MARTÍNEZ de la ROSA, Francisco
Uomo politico e scrittore spagnolo, nato a Granata il 10 marzo 1787, morto a Madrid il 7 febbraio 1862. Studiò giurisprudenza all'università di Granata (1799-1804), ottenendovi poi una cattedra di filosofia (1807), da cui svolse un insegnamento eclettico, con prevalenza delle dottrine del Condillac. Sorpreso dall'invasione francese, il M. accettò con appassionata adesione la nuova realtà eroica, dalla quale la sua vita, fatta in sostanza per la mite oziosità delle lettere, fu proiettata in mezzo al dramma spirituale e politico che proprio allora viveva la Spagna. Accorso subito a Gibilterra e a Cadice, recatosi poi a Londra (1811), dove rassodò le sue idealità liberali e studiò da vicino la costituzione inglese, fu colto dalla restaurazione di Ferdinando VII come deputato alle Cortes che esprimevano le nuove aspirazioni politiche: sicché fu internato al Peñón de la Gomera (1814-1820), dove, più che meditare propositi di rivolta e chiarire a sé stesso le dottrine e le vie onde attuare le proprie concezioni liberali, formò una compagnia teatrale, a cui affidò qualche commedia. Con la rivolta di R. Riego (i gennaio 1820), il M. riacquistò la libertà, rientrando nella vita parlamentare con l'aureola del martirio; ma perdeva la facile popolarità schierandosi tra i moderati che intendevano accordare la costituzione del 1812 alle esigenze della monarchia. Chiamato a formare un ministero d'equilibrio, finì con l'attirarsi l'odio popolare pur la sua politica antidemagogica, e non riuscì neanche a conservarci la fiducia del re per l'opposizione ai suoi tentativi di regime assolutista e repressivo, finché, incapace di evitare la guerra civile, dovette dimettersi e subire, subito dopo, l'esilio in Francia (1823-1831). Durante questo periodo il M. continuava la sua attività artistica, che del resto non aveva mai interrotta, completando lavori anteriori e stendendone altri (Obras literarias, Parigi 1827, voll. 6), senza forti crisi spirituali né decise conversioni letterarie, nonostante la nuova atmosfera romantica che gli gravitava attorno. Dalla solitudine degli studî lo trasse la reggente Maria Cristina, con l'incarico di formare un ministero (1834), che diede appunto l'Estatuto Real, la costituzione cioè auspicata dai moderati. Dopo due anni torbidi e durissimi - e dovette far fronte alla crisi economico-sociale oltre che alla guerra carlista - si ritirò nuovamente a vita privata (a Parigi, 1840-1843), ritornando con la caduta di B. Espartero. Successivamente ambasciatore a Parigi (1844) e a Roma (1848-49), partecipò ancora al governo e fu più volte presidente delle Cortes, del Consiglio di stato, dell'Accademia spagnola.
Di natura mite e misurata, il M. tenne dietro al suo tempo, dotato d'un'istintiva docilità che gli permetteva d'accettare le nuove tendenze: come per lui il liberalismo perdeva gli aspetti estremisti e conseguenziarî e naturalmente s'inseriva entro la tradizione monarchica, così nel suo temperamento lirico la cultura contemporanea e le innovazioni letterarie si compenetravano nel suo connaturato classicismo (si veda la sua Arte poética, composta nel 1820 e ripresa nel 1827, condotta sulla precettistica del Boileau, con larga meditazione di quella oraziana e aristotelica), tanto da sembrare insensibile il trapasso al tenue romanticismo dei suoi drammi più maturi. Dal classicismo erotico e idillico di J. Meléndez Valdés al civismo letterario di M. J. Quintana, il M. temperò le varie tendenze del Settecento, in una poesia chiara e facile, fatta con eclettismo di atteggiamenti e di forme che traduceva una sua armonica misura spirituale. Le sue liriche, commemorative o madrigalesche (Poesías, Madrid 1833), e le sue commedie di stampo moratiniano (Lo que puede un empleo, 1812; La niña en casa y la madre en la máscara, 1821; Los celos incundados, 1833; La boda y el duelo, 1839; El Español en Venecia, 1843) hanno semplicità di temi e perspicuità stilistica. E se con La Viuda de Padilla (1814) il M. trasportava gli schemi politici della tragedia alfieriana e le ideologie francesi in un episodio di storia spagnola del sec. XVI, e con Morayma (1818) si ispirava alla tragedia neoclassica, col dramma invece più risolutamente storico (Aben Humeya, 1830; La conjuración de Venecia, 1830-1834) tentava, quasi sospinto dall'incalzare del gusto generale, il teatro romantico: fatto importante per la cultura spagnola più che per l'arte. Ma soprattutto nell'Edipo (1829) il M. concretò la docile e limpida classicità del suo lirismo, nello sforzo di adeguarsi se non all'arte di Sofocle, almeno ai valori umani della sua grande creatura. Uomo politico e letterato di transizione, al M. mancò quella mentalità intuitiva che anticipa i tempi, sebbene fosse sempre aperto tanto nella vita pubblica quanto in quella poetica, ai nuovi orientamenti, che in lui facevano presa per vie puramente sentimentali e quasi dilettantesche, senza una forte coscienza critica e ricostruttiva.
Opere ed ediz.: Zaragoza, poema, 1809; Traducción de la epístola de Horacio á los Pisones, Madrid 1820; Hernán Pérez del Pulgar: bosquejo histór., ivi 1834; Doña Isabel de Solbes (romanzo alla Walter Scott), ivi 1837; Discursos, ivi 1837; Libro de los niños, Parigi 1840; Bosquejo histórico de la política de Espana, Madrid 1857, di scarso valore; cfr. l'ed. delle Obras dramáticas, Madrid 1861, voll. 3; Obras completas, in Colec. de los mejores autores esp., XXVIII-XXXII.
Bibl.: M. Menéndez y Pelayo, in Estudios de crítica liter., I, Madrid 1884, pp. 223-272; J. Sarraihl, Un homme d'état espagnol: M. de la R., Bordeaux-Parigi 1930; L. de Sousa, M. de la R., político y poeta, Madrid 1930; F. Courtney Tarr, An unnoticed political article of M. de la R. (1812), in The Romanic Review, XXIII (1932), pp. 225-230.