Scorsese, Martin
Scorsese, Martin. ‒ Regista e sceneggiatore statunitense (n. New York 1942). Il suo stile si è fatto, con il trascorrere degli anni e dei film, più manierista e baroccheggiante. Magniloquente – e certo possente – è la personale ricostruzione della ‘nascita di una nazione’ e, soprattutto, di una città (assai sapientemente allestita da Dante Ferretti) costituita da Gangs of New York (2002; 2003). Storia della sanguinaria, granguignolesca lotta tra bande rivali, prima che New York divenga metropoli, che ancora una volta mette al centro della trama un confronto/conflitto tra un uomo adulto (detto ‘Bill il macellaio’, reso con gigionesca virtù da Daniel Day-Lewis) e un ragazzo (Leonardo Di Caprio), cresciuto senza il padre naturale e sotto l’infingarda ala protettiva di Bill, che glielo ha ucciso a sua insaputa. A quest’ultimo attore, che sembra aver rinnovato il rapporto e la funzione a suo tempo rivestiti da Robert De Niro, S. ha poi affidato il ruolo – leggendario – del petroliere/produttore Howard Hughes in The aviator (2004; 2005), pluripremiato con l’Oscar. Forse il film più spettacolare e ‘hollywoodiano’ di S., per il quale Di Caprio offre una magistrale interpretazione di una vita votata alla dissipazione. Nel 2006 S. torna a una forma più rigorosamente personale e più sapientemente calibrata con The departed (The departed – Il bene e il male; Oscar e Golden globe per il miglior regista), nel quale riesce a rinnovare – attraverso una storia di malavita, una variante possibile di Goodfellas (1990; Quei bravi ragazzi) ‒ la sua da sempre cardinale attenzione ai rapporti generazionali, sul tema della commistione/dicotomia tra bene e male, peccato e redenzione. E se Shutter Island (2010), storia di detenzione psichiatrica, è, con la sua profonda cupezza, anche visiva, un omaggio agli amati ‘B-movies’ d’epoca (gli anni Cinquanta), Hugo (2011; Hugo Cabret, 2012), che sembrerebbe più nelle corde di uno Spielberg, lo è alla magia del cinema, attraverso la dolente presenza del primo mago dello schermo, Georges Méliès, vecchio e dimenticato. Meno noti ma ragguardevoli sono i numerosi documentari, soprattutto musicali, fra i quali il fluviale No direction home: Bob Dylan (2005), ricco di molti e preziosi materiali di repertorio, Shine a light (2008), su un concerto dei Rolling stones, con molte loro testimonianze, A letter to Elia (2010, codiretto con Kent Jones), appassionato saggio critico e omaggio a Elia Kazan, che si collega idealmente ai precedenti e fondamentali documentari sul cinema americano e sul cinema italiano, e George Harrison: living in the material world (2011; 2012), bio-pic sul chitarrista dei Beatles.