanto da scrivere che «propter obesitatem corporis […] cum uxore virgine coire […] nequisset» (p. 18).
Nel 1368 fu nominato conte di Besalù e siniscalco di Catalogna, nel 1372 divenne conte di Jérica e subito dopo duca di Montblanc. Il 13 giugno 1372, a 17 anni, sposò Maria de Luna, figlia del conte Lope, dalla quale ebbe quattro figli: Giovanni, Martino, Giacomo e Margherita.
Le prime notizie sull’attività politica di M. risalgono al 1380, quando si impegnò in un progetto di intervento nella «guerra di Portogallo»: una scelta che gli procurò la dura reazione del padre. Pietro IV infatti impose a M. di abbandonare ogni iniziativa su quel fronte perché, precisava in una lettera del 31 maggio 1381, «no era assenyat abandonar els afers propis per ocupars-se dels dos altres» (Ferrer i Mallol, 1973, p. 215). Gli affari ai quali accennava il re d’Aragona erano quelli di Sicilia, dove, morto nel 1377 senza eredi maschi Federico IV, gli era successa la figlia Maria, di 14 anni, «a la quali tantu per testamentu di lu patri come eciam per tenore di li capituli» della pace del 1372 con la regina Giovanna I di Napoli, «la insula predicta spectava et pertinia» (Cronache siciliane dei secoli XIII-XV, p. 229). Pietro IV si richiamava invece al testamento di Federico III che escludeva le donne dalla successione e, come rappresentante del ramo maschile degli Aragona e marito di Eleonora, rivendicava per sé la corona di Sicilia.
La camuffata annessione dell’isola all’Aragona non poteva non suscitare reazioni ostili in Francia, a Napoli, a Roma e nella stessa Sicilia, dove Artale Alagona era vicario generale del Regno e sarebbe rimasto arbitro della situazione finché la regina Maria non avesse avuto un marito. Fu appunto sulla scelta di un marito per Maria che si fondò lo scontro fra Sicilia e Aragona. Grazie anche alle discordie interne fra i baroni dell’isola, Pietro IV riuscì a rapire Maria e a mandare a monte le trattative segrete avviate coi Visconti da Artale Alagona per il matrimonio della regina con Gian Galeazzo, conte di Virtù.
Il ratto di Maria fu organizzato da Guglielmo Raimondo (III) Moncada, conte di Augusta, e portato a termine la notte del 23 genn. 1379 con una improvvisa, plateale e inquietante azione militare nel castello Ursino di Catania. Nel 1382 Pietro IV – anche con largo dispendio finanziario, i cui dettagli sono registrati in un giornale di bordo che consente di seguire le operazioni della flotta catalana assoldata per garantire l’incolumità della regina (cfr. Simbula, p. 213) – riuscì a far trasferire Maria a Cagliari e poi a Barcellona.
Con l’allontanamento della regina dalla Sicilia si indeboliva l’influenza di Artale e degli altri tre vicari, che su Maria fondavano la legittimità della reggenza collettiva della Corona.
Pietro IV, resosi conto dell’inopportunità di una rivendicazione personale del diritto successorio, fece abilmente ricorso a una scelta più morbida e più ambigua, tale comunque da smorzare, almeno sul piano diplomatico, le dure reazioni pontificie e franco-angioine: riconoscere cioè il diritto alla successione di Maria e darla in moglie a uno dei suoi figli. In questo contesto va inserita la presenza di M. come protagonista della politica aragonese in Sicilia fra la fine del secolo XIV e l’inizio del XV.
Di fronte al netto rifiuto del primogenito di Pietro, Giovanni, che sarebbe diventato re d’Aragona dopo la morte del padre (5 genn. 1387), si conveniva di fare sposare Maria al figlio di M., che si chiamava anch’egli Martino e aveva 6 anni. Si decideva cioè di rinviare l’immediata annessione della Sicilia alla Corona d’Aragona e, con la cessione dei diritti successori a M. e ai suoi discendenti in linea maschile (11 giugno 1380) di insediare una seconda dinastia aragonese nell’isola. M. era però costretto a rinviare più volte la spedizione in Sicilia a causa di molteplici problemi.
La situazione economica del Regno catalano-aragonese costituiva una fonte notevole di preoccupazione e risultava assai difficile mettere insieme i 100.000 fiorini necessari al finanziamento dell’impresa, tanto più che, dopo la morte di Pietro IV, si era accentuata la conflittualità con Genova e la guerra di corsa causava contrasti, incidenti diplomatici e frequenti salassi finanziari per risarcire i danni. Maria, ventenne, d’altra parte era di malferma salute, il piccolo Martino non aveva ancora raggiunto l’età necessaria al perfezionamento giuridico del matrimonio e lo scisma metteva in moto tante e diverse componenti religiose, sociali, economiche e politiche da rendere il quadro estremamente composito e difficile da controllare.
Immediati riflessi della situazione critica affrontata da M. si possono cogliere sia sul piano internazionale sia su quello interno dell’isola. Sul piano internazionale nella dura ed esplicita posizione di Bonifacio IX, che dichiarava Maria decaduta da ogni diritto a causa del matrimonio con uno scismatico (il Regno d’Aragona sosteneva il papa avignonese Clemente VII) e soprattutto per non avere assolto ai doveri feudali verso la S. Sede e verso il Regno di Napoli fissati con la pace del 1372. All’interno dell’isola nella posizione dell’assemblea baronale del 10 luglio 1391 convocata a Castronuovo nella quale, di fronte al pericolo dell’arrivo di un monarca aragonese «al cui seguito sarebbero stati molti nobili a caccia di feudi e ricchezze» (Pispisa, p. 259), si ridefiniva un’alleanza, fino ad allora ipotecata da incertezze, gelosie e rivalità personali, con l’impegno di riconoscere regina Maria, ma di opporsi con forza a Martino.
Anche lo sforzo di creare a Castronuovo un fronte antiaragonese venne però frustrato. M., consapevole infatti delle difficoltà dell’impresa, cominciava a tessere una fitta trama di rapporti con gli ambienti più vari di Sicilia e a tale scopo inviò ambasciatori nell’isola col compito di incrinare la diffidenza dei baroni, sfaldare l’unione sancita a Castronuovo, conquistare la fiducia delle città. Forte dei patti di nozze tra il figlio e Maria, cercava di apparire «non nella veste dello straniero oppressore, bensì in quella dell’amico che veniva a riportare la regina e il re» (Giunta, 1953, p. 191) e con essi concessioni, privilegi e uffici per quanti lo avrebbero accolto e sostenuto. E infatti l’adesione al suo programma di quasi tutte le città, la benevola attesa della Chiesa e il consenso di tanti baroni disponibili a negoziare privatamente il loro sostegno convinsero M. a partire.
La flotta, di circa 100 unità, salpò da Port Fangos e, dopo una tappa a Cagliari, approdò il 22 marzo 1392 a Favignana e il giorno successivo a Trapani.
Il corpo di spedizione di circa 2000 uomini, comandato da Bernat Cabrera, che aveva pignorato i possessi in Catalogna per arruolare soldati a proprie spese (Zurita, c. 42), era costituito da spagnoli di ogni genere, impoveriti e scontenti, e da criminali liberati dalle prigioni e ai quali era stato offerto il perdono. Finanziavano l’impresa il re d’Aragona e quello di Castiglia; i nobili catalani e valenzani che investivano il loro denaro per mettere le mani su uffici, prebende e feudi; i gruppi mercantili genovesi e pisani per accedere con l’acquisto delle tratte, cioè delle licenze di esportazione, ai luoghi di produzione cerealicola e disporre di una base avanzata per il commercio con il Levante.
Dopo una sosta a Trapani M., coi due giovani sovrani, si diresse a Palermo attraverso le strade già percorse nel 1282 da Pietro III d’Aragona, ma non sembra sia stata un’avanzata trionfale come quella che fu riservata al suo antenato. Nonostante l’omaggio di baroni e città e la concessione di grazie e privilegi, a prevalere era un’atmosfera pesante e circospetta: molti erano infatti i timori per il ruolo che avrebbero assunto i nuovi sovrani nella gestione del governo, nei gangli dell’amministrazione e nell’economia. Sembravano dimenticate le reciproche promesse di incontri e collaborazioni che avevano tratto in inganno M. e lo avevano illuso di poter conquistare rapidamente la Sicilia. Improvvisamente interrotto il clima di amichevole sintonia si arrivò allo scontro frontale e Andrea Chiaramonte, conte di Modica e vicario generale del Regno di Trinacria, sostenuto dal papa Bonifacio IX, dall’arcivescovo Ludovico Bonito e da quasi tutto il clero cittadino, si asserragliò a Palermo. M. quasi subito costrinse la città alla resa (13 maggio 1392) e, convinto che fosse opportuno dare un segnale esemplare, il 1° giugno fece decapitare Andrea nella piazza dello Steri, emblema architettonico del potere chiaramontano, e confiscò i beni dell’antica famiglia.
La reazione alla scelta dura di M. fu rapida e imprevista, e non solo a Palermo. Ribellioni e guerriglie si estesero a gran parte dell’isola e resistenze armate si coagularono a Catania attorno agli Alagona e a Palermo attorno a Enrico Chiaramonte, nipote di Andrea, che nel 1393 riuscì a rioccupare la città e a trasformarla in un centro di raccordo antiaragonese sostenuto da Bonifacio IX, dal re di Napoli Luigi II d’Angiò, da Gian Galeazzo Visconti. L’aggregazione di forze politiche, religiose, economiche assestò un colpo formidabile all’azione di Martino.
La lotta, che si giocava nei tempi lunghi, non solo si intrecciava ai contraccolpi dello scisma e al conflitto per il controllo dei mari e della guerra di corsa fra Genova, Venezia, Barcellona, ma nell’isola era marcata di ricatti, vendette, scarse disponibilità finanziarie, trame nascoste, continue pressioni dei fuorusciti, fratture improvvise e spesso ricomposte all’interno del baronaggio e fra gli ufficiali cittadini.
M. si rese subito conto della pericolosità della situazione e, per non farsi imbrigliare nella ragnatela di quelle molteplicità di interessi, decise di abbandonare la linea del terrore e la strategia dello scontro frontale e riprese la politica della disponibilità e della cooperazione. Era la politica suggeritagli, del resto, da Francesco Eximenis che, in una lettera del 1392, lo invitava a essere «liberal, car tot lo mon segueix lo seyor larch e gran remunerador, e fuig el avar» (Rubió i Lluch, pp. 399-403). Nel garantire ai baroni disposti a collaborare il rafforzamento delle loro signorie, M. tendeva dunque a spezzare l’unità del fronte antiaragonese e soprattutto a stabilire un buon rapporto con le città, invitate a presentare «le loro richieste per iscritto, in forma di capitoli, a ciascuno dei quali» M. e i sovrani avrebbero imposto il loro placet (cfr. Moscati, p. 73). In Sicilia del resto la mancanza di un fronte compatto di resistenza offriva a M. la possibilità di appoggiarsi «alle città contro i baroni, finché questo gli avrebbe permesso di conquistarsi nell’isola una sicura piattaforma d’azione», di sostenere i feudatari «contro altri feudatari, e contro le stesse città, quando questo sarebbe stato il mezzo adatto di difesa da una coalizione cittadina» (ibid., p. 112).
Al di là comunque di inevitabili atteggiamenti ambigui e contraddittori emerge la volontà di M. di garantire i diritti della Corona, di assorbire l’isola nell’orbita catalano-aragonese, di rafforzarne la posizione nel Mediterraneo. Volontà resa più decisa dalla morte senza figli maschi del fratello Giovanni I (19 maggio 1396) e dalla successione dello stesso M. al trono di Barcellona. Per far fronte ai vari pretendenti era stata proclamata regina Maria de Luna la quale, con grandi feste, si insediò nel palazzo reale di Barcellona e, d’accordo con la Deputazione generale di Catalogna, inviò in Sicilia cinque ambasciatori per sollecitare l’immediato rientro del marito. M., che aveva ormai piegato quasi tutte le resistenze, affidò al figlio Martino la Sicilia, istituì un Consiglio di tre membri presieduti da Jaime de Prades e, coi suoi più esperti e fedeli funzionari, lasciò l’isola. Imbarcatosi a Messina approdò, il 13 dic. 1396, a Cagliari, sostò qualche tempo in Corsica, poi a Marsiglia e infine ad Avignone, per un colloquio con Benedetto XIII. Dopo l’omaggio e l’impegno di fedeltà al pontefice M. partì per Barcellona e il 27 maggio 1397 prestò giuramento alle Cortes.
Il pieno controllo della Corona d’Aragona pose M. al centro di una fitta trama internazionale. Egli infatti, quarantenne, disponeva dell’energia, della passione, dell’educazione signorile e mondana che mancarono spesso a tanti sovrani d’Aragona e che lo spingevano alla esuberante operatività di chi, nel Mediterraneo, poteva realmente considerarsi, secondo il linguaggio vistoso di tanti cronisti, «de tot el cap major» (Muntaner, p. 385). Di chi appunto, in un contesto frammentato e scomposto che coincideva con la crisi del Papato e con l’impossibilità della Francia di sorreggere gli Angioini, poteva finalmente perseguire la grande politica di espansione avviata dalla Catalogna poco più di un secolo prima. E valga, a parte gli accordi di Castiglia e Navarra che assicuravano tranquillità all’interno della penisola iberica, la spregiudicata e ostinata politica nei riguardi della Tunisia tesa soprattutto a rendere sicure le vie marittime e a preservare la flotta catalana e le coste iberiche dai corsari africani.
In questo contesto di ricerca di sicurezza e garanzie per i percorsi commerciali e di preferenza per la politica estera nei confronti di quella interna, va anche considerata la revoca della prammatica del 15 genn. 1401 con la quale, alle Cortes di Tolosa, si proponeva l’espulsione dei mercanti italiani dalla Catalogna. Infatti, per andare incontro alle richieste dei grandi proprietari terrieri che temevano gli effetti negativi di quella norma selettiva sulle esportazioni dei loro prodotti agricoli e della lana greggia, M., il 13 ott. 1402, con la prammatica «pro Ytalis» ripristinava la libera circolazione degli operatori commerciali italiani (cfr. Del Treppo).
Nonostante l’ascesa al trono aragonese, strettissimo rimaneva il legame di M. con la Sicilia e col figlio, sulla cui politica e attività legislativa non mancò di esercitare un continuo controllo.
La coreggenza registrata dagli atti di Cancelleria, documentata, fin nei dettagli, dalla corrispondenza fra padre e figlio, riferita dalle cronache, rimase operativa anche dopo che M. divenne re d’Aragona. E valgano, da una parte, la malcelata brutalità con cui M. invitava il figlio a disdire l’impegno preso, nel 1405, con Luigi d’Angiò per scortare Benedetto XIII a Roma, poiché, come sottolineato da Zurita (c. 76), il re di Sicilia esercitava il suo potere sempre insieme con il padre e questa iniziativa, stabilita senza il parere paterno, non poteva aver effetto alcuno; dall’altra sia la spedizione del 1409 in Sardegna a spese della Sicilia, ma in difesa di interessi esclusivamente iberici, sia il testamento col quale il giovane Martino nominò suo erede il padre avallando l’unione fra Corona d’Aragona e Corona di Sicilia.
La morte della regina Maria d’Aragona (25 maggio 1401) senza eredi – Pietro, l’unico figlio avuto dopo 9 anni di matrimonio, era morto bambino – riproponeva i complessi problemi di legittimità istituzionale più che politica, in quanto sul matrimonio con la figlia di Federico IV il figlio di M. poggiava i diritti alla corona di Sicilia, e dunque Martino il Giovane avrebbe dovuto perdere la corona. Con la sua consumata abilità diplomatica, la sua capacità di scegliere le persone, di trovare l’idea adatta e di individuare tempi e luoghi, M. riuscì a gestire a vantaggio del figlio, e quindi a vantaggio dell’Aragona, una situazione carica di tensioni e di pericoli.
Erano del resto quelli gli anni in cui, ovunque in Italia e in Europa, si cominciava a discutere sui problemi giuridici che stavano alla base del potere. Anni in cui la storiografia era impegnata non solo a esporre vicende accadute, ma a ricostruire, sul piano storico e su quello del diritto, la tradizione genealogica nella quale fissare gli anelli vitali e operanti che giustificassero de iure, sia nel Regno sia presso i potentati italiani e stranieri, la posizione di chi accentrava il potere nelle sue mani (Giunta, 1971, p. 82). Anni in cui in Sicilia, sulla scia probabilmente di Bartolo da Sassoferrato, si era andata consolidando un’ottica giuridico-istituzionale tesa a legittimare il diritto alla corona del giovane Martino e a celebrare la casa reale da un’angolazione decisamente isolana. Di tale tendenza precursore era stato Simone da Lentini, che nel sottolineare, nella Genealogia dei re di Sicilia, l’esigenza di legittimazione «dell’origine del potere del sovrano vivente» (Cronache siciliane dei secoli XIII-XV, p. 87), indicava una direttrice storiografica filoaragonese tesa a collegare il giovane Martino alla serie dei sovrani di Sicilia e dargli così legittimità successoria. Indicava appunto quella metodologia che emerge, per esempio, dai criteri suggeriti da vari sovrani d’Aragona sul modo di compilare i libri di storia (Rubió i Lluch, pp. 321 s., 328 s., 333 s. e passim) e dalla lettera del 29 giugno 1398, con la quale M. pregava il vescovo di Catania di trasmettergli tutte le testimonianze sui «fets que nos havem fets en Sicilia» e su quelli accaduti anche dopo la sua partenza dall’isola, in modo da poter «continuer nostres croniques» (ibid., pp. 399 s. docc. 449 s.). Metodologia applicata, con coerente disegno politico-istituzionale, nella Brevis cronica de factis insulae Siciliae, nella Cronica brevis, nell’Arbor genologie, cioè in tre testi redatti in ambienti assai vicini a M. e nei quali non solo gli anonimi autori fanno un quadro delle vicende dell’isola a iniziare dall’epoca saracena, ma affrontano il nodo della legittimità giuridico-istituzionale dei vari sovrani fino a Martino il Giovane, che conservò la corona continuando a intitolare gli atti di Cancelleria col proprio nome e con quello del padre (Zurita, c. 74).
Per il giovane re di Sicilia si presentava comunque la necessità di un nuovo matrimonio, nella speranza che almeno questo fosse fecondo. M. infatti, ossessionato dal timore che la mancanza di eredi creasse difficili e probabilmente insolubili problemi successori sia in Sicilia sia in Catalogna, senza interpellare quanti, nell’isola, pensavano già, per il sovrano, alle nozze con Giovanna d’Angiò e senza il consenso dello stesso interessato, impose al figlio il matrimonio con Bianca, figlia del re di Navarra. Sostenuta da Bernat Cabrera, Bianca giunse in Sicilia con numeroso seguito di cavalieri. Neanche da questa unione (per procura, nel Castello Ursino, il 21 maggio 1402), sacralizzata dalla solenne incoronazione nella cattedrale di Palermo (26 novembre), sarebbero venuti degli eredi.
Sono molte le fonti che registrano le difficoltà di Bianca di diventare madre, le spiegazioni scientifiche di un suo aborto, la nascita di un bimbo malaticcio morto dopo appena 8 mesi, le preoccupazioni di M. per la mancanza di un erede. In un momento, per giunta, in cui il Regno d’Aragona era oppresso da una strisciante crisi economica e da difficoltà finanziarie per la necessità di far fronte alle continue rivolte in Sardegna.
Martino il Giovane morì nella campagna militare contro la Sardegna (25 luglio 1409). La notizia, che raggiunse M. il 4 agosto, nella dimora di Bellesguart, riproponeva i problemi successori, rinfocolava interessi e antagonismi, prostrava e disorientava M. al punto da impedirgli materialmente, l’8 agosto, di porre la firma in una lettera spedita a Bianca (Zurita, c. 88).
Il testamento dettato dal figlio nel castello di Cagliari lo indicava suo erede universale, e quindi pure del Regno di Sicilia (cfr. Starrabba). L’antico sogno della casa aragonese finalmente si concretizzava: è del 5 ag. 1409 il primo documento di Cancelleria in cui M. II è indicato come «lo rey Daragò e de Sicilia» (Bofarull i Mascaró, p. 135 doc. 28).
L’unione delle due corone, che esprime il senso di quell’integrazione fra esigenze politiche della monarchia e istanze degli ambienti mercantili di Catalogna di cui parlano Vicens Vives e Vilar, poneva però non pochi problemi, specialmente per quel che si riferiva al nesso tra funzionalità sociale, vitalità politica ed esigenze di nuove strutture di comportamento e di comunicazione. E non tanto nel sistema di gestione della Sicilia, dove, secondo il volere del figlio, M. II confermava a Bianca i poteri del vicariato, ma negli equilibri interni garantiti dalla continuità dinastica al trono aragonese. M. II, sollecitato anche da Benedetto XIII, si convinse però che solo la presenza di un erede legittimo avrebbe potuto risolvere una crisi dinastica (anche gli altri figli di M. erano morti). Dopo la morte di Maria de Luna, a Vila Reyal, presso Valencia, il 20 dic. 1406, l’unica possibilità era un nuovo matrimonio. Il 17 sett. 1409 sposò la ventunenne Margherita, figlia del conte Pedro de Prades, che era stata dama di corte di Maria de Luna.
Le speranze di un figlio si affievolirono però ben presto e i problemi della successione rimasero disperatamente aperti. M. II aveva cinquant’anni, ma il lutto che lo aveva colpito e soprattutto la mancanza di un erede al trono d’Aragona, al quale era ormai formalmente annesso anche quello di Sicilia, lo intristivano. Di fronte a una crisi dinastica senza soluzione egli perse la sua tradizionale energia e la sua grande capacità di affrontare e risolvere anche le questioni che travalicavano l’ambito del Regno. Nel mese di maggio del 1410 M. II, che aveva lasciato la sede di Bellesguart, si trasferì a Valldonzella.
Era stanco, stremato, notevolmente appesantito. E preoccupato: aveva forse sbagliato tutto, specialmente col secondo matrimonio. Passava le giornate nel locale monastero cistercense nei cui ambienti si intratteneva con i frati, leggendo vite di santi, ascoltando poesie e sfogliando libri (cfr. Girona i Llagostera, L’extinció del casal…). M. II del resto aveva sempre avuto il gusto degli ambienti religiosi e dei conflitti intimi che marcano l’incertezza fra attaccamento alla fede e ossequio alla gerarchia. Dotato di profondo spirito di osservazione e di notevole curiosità, aveva spiccata sensibilità per ogni manifestazione culturale, in particolare per la storia, al cui studio era stato avviato dal padre, e per la meditazione.
La morte lo colse a Valldonzella, in una modesta cella, ospite della badessa zia della moglie. Era il 31 maggio 1410 e non era stato risolto il nodo della successione. Tutti gli Stati della Corona d’Aragona precipitarono in una profonda crisi.
Fonti e Bibl.: I documenti inediti sull’età dei due Martino sono ancora numerosi, gran parte dei quali conservati nell’Arch. di Stato di Palermo, nel fondo della Real Cancelleria e Protonotaro del Regno; altra documentazione è conservata a Barcellona, Archivo de la Corona de Aragón.
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